ROCKETMAN di Dexter Fletcher

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Dopo aver sostituito Bryan Singer alla direzione di Bohemian Rhapsody, salvando il film e trasformandolo in un successo planetario, Dexter Fletcher può finalmente mostrare il suo talento senza il bagaglio di un “girato” che non gli appartiene. Ma la vera libertà è ancora lontana: nonostante Rocketman sia stilisticamente superiore al biopic sui Queen, si avverte la forte presenza di una produzione che appiattisce il narrato e lo schematizza sul modello del film che l’ha preceduto. Fletcher però scalpita, spinge, mira al cielo: pur tra le maglie di un vendibile prodotto commerciale, che inevitabilmente innesca un senso di déjà vu e di cui è facile prevedere lo schema sequenziale, il regista riesce ad apportare momenti di bellezza anarchica e orgogliosamente kitsch.

Abbracciando senza riserve il musical come genere amato e studiato attraverso i suoi codici mutevoli nel tempo, Fletcher sceglie di raccontare la vita di Elton John partendo proprio dalla musica. Ogni canzone innesca un ricordo, un movimento; Fletcher fa della musica uno strumento narrativo e una suggestione estetica, organizzando i movimenti di macchina e il ritmo delle sequenze affinchè si integrino perfettamente alla colonna sonora. Il brano diviene esso stesso storia – stato d’animo, ferita o sogno – attraverso la voce di Elton quanto degli altri personaggi, trasfigurando artisticamente l’esperienza esistenziale. Fletcher eleva il valore di ogni canzone a esperienza collettiva rafforzata attraverso il tempo, trasformata in illusione cinematografica e musicale.

Il suo istinto registico e l’amore per il genere lo portano a riattraversare il musical in percorso fatto di squarci e visioni, attraverso il quale riconosciamo lo spirito dei grandi – da Busby Berkeley a Bob Fosse, fino a Ken Russell di cui Fletcher fa la propria guida spirituale. E’ chiaro che quella di Fletcher è solo un’aspirazione: egli guarda alle fantasmagorie deliranti di Russell come si guarda alle stelle, con una tensione e un desiderio magnifico di cui permea ogni scena.
Talvolta Rocketman ricorda la grandezza della rock-opera Tommy (1975), sia nella potenza immaginativa (si pensi alla sequenza del razzo) che per intensità drammatica: e sarebbe stato bello se Fletcher avesse perseguito la sua inclinazione più autentica e naturale, quella alla follia, all’ebbrezza, all’onirismo iniziatico di cui Russell rappresentò l’artista d’elezione, il più colto e talentuoso, purtroppo oggi quasi dimenticato.

Ma Rocketman resta un instant movie, nato in seno a una tendenza e quindi riscrittura meno rigida di una fabula a noi nota, convenzionale e aderente alle regole del mercato. Bravissimo Taron Egerton, un Elton John vulnerabile e desiderante, finalmente non desessualizzato, mostrato nell’evidenza di pulsioni mai ammantate di puritanesimo; Fletcher sceglie la franchezza e si rifiuta di ascrivere il suo protagonista nell’empireo angelico dove risiede il Freddie Mercury di Bohemian Rhapsody.

SPECIALE DAVID LYNCH – UNA STORIA VERA (1999)

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La parte peggiore di essere vecchio è ricordare quando eri giovane” – Alvin Straight

Con Una storia vera – The straight story Lynch si avvicina al grande canto di un Edgar Lee Masters, di Walt Whitman, di Williams Carlos Williams per arrivare all’Erskine Caldwell de La via del tabacco. In ognuno di questi poeti e scrittori c’è un senso dell’umanità percepita nella sua naturale selvatichezza; elevata dalla ragione eppure schiava di una brutalità che appartiene all’ordine delle cose. L’uomo è terra e polvere, brillio di acque e frusciare di foglie nel vento (Withman), o disteso sulla terra tra fiori, bagnato di pioggia e impossibilitato all’amore (Williams); così Lynch ritrae l’uomo/natura, il cui corpo, “santo” alla maniera della beat generation, pulsa assieme ai ritmi del giorno e della notte, e cela segreti nel buio dei boschi.

Alvin Straight è parte delle stelle e della tempesta cui volge costantemente il suo sguardo. In una delle scene più emblematiche, Alvin si sofferma a guardare fuori della finestra mentre impazza un temporale (e contemporaneamente, Lynch ritaglia una “finestra” frontale per lo spettatore: una mise en abyme di sorprendente nitore). Lo scroscio della pioggia, la violenza del lampo sono lo spettacolo cui Alvin si abbandona: un cinema allestito dalla natura, uno schermo sulle mura della propria casa (quasi il rifugio di un animale che si ripara) da cui accedere a uno spettacolo esteriore/interiore. La luce del lampo balugina all’interno e illumina il viso stralunato di Alvin, in un’inquadratura che possiede i chiaroscuri contrastati e violenti dei primi piani di Jack Nance in Eraserhead. La poetica di Lynch, nelle diverse forme che assume, e nelle varie creature che compongono il suo universo, si concentra sempre sul riflesso delle cose sull’io; nel caso di Alvin, un io libero, testardo, schiavo di vizi; figlio dell’identità americana più agreste, fatta di whiskey, caccia, armi, difesa della ristretta cerchia di simili. E’ facile immaginarsi Alvin Straight come un personaggio di Spoon River che, in un malinconico epitaffio, racconti la propria vita e la perdita, le colpe, l’errore; una storia vera che allo stesso tempo demistifichi ed esalti la bellezza della vita rurale americana, con i suoi valori inseguiti e mai raggiunti, dietro una facciata di semplice, operoso candore.

La famiglia di Alvin e il suo pittoresco vicinato si assimilano al mondo descritto da John Ford ne La via del Tabacco (1941), il film tratto dal celebre romanzo di Erskine Caldwell: un microcosmo di creature ignoranti ed incantevoli, peccatori e innocenti, dimenticati da Dio e colmi di fede nella terra. Gli amici, i vicini, gli anziani frequentatori del bar, vivono una dimensione estranea al tempo e a processi di rinnovamento, chiusi in una quotidianità di negazione e ripetizione. Su tutti, si staglia indimenticabile la figura di Rose, la malinconica figlia di Alvin (una meravigliosa Sissy Spacek) per sempre prigioniera di un’infanzia eterna, dotata della concretezza ma anche dello smarrimento dei bambini. Una donna la cui incapacità di usare normalmente il linguaggio si fa metafora della sua condizione: ogni parola è strozzata in un singhiozzo, ogni frase inciampa e si blocca, pudica ed addolorata. Rose costruisce casette per uccelli in cui celare tutta la fragilità di un nucleo familiare immaginario: una dolcezza che cela sacrificio e silenzio.

Coerentemente a questo ruolo di cantore d’america, già evidente in film come Velluto Blu (1986) o Cuore Selvaggio (1990) ma apertamente dichiarato in The Straight Story, Lynch adatta il suo linguaggio ad una forma letteraria ordinata e armonica, quasi un poema in “stanze” separate dalla dissolvenza incrociata. Ogni singola scena è stata girata in ordine cronologico; le location che si susseguono sono i luoghi reali del percorso effettuato da Alvin (300 miglia) sul suo tosaerba. Un viaggio che diventa un’odissea subconscia.
Le scene seguono uno schema basico fatto di brevi incontri o illuminazioni: il cervo morto, la giovane autostoppista, la discesa, l’incendio, l’incontro col veterano, il dialogo con il prete nel cimitero. Episodi simbolici di temi universali, quali il senso di colpa, la perdita, la mortalità e la redenzione. A dispetto di una levità che sembra informare di sé ogni scena, percepiamo il peso dell’oscurità, dei segreti, delle deviazioni: l’intero viaggio è una lotta tra il buio e la luce, tra l’amore come forza capace di riscattare il male vissuto e inflitto, e il peso delle crudeltà del vivere.

Il road movie secondo Lynch non è un film di “scoperta” della realtà esterna, ma un’avventura interiore; i paesaggi non possiedono la forza dirompente di una visione nuova, ma racchiudono la malinconia del ricordo. Una sensibilità che ricorda molto sia il lirismo di Nicholas Ray (omaggiato da Lynch in un senso fortemente romantico del colore) che l’aura di trascendenza dei film di Terrence Malick, sospesi, come lo sguardo di Alvin, tra sogno e osservazione delle cose naturali: cose, praterie, animali, alberi.

Tutto il paesaggio del Midwest è protagonista del film, e viene utilizzato da Lynch in campi lunghi, riprese dall’alto o inquadrature notturne contrastate e espressioniste, che accentuano il raccoglimento spirituale di Alvin. Questa specificità stilistica inserisce The Straight Story all’interno di una ricerca fortemente sperimentale. Sembra paradossale, ma è proprio nel raccontare questa “storia semplice” che Lynch si serve di tutto il suo controllo registico, teso ad una limpidezza fenomenologica capace di trasformarsi in astrazione: “Non so spiegarlo, ma avvertivo la necessità di un cambiamento. La violenza e le oscenità sullo schermo sono state spinte all’estremo assurdo, fino al punto in cui non si sente più niente. (…) Sentivo qualcosa di differente nell’aria. La tenerezza può essere altrettanto astratta della follia.”

[Lo Speciale continua: The Elephant ManEraserhead]

SPECIALE DAVID LYNCH – ERASERHEAD (1977)

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Eraserhead, il primo film realizzato da David Lynch nel 1977, ha da poco superato i 40 anni. Amato da Kubrick, che lo proiettava durante la lavorazione di Shining per trasmettere inquietudine ai propri attori, il film è stato oggetto di molteplici e contraddittorie interpretazioni. In realtà, David Lynch non ama discuterne il significato: “Ogni spettatore è differente, e reagisce in modo diverso. Mi piace che ognuno formi una propria idea; ma allo stesso tempo, che io sappia, nessuno ha visto il film nel modo in cui io lo vedo. L’interpretazione di ciò che accade non è mai stata la mia interpretazione.”

L’originalità di Eraserhead, divenuto un’opera seminale del cinema indipendente americano, sta nella sua estetica industriale del tutto inedita negli anni in cui fu concepito. Lynch assorbì il clima dell’epoca traducendolo in una visione di cupa e intollerabile angoscia; quello che per molti è il film più insano e delirante del regista, è in un certo senso il più realistico nella rappresentazione dello stato d’animo contemporaneo.
Eraserhead tralascia qualsiasi intento narrativo e psicologico per farsi sentimento, paesaggio interiore, attraverso quadri inquietanti, presenze e rumori. Protagonista è il disagio di vivere, l’ansia divorante, il nero malessere esistenziale tradotti in rumori assordanti e chiaroscuri violenti, in un mondo soffocante e insensato quanto la misera realtà urbana. I contrasti, quei neri che tutto assorbono e celano, e gli improvvisi squarci di luce tagliente, compongono il reale di Henry Spencer, personaggio dallo sguardo attonito, con una capigliatura che è il correlativo oggettivo del suo atteggiamento verso le cose.

Henry ha una moglie isterica che ha appena partorito un “figlio” deforme dall’aspetto di capra scuoiata: un orrore con cui egli si ritrova a convivere quotidianamente, nel suo disperato tentativo di riprodurre uno schema di vita apparentemente normale. Ma l’esistenza di Henry è un simulacro che rivela la sua oscena bizzarria ovunque: nelle cene ripetitive con la famiglia, attorno ad una tavolo in cui il cibo diviene corpo vivo e stillante sangue; nei discorsi, surreali vocalizzi gutturali; nei mobili dell’appartamento, in cui si nasconde una bianca cantante, un angelo deforme che schiaccia embrioni sorridendo; e infine nelle notti lunghe e esasperate, immobilizzazioni forzate in un letto dove risuonano le urla repellenti del figlio.

Questo teatro dell’assurdo non manca di una sua feroce ironia, ma è difficile non essere sopraffatti dalle sequenze tetre e senza scampo, dalla fotografia funebre e metallica, dalla colonna sonora – così ingombrante da farsi personaggio – di un film completamente proteso verso un’artistica, minuziosa, gravosa angoscia. In Eraserhead il quotidiano è il portatore di un tumore che si innesta nell’uomo e lo degrada giorno dopo giorno; Lynch ci immette in questa degenerazione utilizzando una tecnica quasi ipnotica (è proprio in questi anni che Lynch si appassiona alla meditazione trascendentale).
Eraserhead coivolge tutti i nostri sensi: ci lacera gli occhi con immagini oltraggiose per contenuto e composizione visiva, violenta le nostre orecchie con suoni che permeano, in una continuità ossessiva e paranoica, ogni inquadratura. Si tratta di un’esperienza cinematografica totale, un film unico per intenti e risultati.
Non c’è riscatto, non c’è salvezza per l’antieroe Henry, cui non resta che assecondare il suo destino e diventare parte (in senso grottescamente fisico, col suo cervello trasformato in gomma da cancellare) della società che disumanizza, produce e fagocita. La vita è grigiore, automatismo in cui i germi di umanità vanno mutandosi e degradandosi. Un capolavoro, un film puro che continua a turbare l’inconscio degli spettatori attraverso le generazioni.

[Lo Speciale continua: The Elephant Man – Una storia vera]

SPECIALE DAVID LYNCH – THE ELEPHANT MAN (1980)

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Dopo quasi 40 anni, The Elephant Man di David Lynch è un film ancora molto amato e conosciuto; è un’opera che ha avuto il potere di lasciare un ricordo indelebile, una commozione viva e presente a dispetto del tempo. La dolorosa, poetica biografia di John Merrick (magistralmente interpretato da John Hurt) è tra i suoi film più accessibili; ma è anche un film autenticamente “di Lynch”, in cui la mediazione attraverso il mainstream nulla toglie alla specificità della sua arte, qui esercitata in modo più sottile, ma profondamente autentico. E’ impossibile, conoscendo il Lynch dei decenni successivi (fino allo scoperto sperimentalismo di Twin Peaks 3) non constatare come le sue ossessioni – si tratti di elementi del linguaggio o inquadrature ricorrenti – siano rimaste intatte: panorami “industriali” avvolti nel fumo, soggettive perdute lentamente nel cielo, primi piani di fiamme, dissolvenze incrociate, esplorazioni incantatorie di un volto, fino alla “caduta in abisso” in un vuoto nero e indefinito.

E’ un film meraviglioso, in cui Lynch ha raggiunto degli equilibri perfetti. Eppure alcuni critici, all’epoca, tacciarono il film di sentimentalismo: mai accusa fu più infondata. The Elephant Man, al contrario, ci dà la misura della differenza tra banale sentimentalismo e commozione vera: la delicatezza di ogni scena è affrontata con immenso pudore e i momenti strazianti, spesso insostenibili, sono sempre circoscritti dall’amore per il personaggio. Lynch è sinceramente umanista e ciò rende il film ancora più doloroso: il suo sguardo è colmo di rispetto, la macchina da presa è il riflesso del suo spirito illuminato. John Merrick non viene mai sfruttato, nè mai viene cercata la lacrima che blandisca il pubblico: lo squarcio che si apre nel cuore di chi guarda non trova alcun conforto nella lucidità della narrazione lynchana. L’unico potere di trasfigurazione viene offerto dall’arte: ecco quindi che Merrick diventa un Romeo shakespeariano agli occhi di Madge Kendal (Anne Bancroft), o compone la sua disperazione nelle armonie della sua cattedrale in miniatura.

Impossibile, guardando The Elephant Man, non pensare a tanto cinema classico: il film riluce di un’aura suggestiva da cinema muto, sia per estetiche che per procedimenti narrativi, su cui si innesta l’avanguardia del regista. Tornano alla mente non solo Il gobbo di Notre Dame (1923), con Lon Chaney nei panni del protagonista, ma soprattutto L’uomo che ride (1928): l’atmosfera malata del circo, la derisione del pubblico, la sofferenza ineluttabile del protagonista sembrano mutuati dall’archetipica opera di Paul Leni. E c’è ovviamente il classico dei classici sui “mostri”: Freaks (1932) di Tod Browning, scopertamente omaggiato nella parte finale.
Tante influenze non ne intaccano lo stile personale, in cui rintracciare l’eterno movimento circolare del regista intorno ai temi prediletti della sua poetica: le deformità, le anomalie, la “bellezza di una ferita”, l’interconnessione di sogno e realtà, l’incanto nei confronti de Il Mago di Oz (1939) di Fleming (evidente nella sequenza dello spettacolo teatrale). Ed è nella straordinaria chiusa che Lynch esprime tutta la sua dichiarazione di fede, per mezzo dei versi di Lord Alfred Tennyson: “Mai. Oh, mai. Niente morirà mai. L’acqua scorre. Il vento soffia. La nuvola fugge. Il cuore batte. Niente muore.”

[Lo Speciale continua: EraserheadUna storia vera]

L’ANGELO DEL MALE – BRIGHTBURN di David Yarovesky

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Premessa: il film, nella sua versione italiana, è censurato maldestramente di circa 1 minuto di momenti splatter, essenziali al racconto e all’integrità artistica dell’opera.

Il miglior film horror della stagione. Scritto da Brian e Mark Gunn (rispettivamente fratello e cugino di James Gunn, qui in veste di produttore), e diretto da David Yarovesky, il film si pone come un esperimento radicale volto a terremotare l’asfittico panorama horror statunitense. Con le sue radici profondamente innestate tanto nell’horror quanto nel superhero movie, L’Angelo del Male – Brightburn ci trascina lontano dal teen horror, stilisticamente e nel pensiero che lo anima: ai suoi autori non interessa rassicurare un pubblico adolescente, circoscriverne l’esperienza orrorifica in un parco giochi variamente allestito con jump scares, movimenti di macchina virtuosistici (atti a innescare una posticcia vertigine) e di marcata teatralità; Brightburn riporta l’horror ad una terra di nessuno, sradicando violentemente lo spettatore da una comfort zone di contenuti e stili familiari. Il rischio possibile è il rigetto da parte di un pubblico ormai a disagio nella libertà di un cinema sfrenato: Brightburn è puro piacere degli occhi, è cinema che non esita a lanciarsi in derive surrealiste e soluzioni visive che lasciano senza fiato.

Il regista affronta questo materiale abbandonando, in primo luogo, il vizio di riprese circolari e piani sequenza digitali per concentrarsi su coordinate orizzontali e verticali. Il piano orizzontale è quello umano, inquadrato spesso in campo lungo; quello verticale è il piano del giovane Brandon Breyer, teso costantemente a elevarsi verso quel cielo dal quale è piombato.
Regista e scrittore rovesciano la figura del supereroe sfruttandone i suoi motivi ricorrenti: la diversità, il potere, la dicotomia con l’umano. Malato di un superomismo nietzscheano portato sino alle più estreme conseguenze, il giovane protagonista è un Damien (cfr. The Omen II, 1978) in maschera e mantello, un Superman pubescente di spietata ambizione e ferocia.
Magnificamente interpretato da Jackson A. Dunn, che abbandona le tipiche leziosità di tanti bambini dell’horror contemporaneo, Brandon riesce a suscitare sentimenti opposti in chi guarda: talora silenziosamente affranto, altre crudelmente distaccato o perverso, egli incarna metaforicamente anche la paura genitoriale del figlio come estraneo: cosa che rende lo script di Brian e Mark Gunn estremamente coraggioso.

In una società americana che, anche attraverso la propria produzione cinematografica, presenta la famiglia come nucleo salvifico e necessario, Brightburn riporta nell’horror il concetto di inconoscibilità dell’altro, soprattutto all’interno del nucleo familiare (tema affrontato anche da Jordan Peele in Us). Elizabeth Banks, come Tilda Swinton in …E ora parliamo di Kevin (2011), scopre lentamente la natura “aliena” e malvagia del figlio: BrightBurn ha la forza del miglior cinema drammatico nell’analizzare lo smarrimento dei genitori di fronte a una realtà in frantumi; ma questa riflessione non viene mai ostentata, bensì trattenuta all’interno di una cifra stilistica orgogliosamente orrorifica.

Facendo proprio lo “stato di coscienza” malsano di tanto horror anni ’70 (quanti Angeli del Male troviamo in quel cinema?), Yarovesky mette in scena il germe malato che corrode il progetto familiare; e allo stesso tempo ci racconta il deragliamento del Nuovo Sogno Americano, rappresentato dalla fissazione in forma ossessiva sulla figura del supereroe. BrightBurn nasce dal cinecomic e ne diviene, con una crudeltà spietata e ludica, l’antitesi fieramente degenerata; Yarovesky gira in modo asciutto, essenziale, con la concentrazione allo stesso tempo concreta e trascendente dei migliori B movies.
La bellezza del film risiede nella sua assenza di pudore: è cinema che osa, e ha il suo coronamento in un finale che cita Cocteau e il volo surrealista de La Bella e La Bestia (1946), trasfigurandolo in incubo senza speranza.

DOLOR Y GLORIA di Pedro Almodóvar

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L’eterno e reciproco riflesso dell’arte sulla vita, i paradossi della creazione, la cognizione del dolore e l’amore alla luce del ricordo: anche Pedro Almodóvar, come già accaduto a tanti altri artisti passati e presenti, si trova a dover fare i conti con la rielaborazione di quel furore di cui ha intessuto esistenza e produzione artistica. Il suo Salvador Mallo, depresso e provato dalla malattia, ripercorre il passato – in forme episodiche, casuali, talvolta “incidenti” della realtà, altrove carezze della memoria – cercando di ricomporre la propria identità frantumata e smarrita.
Salvador come personaggio pluridimensionale, figlio del ‘900; uno, nessuno e centomila, incapace di riconoscere se stesso e quindi di esprimere il proprio sguardo artistico sul mondo. Sarà proprio il percorso a ritroso a ricostituire in unità la sua personalità spezzata; una salvezza in forma di luce, capace di rinnovare il suo impulso creativo.

Vi è una grande bellezza nella sostanza filosofica di Dolor y Gloria, che però non trova un “correlativo oggettivo” nelle immagini del film. Tanto tumulto interiore e una scarnificazione così profonda e autobiografica vengono codificati da Almodóvar in immagini di grande immobilismo, estremamente curate dal punto di vista scenografico, ma povere di vita.
Affindandosi esclusivamente ad una narrazione dialogica, abbracciata da Almodóvar senza freni – uno stato di puro abbandono verbale – Dolor y Gloria rinuncia quasi completamente al movimento: il film si compone di inquadrature fisse, in cui i volti in primo piano si stagliano su pareti di geometrica astrazione (carte da parati, quadri simmetricamente disposti) e dai cromatismi accentuati.

Come sempre accade nel cinema di Almodóvar, la scenografia diviene una prepotente componente emotiva, ma in Dolor y Gloria diventa “segno” cinematografico dominante di un film che, nella sua quasi totalità, sembra rinunciare al cinema in favore di una “forma” televisiva: dalla predilezione per il primo piano alle riprese in interni (dove si consumano confessioni rivelatorie) secondo standard comuni a molta fiction.
A spezzare questa estetica monotona intervengono ogni tanto jump cuts utilizzati per simboleggiare la frammentarietà dell’esperienza di Salvador; Almodóvar ricorre ad un montaggio fatto di sussulti, quasi improvvisi batticuori: ma la forma dell’opera resta spuria, una “serie” composta da episodi in forma sequenziale e legati dalle memorie dell’infanzia (le quali rivelano la propria natura di strumento narrativo proprio nel finale).

Dolor y Gloria è un film interiore, rivolto all’interno dell’anima almodovariana, poco desideroso di comunicare con lo spettatore; al regista interessa condurre il pubblico dentro le proprie ossessioni, oscurità, concedendogli quei piaceri estetici specifici del suo cinema, ma senza un vero dialogo con gli occhi di chi guarda. E’ un dialogo con se stesso, sulle proprie scelte di vita e sulla strada autoriale percorsa, con tutti i dubbi, il senso di fallimento e i riscatti che tale dialogo comporta.
Per molti aspetti, Dolor y Gloria ricorda Mia Madre di Moretti: con la differenza che l’opera di Moretti si configurava come riflessione profonda e sofferta sull’arte cinematografica – sofferenza innescata dalla perdita della figura materna, in un cortocircuito di arte e vita estremamente commoventi. Almodóvar invece sembra prediligere un narcisismo autoindulgente, privo di immagini davvero significanti. E trova il suo alter ego d’elezione in un Banderas mai così innamorato di se stesso: la sua interpretazione di Salvador trasuda maniera e finzione, al punto da rendere problematica l’adesione emotiva al personaggio.

 

JOHN WICK 3 – PARABELLUM di Chad Stahelski

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E’ il nostro fuck you a tutti gli altri film d’azione. (…). Abbiamo fatto di tutto e meglio di chiunque altro. La nostra è una sfida. Ci siamo stancati di vedere gli altri diventare così pigri e approssimativi.”
(Chad Stahelski Interview, Collider, March 21, 2019).
La breve dichiarazione di Stahelski è il perfetto manifesto per un rinnovamento del cinema action, ormai realizzato prevalentemente da “seconde unità”, da team di controfigure professioniste e soprattutto attraverso il pesante intervento della CGI: Stahelski, col suo passato di stuntman, riporta l’action al suo valore di universo autoriale, di cui ogni elemento – luci, costumi, design, atmosfere, fino al più piccolo oggetto – è parte integrante.

John Wick 3 – Parabellum nasce innanzitutto da una tensione ad una cinefilia pura: l’amore per i classici swashbucklers di Douglas Fairbanks e Erroll Flynn (film d’avventura celebri per gli spettacolari stunt), per le arti marziali (ritroviamo sia gli attori di The Raid che il Marc Dacascos di Crying Freeman), ma anche per il western, omaggiato in una delle sequenze d’azione più iperboliche mai viste al cinema negli ultimi anni.
All’interno di una dimensione di cinema totale (in cui l’azione convive con una pluralità di generi, inclusa la commedia slapstick) il corpo degli attori, accarezzato attraverso memorie di cristallo e proiettato in un futuro di forme, linee e luci, diventa protagonista: si esprime attraverso nuovi movimenti, nuove soluzioni in rapporto con uno spazio di stilizzata coerenza visiva. Puro futurismo e dinamicità: Stahelski è un fisico, il suo cinema si fonda su grandezze, principi, interazioni e leggi. Ogni attore, sia essere umano che animale, presta se stesso con totale abnegazione alla scienza del suo cinema; mentre l’apporto fondamentale del direttore della fotografia (il grande Dan Laustsen), permette di creare le illusioni luministiche, i bagni di colore, i chiaroscuri in cui il movimento si esalta fino ad una sublime astrazione.

Violento e ludico nei contenuti, il cinema di Stahelski è, paradossalmente, fortemente “etico” per il suo senso di responsabilità tanto nei confronti dell’essenza artistica del mezzo-cinema quanto del suo pubblico. Stahelski rifiuta l’artificio della computer graphic, le scorciatoie di un montaggio accelerato o di sequenze ipercinetiche: la saga di John Wick aborrisce anonimato e sciatteria.
Il regista, assieme al suo team, è “autore” di ogni scena; pone nuove sfide ad un genere esausto, rinnovandolo attraverso il realismo di combattimenti coreografati, filmati spesso senza l’ausilio di una colonna sonora, affinchè ci si possa concentrare sul tonfo di corpi che sbattono a terra, sui colpi sordi, sui respiri ansimanti.

New York è un meraviglioso set bagnato di pioggia, in cui liberare cavalli, motociclette, ninja assassini o in cui improvvisare una lotta a colpi di libri nella Public Library. Ogni elemento dello spazio concorre a creare una musica visiva, mentre Keanu Reeves è un Gene Kelly dell’action, capace di danze impossibili pur con un corpo reale e “pesante”.
Ritmo, narrazione, simbolo, personaggi-funzioni (La Giudicatrice, Il Re, L’Assassina) il cui compito è di echeggiare una mitologia antica perpetuata nel presente: John Wick 3 – Parabellum è bellezza astratta che nasce da un lavoro concreto, un impegno d’arte e d’amore che trova nella realtà la sua arma principale.

STANLIO & OLLIO di Jon S. Baird

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Educato, sottile, antisensazionalistico: queste le caratteristiche del biopic di Jon S. Baird, attento alle impercettibili sfumature di un rapporto oltre ogni ordinarietà. Aderendo fieramente ad un senso tradizionale del racconto, Baird rifiuta qualsiasi decostruzione strutturale in senso postmoderno (strada che il regista aveva esplorato in Filth, 2013) e si concentra sui due protagonisti, concedendosi appena qualche virtuosismo registico: infiorescenze poetiche che non distolgono dalla delicata osservazione della coppia, di cui la sceneggiatura (di Jeff Pope) coglie l’affinità elettiva.

Scegliendo di isolare i mesi del 1953, che vedono il duo impegnato in un faticoso ma ancora magico tour, l’ultima polvere di stelle, Baird focalizza l’attenzione sul tramonto dei due artisti, sulle difficoltà economiche e le umiliazioni affrontate con una cristallina dignità; ma ancor di più sulla fede nell’amicizia che li lega. Stan e Ollie vivono una complicità umana e artistica dai caratteri unici: perfettamente complementari, sono l’uno la scintilla comica dell’altro; la loro arte è la sublimazione del vivere in un nonsense di assoluta innocenza.

Baird sottolinea la loro fede nel potere di trasfigurazione dell’arte ricostruendo artificialmente gli esterni, con un effetto di “falsità”: cieli dipinti, palazzi come oggetti d’arte stagliati su strade vuote e illuminate da luci dorate, città come immensi set.
La vita come eterno palcoscenico, su cui Stan & Ollie si muovono in una perenne performance: i due attori riproducono alcuni tra i loro più celebri sketch all’interno di situazioni quotidiane, per colorare anche la più triste delle situazioni; così come si ostinano a scrivere gag e dialoghi per un film che non sarà mai.

Non si tratta di banale identificazione con i propri ruoli – anzi, Stan e Ollie sono ben consci del divario tra realtà e illusione – bensì di una tensione insopprimibile all’arte, per rendere accettabile la vita. Il film di Baird, nella sua semplicità che sfiora la convenzione, cela un nucleo di profondità filosofica, una riflessione lirica e colma di pudore sull’arte come superamento ideale delle fragilità e dei limiti umani. Fragilità che i due comici portano sul proprio corpo senza falsi pudori, rispondendo alle battute di chi si sorprende nel vederli ancora in scena: “non è ancora sopraggiunto il rigor mortis”.

John C. Reilly e Steve Coogan offrono due prove incredibili: la classe, l’irraggiungibilità dei due attori risiede in una capacità che va oltre il puro mimetismo. Senza la benchè minima concessione a cliché o facili imitazioni, Reilly e Coogan interiorizzano, con tutto l’amore possibile, sguardi, gesti, movimenti e il repertorio immortale della coppia, sfuggendo a qualsiasi flessione caricaturale. Si ride guardandoli, senza sapere se il nostro sorriso sia per gli attori di oggi o quelli di ieri; il tempo scompare, presente e passato si sovrappongono, resta l’astrazione di un’arte comica che sfida l’eternità.
Per Stan Laurel e Oliver Hardy la “coppia” aveva un valore sacramentale, ben oltre il mero ambito spettacolare o commerciale: Baird ha il coraggio di mostrarceli vicini, sdraiati su un letto mano nella mano, vecchi e sfruttati; eppure ancora illuminati dal desiderio di trovarsi insieme sulla scena, di scrivere nuove battute, di perfezionare gag classiche, di “danzare” seguendo tempi, ritmi, codici segreti di un linguaggio comune.

TED BUNDY – FASCINO CRIMINALE di Joe Berlinger

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Nient’altro che un banale courtroom drama, privo di immagini significanti e lacunoso narrativamente: a questo si riduce Ted Bundy – Fascino criminale, opera preceduta da una docu-serie di qualche mese fa, notevolissima dal punto di vista formale quanto nell’organizzazione narrativa della quantità di materiali d’archivio. Si stenta quasi a credere che Joe Berlinger sia l’autore di entrambi: il film nasce difatti da una scrittura debole, anticlimatica e frettolosa, là dove il documentario stratificava i livelli del racconto fino a creare una complessa orchestrazione corale, in grado di modulare i vari aspetti di un criminale fuori dall’ordinario, tra i più feroci e inafferrabili serial killer della storia.

Con uno sguardo che non appartiene né a Elizabeth, sua ignara fidanzata, né allo stesso Bundy, Berliger racconta attenendosi ad un punto di vista “esterno” e gestendo alternativamente le due prospettive. Percepiamo la sua invadenza nel tagliare porzioni significative di storia, approfondirne altre di nessuna importanza, attribuire arbitrariamente sentimenti (come le lacrime di Bundy alla lettura del verdetto). L’obbiettivo del regista è quello di schematizzare i personaggi (bravo Zac Efron, nonostante la sua corporeità sia del tutto incompatibile con l’originale), semplificare i fatti, normalizzare l’espressione di emozioni e sentimenti in modo da rendere il prodotto perfettamente fruibile da un pubblico eterogeneo.

Paradossalmente, Ted Bundy – Fascino criminale è compromesso da una mediocrità segnica puramente televisiva molto di più della serie documentaria: come tanti “film Netflix”, il film di Berlinger si configura come “instant movie” di pronto consumo, dalle caratteristiche estetiche/narrative/fotografiche omogeneizzate secondo precise linee editoriali.
Ted Bundy – Fascino criminale è costruito per far sentire lo spettatore a suo agio in una dimensione di modernità, brillante acutezza e nera ironia: predilige l’uso di jump cuts, presta molta attenzione ad ambientazione e costumi, inserisce brani pop per creare un contrasto con la drammaticità della storia; tutte tecniche cui la televisione contemporanea ci ha abituato, modellando il gusto e serializzando la produzione in un format di sfavillante professionalismo ma vuoto al suo interno.

I personaggi si muovono vaghi, opachi, meri agenti di una storia mortificata tanto nella sua risonanza che nel suo potenziale drammatico; la cronologia degli eventi appare incomprensibile, così come sfugge la portata degli eventi sull’immaginario collettivo. L’operato di Bundy, la sua apparente normalità culminata in eccezionalità mediatica cambiarono per sempre la società e la cultura; ma quello di Berlinger resta un film di superfici, di figure umane senza storia e senza psiche, di fatti che precipitano senza mai diventare voragini. Ted Bundy: fascino criminale danza sul bordo di quell’ignoto nero e insondabile che è l’animo umano, senza mai guardarvi dentro.

I FRATELLI SISTERS di Jacques Audiard

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Il western è divenuto ormai categoria dello spirito; non sono pochi, nell’ambito del cinema contemporaneo, ad averlo rivisitato in chiave personale: Quentin Tarantino (Django, The Hateful Eight), i fratelli Coen (Il Grinta, La Ballata di Buster Scruggs), lo sceneggiatore Taylor Sheridan (cui si devono i bellissimi neo-westerns Hell or High Water e Wind River), il danese Kristian Levring con il suggestivo, smaterializzato The Salvation, fino alle contaminazioni horror di S. Craig Zahler in Bone Tomahawk, per citarne alcuni.
Il western dunque come contesto spirituale ed estetico su cui esercitare le proprie ossessioni, la propria visione del cinema e dell’immagine; terreno di ricordi, immaginazioni e proiezioni. In questo senso, I fratelli Sisters diventa, per Audiard, un set in cui appropriarsi dei codici del western per ribaltarli alla luce di una interiorizzazione che trasfigura il classicismo del genere in una forma instabile, volutamente irrisolta, fremente di contaminazioni.

Sparisce, innanzitutto, lo spazio: il western di Audiard somiglia a cinema da camera; alle praterie, alla meraviglia dei campi lunghi di Ford o Peckinpah il regista francese sostituisce la claustrofobia di inquadrature serrate sui due personaggi e porzioni di paesaggio circoscritte: da limiti naturali (alberi, pendii), dalla luce (un fuoco che restringe le possibilità dello sguardo), o dalle pareti di interni (saloon, stanze d’albergo). I fratelli Sisters è un film senza spazi – non possiede nemmeno i luoghi metafisici degli spaghetti westerns – ma anche senza colori: ai tipici cromatismi accesi tanto di Ford quanto di Hawks o George Stevens (fino ai malinconici cieli azzurri di Arthur Penn in Little Big Man), Audiard sostituisce un grigioverde monocromo. Il sentimento che percorre l’opera è il senso della fine, non le aspre contraddizioni della conquista: non vi è colore febbrile, ma spento e funebre.

In queste “camere” di grigio esistenzialismo, Audiard colloca i suoi protagonisti, affindando loro dialoghi estenuati da ricordi, notazioni oniriche, esplorazioni sottili dell’io. La schiettezza di “The Duke” scompare tanto quanto i mutismi dei caratteri delle opere di Sergio Leone: le figure di I fratelli Sisters si interrogano costantemente in un flusso di coscienza talora pulsionale (come Charlie/Joaquin Phoenix) talora sorprendentemente educato e gentile (si pensi ai diari di Morris/Jake Gyllenhaal). Audiard sceglie anche una biforcazione narrativa che sposta continuamente l’attenzione dello spettatore e predilige scene frammentarie, lampi significativi di un “falso movimento” verso destini impossibili. E’ un film dal percorso circolare, un eterno ritorno all’origine cui i protagonisti giungono privi di trasformazione, condannati dalla propria natura e dalla presenza dell’altro; una tragedia senza catarsi. Pessimista come il Sartre di A porte chiuse, Audiard mette in scena un inferno terreno di cupo nichilismo, dalla matrice prevalentemente europea.

John C. Reilly è meraviglioso nel suo ruolo, roso dal dubbio e dal rimorso, mosso dal desiderio di elevazione, oppure in preda a pulsioni feticistiche simili a quelle di Scottie (James Stewart) nei confronti di Judy/Madeleine (Kim Novak) in Vertigo. Reilly è la parte più umana e straziante di I fratelli Sisters, opera che spesso, proprio per le forzature autoriali cui Audiard costringe (coraggiosamente) il genere, risulta velleitaria: il regista moltiplica i punti di vista, mette insieme soggettive, sguardi in macchina dei protagonisti, prospettive subacquee, alla ricerca di un insistito revisionismo del genere. I fratelli Sisters, affascinante per l’originalità dell’approccio, è un film perso all’interno di se stesso. Una sfocatura western, un film vissuto quasi ad occhi chiusi.