100 anni di Takamine Hideko

27 marzo 1924 – 27 marzo 2024

Takamine Hideko possiede la bellezza dell’amore e il mistero dei fenomeni naturali. Guardarla sullo schermo significa non solo vivere un universo di sentimenti ed emozioni espressi con delicatezza spontanea e leggera, ma diventare parte di un’esistenza parallela, di mondi che prendono vita solo per la sua stupefacente presenza. Al suo passaggio, la finzione cessa d’essere mera finzione: le mille vite di Takamine Hideko sono nostre.
Antidiva e vera, scelse intenzionalmente di ritrarre donne comuni, sentimenti quotidiani e reali ma non per questo meno avvincenti o tempestosi. Nella sua lunga e ininterrotta carriera durata cinquant’anni lavorò con tutti i più grandi registi del Giappone ( tra cui Gosho Heinosuke, Toyoda Shirō, Kobayashi Masaki). Ozu Yasujirō la scelse come attrice bambina per Tokyo Chorus (1931), e successivamente le affidò il ruolo dell’irruente e anticonformista Mariko ne Le sorelle Munekata (1950), che la giovane Takamine interpretò con fremente vitalità e spirito da grande commediante. Ma furono Kinoshita Keisuke (con cui girò 12 film) e ancor di più Naruse Mikio (che la volle come protagonista in 17 film) a lasciarsi abbagliare dalla sua luce e metterla al centro dello schermo per incarnare “tutte le donne”: personaggi comuni – autiste di bus, insegnanti, ballerine, mogli, madri, amanti appassionate, giovani indipendenti alla ricerca di riscatto, figure idealiste colme di speranze e futuro o ferite violentemente dal destino.

Takamine fu in grado di calarsi naturalisticamente in ciascuna di loro, portando una intensa sensibilità e la verità di un sorriso pulito e autentico. La sua recitazione fresca, immediata, talora bollente, reca il mistero del vivere e un’ostinata irriducibilità che non arretra nemmeno di fronte alle onde travolgenti del destino. Tra i film girati con Naruse troviamo grandi capolavori come Lightning (1951), racconto di formazione di straordinaria modernità; Floating Clouds (1955), tragica vicenda amorosa che anticipa la Nouvelle Vague sia per sensibilità che struttura formale, opera ipnotica e immersa in un dolore esistenzialista, in cui Takamine appare luminosa come un sogno; When a woman ascends the stairs (1960) sulla difficile vita delle donne che lavorano nei bar dell’elegante e urbano distretto di Ginza.

Nel 1954, sul set di Twenty-four Eyes, si innamora di Zenzō Matsuyama, giovane sceneggiatore: il matrimonio tra la diva e l’anonimo scrittore suscita scalpore, ma i due restano insieme tutta la vita, formando un duo artistico indissolubile, fatto di corrispondenza di amorosi sensi e affinità artistiche elettive. Spiriti poetici e appassionati, moderni e irrequieti, realizzano film anticonformisti e lacerati da impeti progressisti e tensioni di futuro, come Happiness of us alone (1961) incentrato su una coppia di sordomuti, e Mother Country (1962) che ritrae la triste esistenza degli immigrati giapponesi alle Hawaii alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.
Takamine, nonostante le convenzioni dell’epoca, continuerà a lavorare anche dopo il matrimonio, dimostrando fortissima libertà e indipendenza a dispetto dei più veti tradizionalismi: “As a wife, as a woman”.
Fu anche attiva come scrittrice e saggista, pubblicando molti libri di successo sin dal suo periodo di massimo splendore come attrice. Inoltre fu pittrice e collezionista d’arte: alcuni dei suoi quadri sono esposti al Museo d’arte di Setagaya.

A seguire, alcune recensioni brevi e link alle recensioni disponibili.

Alcune recensioni brevi

LE SORELLE MUNEKATA (1950), Ozu Yasujirō
Questo è un film di emozioni profonde, ancora una volta veicolate da due personaggi femminili: Mariko, giovanissima, vestita all’occidentale, indipendente, pronta ad irridere la tradizione; e sua sorella Setsuko, più “vecchia”, in kimono, aderente agli ideali del passato al punto da accettare un marito abusivo: ma in lei qualcosa freme, e si nota nei dettagli. Bisognerebbe aprire un capitolo a parte per i sorrisi di tante protagoniste dei film di Ozu: così misteriosi, sorrisi che rispondono ad una cultura di gentilezza, ma che celano i misteri di una musa arcana. Setsuko sorride ma in lei avviene la rivoluzione, anche grazie alla vitalità di Mariko, la cui propensione alla commedia e all’equivoco ricorda l’incanto di una giovane Carole Lombard. Ed il finale è tra i più sottilmente enigmatici, inafferrabili: Setsuko sceglie la libertà, con un gesto intensamente moderno e antiromantico. E’ meraviglioso vedere un personaggio femminile affrancarsi dalle aspettative sociali e scegliere, nelle sue parole, “la propria strada” – soprattutto negli anni ’50.
E’ un film splendido, complesso, dalle sfumature noir, attraversato da momenti di angoscia insostenibile – come nei confronti tra Setsuko e il marito. L’atmosfera è intrisa di violenza anche se Ozu non mostra quasi nulla: ma noi temiamo per Setsuko. Quando il marito infila una mano in tasca ho creduto fosse per estrarre un’arma, un oggetto per colpire Setsuko. Ozu in pochi secondi gira una scena d’orrore nel nostro immaginario.

Le Sorelle Munekata

CARMEN COMES HOME (1951), Kinoshita Keisuke
Una spogliarellista dal cuore d’oro, dopo aver ottenuto un grande successo a Tokyo con i propri spettacoli, torna nel villaggio rurale natio assieme ad un’amica-collega. Qui dà scandalo improvvisando uno strip tease per gli abitanti del paese; il padre si imbarazza, il preside si indigna, i paesani, prevedibilmente, ne vanno pazzi. Tra Billy Wilder e Frank Tashlin, CARMEN TORNA A CASA è il primo film a colori del Giappone, girato da quel genio di Keisuke Kinoshita. La meravigliosa Hideko Takamine (“Carmen la Dolce”) danza in reggiseno tra colline, cieli azzurri e mucche che pascolano: una visione squisita e surreale, enfatizzata dai campi lunghi in cui brillano macchie di colore. Tra canzoni, scherzi, equivoci, le gonne delle ragazze scivolano giù, rivelando gambe fantastiche. Un film davvero fenomenale.

Carmen Comes Home

INAZUMA (Lightning, 1952), Mikio Naruse
Si tratta di uno dei più bei film che abbia mai visto sulla vita di una donna ed è talmente “reale” da farti percepire il flusso di coscienza della protagonista. La ventitreenne Kiyoko si guadagna da vivere lavorando come guida su un bus turistico ed è la più giovane dei quattro figli che la madre ha avuto da quattro uomini diversi. Vittima della propria famiglia disfunzionale, che la vorrebbe sposata al volgare fornaio Tsunachiki, Kiyoko decide di andare a vivere da sola; ma non è facile liberarsi del tutto dalla dolorosa morsa dei legami familiari. I “lampi” del titolo sono i profondi turbamenti che scuotono la ragazza di fronte al disfacimento morale della famiglia: le sorelle diventano amanti del laido Tsunachiki, il fratello bighellona in perenne stato di ubriachezza, la madre si trincera nella rassegnazione. Film sensoriale, tattile, materico: le emozioni di Kiyoko diventano nostre senza filtri, se non quello invisibile della mano del regista, così delicata e rispettosa. Nei film di Naruse si vedono le donne pensare, vivere, cercare nuove possibilità: è un cinema vero, e fa impallidire tutti i proclami che vengono fatti al giorno d’oggi sul “cinema femminile”. Senza sensazionalismi, ma assorto, discreto, concentrato fino a cogliere ogni sfumatura, Naruse realizzava ritratti femminili d’una bellezza simile a quella dei film di Ophuls: e sarà forse un caso, ma a un certo punto Kiyoko scrive una lettera e si invaghisce di un pianista…

Inazuma (Lightning)

CARMEN FALLS IN LOVE (1952), Kinoshita Keisuke
Il film viene realizzato dal regista Kinoshita dopo “Carmen comes home” (1950), primo film a colori del Giappone, in cui Takamine Hideko danzava svestita tra verdi colline, mucche al pascolo e contadini stupefatti. Il regista torna al bianco e nero in questo sequel tutt’altro che realista: girato quasi completamente con “dutch angles”, ovvero inquadrature inclinate (tipiche dell’espressionismo), il film è una satira pungente e a tratti spaventosa, priva della dolcezza del suo antecedente. Carmen, attrice di varietà ispirati a Bizet, viene maltrattata sia fisicamente che psicologicamente; la povertà incattivisce la società, le classi sociali sono rigorosamente divise (si veda la casa della ricca e viziata famiglia Sudō) e soprattutto aleggia ancora la presenza della bomba atomica: oggetto di numerose battute di dialogo, temuta, evocata, protagonista di incubi e ossessioni. Kinoshita ama la sua pura, ingenua Carmen, schernita da tutti per la sua candida semplicità, soprattutto dal velleitario artista di cui si innamora. La nostra eroina canta “per non pensare alla sofferenza”, mentre intorno si agita un mondo che comprende narcisisti patologici, nostalgici del riarmo, violenti. Kinoshita allestisce scenografie surrealiste assai francesi, scrive rapidissimi e allusivi dialoghi screwball e infonde un profondo senso di disagio con una colonna sonora che alla musica sostituisce il rumore delle bombe. L’opera di un genio assoluto.

Carmen Falls in Love

THE GARDEN OF WOMEN (1954) Kinoshita Keisuke
Questo è, in un certo senso, il film “horror” di Kinoshita Keisuke. Nel raccontare la durissima vita quotidiana delle studentesse in un college di Kyoto, il regista mette in risalto l’assoluta mancanza di gioia, libertà spirituale e amore cui vengono costrette le ragazze, ancora sottoposte a una spietata disciplina patriarcale. Tra loro, l’idealista e fragile Yoshie (Takamine Hideko) insegue l’amore (con un ragazzo vietatole dal padre) e confida in un futuro di realizzazione personale; ma la famiglia e l’istituzione scolastica la schiacciano senza pietà. In ogni immagine brucia l’angoscia, mentre il regista illumina la bellezza delle giovani e un cupo bianco e nero ci mostra le loro ali spezzate. Un racconto di crudele realismo, saturo di tristezza e morte, che ispirò Oshima Nagisa a diventare regista a sua volta.

The Garden of Women

A WIFE’S HEART (1956), Naruse Mikio
Takamine – Mifune, un temporale d’amore. Il cinema di Naruse ha sempre fatto dei fenomeni naturali una metafora dei tumulti del cuore e della forza devastante del desiderio. In a Wife’s heart (1956), proprio a causa di una pioggia inaspettata, l’infelicemente sposata Kiyoko e l’impiegato di banca Kenkichi trovano riparo in un ristorante. Qui la conversazione scivola inavvertitamente dalla norma: si fa colloquio intimo, parola sorridente, avvicinamento. L’emozione cresce e straripa. Kinkichi pronuncia il suo nome: “…Kiyoko-san!”, come se quel suono racchiudesse la confessione d’un sentimento. Kiyoko trasalisce, spalanca gli occhi, lo ferma con lo sguardo. L’aria è elettrica, ma in pochi secondi i due si ricompongono. Naruse si allontana dai loro visi, rinuncia al primo piano, esattamente come Kiyoko e Kenkichi, nell’imbarazzo, hanno appena rinunciato alla parola. Pesa, su di loro, la materia del non-detto, greve come la pioggia.

A Wife’s Heart

UNTAMED WOMAN (1957), Naruse Mikio
Film anomalo e straordinario nella sua costruzione di un personaggio femminile “non soccombente”. L’umiliata e offesa Shima (Takamine) si rialza cento volte, impara a tener testa a uomini deboli e indegni (dando vita a impagabili scene comiche, come quando innaffia con l’idrante il marito traditore). In una sequenza molto bella, tutta incentrata sulla disillusione, Shima viene baciata dal fascinoso proprietario dell’albergo dove lavora (Mori Masayuki, sempre perfetto nel ruolo di vigliacco), e un grosso mucchio di neve cade dal tetto con un tonfo sordo. Naruse sta dicendo agli spettatori – e alla protagonista – che non si tratta di un bacio romantico, e che quel mucchio di neve caduto a peso morto è il preludio ad una serie di viltà inflitte dall’uomo alla ragazza.

Untamed Woman

QUANDO UNA DONNA SALE E SCALE (1960), Naruse Mikio
Il film di Naruse e L’APPARTAMENTO (Billy Wilder) sono entrambi del 1960 e ci dipingono la stessa tipologia maschile: l’uomo “distinto e affascinante”, apparentemente passionale, in realtà vile seduttore. Nel celebre film di Wilder, Mr. Sheldrake (Fred MacMurray) lascia alla povera Kubelik, sua amante, una banconota con cui comprarsi un regalo di Natale e se ne va dichiarando di non poter divorziare dalla moglie. Nel film di Naruse, l’elegante Mr.Fujisaki (Mori Masayuki) seduce Keiko (Takamine Hideko) e passa la notte con lei (quasi costringendola), per poi abbandonarla il mattino seguente, lasciandole azioni di poco valore come risarcimento. Come Sheldrake, Fujisaki ammette di non avere il fegato di rompere con la moglie e usa il “pagamento” come forma di chiusura di un rapporto indecoroso per la propria posizione. Anche nella rappresentazione ci sono similarità: in entrambi i film li vediamo seduti al bar/ristorante, in raffinati completi scuri, assorti in conversazioni eleganti e urbane.

Quando una donna sale le scale

IMMORTAL LOVE (1961), Kinoshita Keisuke
(Satako (Takamine) e Heibei (Nakadai) si detestano da 30 anni. Il regista Kinoshita attraversa la storia collettiva a partire dall’interno di un mortifero rapporto matrimoniale, dove per circa tre decenni le dinamiche sentimentali restano le stesse: il titolo “Immortal Love” (riferito a un terzo personaggio, vero amore di Satako) potrebbe essere benissimo rovesciato in “Immortal Hate”. Nonostante la trama da feuilleton, le “scene da un matrimonio” interpretate da Nakadai Tatsuya e Takamine Hideko sono stupende, taglienti, un gioco di continua crudeltà in cui i due personaggi cercano costantemente di superarsi. Una coppia elettrica che si “uccide” fino ad addolcirsi nella parte finale. Negli ultimi minuti Kinoshita si diverte a mostrarci Satako e Heibei ormai “addomesticati” e pone tra loro la presenza ingombrante di un moderno frigorifero, quasi un terzo personaggio nella scena.

Immortal Love

AS A WIFE, AS A WOMAN (1961), Naruse Mikio
Due donne: una moglie (Awashima Chikago), un’amante (Takamine Hideko), si contendono lo stesso uomo da più di dieci anni (Mori Masayuki nel suo ruolo più sgradevole). “As a Wife, as a woman”, è una presa diretta sui costumi e la società dell’epoca. Se la presenza di un’amante era comunemente accettata, al punto da essere ufficiosamente regolata da codici di comportamento che definivano il suo ruolo in rapporto alla famiglia dell’uomo, non di rado il protrarsi negli anni della relazione aveva conseguenze drammatiche. Naruse studia le vite parallele della moglie e dell’amante, accomunate da un destino di infelicità, sopportazione, creazione di maschere sociali, con in più l’umiliazione di un accordo economico. Il regista è straordinariamente bravo nell’interlacciare due esistenze nel breve spazio della durata del film. Percepiamo il peso degli anni, la fatica, l’involontaria “convivenza”, la paura reciproca. Due esistenze-ombra. Il montaggio è particolarmente ellittico: Naruse sperimenta più del solito con tagli e giunzioni, compie un editing “emotivo” concentrando anni in passaggi di pochi secondi. Come spesso accade, il regista è interessato al sentire, al tempo interiore, alla percezione soggettiva delle sue protagoniste. In una scena che lascia senza fiato, Ayako, la moglie, vede i bambini piccoli uscire dalla stanza. Un taglio impercettibile, e dalla stessa porta rientrano i due ragazzi ormai grandi. Sono passati anni, ma lei, di spalle, sembra non essersi mossa: immobile nelle abitudini e nello spazio circoscritto degli obblighi sociali. È il 1961, e ancora la vita delle donne è completamente subordinata ad inerti ed egoiste figure maschili. Naruse è particolarmente critico nei confronti dei suoi personaggi: gli adulti ci appaiono deludenti e privi di luce interiore, insoddisfatti per conformismo e viltà. La rinascita ideale è affidata al sorriso dei due ragazzi, che gettandosi alle spalle il melodramma familiare cercano l’indipendenza e vanno a sognare al cinema.

As a Wife, as a Woman

Hideko Takamine, ragazza in bicicletta
Le ragazze in bicicletta del cinema giapponese cercano l’indipendenza, sono autonome e proiettate verso il futuro, anche se la società fa di tutto per reprimere il loro slancio. Takamine Hideko in Ventiquattro occhi (1954, Kinoshita Keisuke) è l’idealista, appassionata insegnante Hisako. La giovane sfreccia lungo le strade di un’isola remota, suscitando lo stupore degli abitanti e l’ammirazione dei suoi giovanissimi studenti: è la rappresentazione di una libertà giovane, leggera, su cui ancora non pesa l’amarezza dell’esperienza e la perdita delle illusioni.
La bicicletta come simbolo di emancipazione anche in Untamed Woman (1957, Naruse Mikio). Umiliata, offesa, battuta, Shima si rialza cento volte e tiene testa ai miserabili uomini che incontra sul suo cammino. Dopo un’esistenza di ingiustizie e privazioni, impara a usare la bicicletta e crea una propria attività, diventando un emblema di quel coraggio femminile che spesso troviamo nel cinema di Naruse: le sue celebri figure femminili che “sembra stiano per soccombere, ma poi non lo fanno”

Link ad alcuni miei articoli:

CARMEN COMES HOME (1951), Kinoshita Keisuke

FLOATING CLOUDS (1955), Naruse Mikio

HAPPINESS OF US ALONE (1961) e MOTHER COUNTRY (1962), Zenzō Matsuyama

YEARNING (1964), Naruse Mikio

HIT AND RUN (1966), Naruse Mikio

Naruse Mikio, La Tempesta del Vivere

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