PINOCCHIO di Matteo Garrone

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Il Pinocchio di Garrone nasce dalla profonda attrazione del regista per il fantastico e il fiabesco: attitudine che appare, come un velo d’incanto, nei suoi titoli più differenti. Garrone è ostinatamente irriducibile al mero realismo: ogni sua inquadratura contiene indizi di un oltre, che si tratti di un orizzonte plumbeo e sovrannaturale, di un corpo di cui intravediamo le ossa, di una periferia sospesa tra cielo e terra. La favola di Pinocchio permette al regista di congiungere le direttive principali della sua ispirazione – il fantastico e il popolare – attingendo non soltanto al testo letterario, ma a una mappa di ricordi cinematografici ricomposti, miracolosamente, in una dimensione (un vero mondo a parte) dai tratti fortemente personali.

L’attrazione per i Freaks, per il teatro spaventoso del primo novecento, l’esibizione della diversità e delle deformazioni, con Davide Marotta come Harry Earles per Tod Browning: il Pinocchio di Garrone apre un numero di sipari su un racconto frammentario e episodico e mette in scena un sogno che ha quasi sempre caratteristiche d’orrore; in questo narrare, la vita e la morte si accompagnano con naturalezza, mentre lo “scarto” dalla normalità è la ferita sanguinante del vivere.

Se Garrone, quasi con occhio rinascimentale, crea spazi e sfondi di indefinita bellezza, avvolti nella nebbia, squisiti nella rappresentazione di un paesaggio lontano (quasi una promessa di armonia naturale), contemporaneamente dedica i primi piani alla rappresentazione dell’umano: una umanità viva, zoppa, sporca e in movimento: è possibile sentirne gli odori, udire il rumore mormorante di botteghe, artigiani, ladri, osterie. Il popolo convive con creature di mezzo: antropomorfe, sghembe, materne e accoglienti come la lumaca e i suoi umori, o grottesche come lo scimmiesco giudice, emblema dei paradossi kafkiani della burocrazia.

Il mondo umano e animale si sovrappongono: bestialità dei comportamenti, trasformazioni fisiche. Garrone attinge a Un Lupo Mannaro Americano a Londra di John Landis per la spaventosa mutazione dei monelli in ciuchini: scene di puro orrore in cui si gode di una ispirazione tanto eterogenea. Il regista ruba al cinema americano degli anni ’80 – compreso Labirynth di Lucas/Henson, ma come non riconoscere, nei due dottori dalle teste d’uccello, anche una suggestione del Judex di Franju?
Ricordi del cinema italiano – dai Taviani a Fellini – si intrecciano, amorosamente, con l’entertaiment hollywoodiano; il cinema d’autore si immerge nella dolcezza spielberghiana, e la nostra terra scabra scopre di avere un mare delicato, magico come in La forma dell’acqua di Guillermo del Toro.

Non smetteremo mai di ringraziare Garrone abbastanza per il suo rifiuto della cgi più volgare, per la sua preferenza di un incanto artigianale, un volto di legno di cui puoi sentire le incanalature, toccandole con le dita. Il regista fa un uso intelligente degli effetti digitali, se ne serve per addolcire una concretezza sensibile. E come il meraviglioso Geppetto di Benigni – che qui, finalmente, è di nuovo uomo e interprete struggente, non più personaggio schiavo di se stesso – conosciamo l’amore, il cuore che batte, la paura invisibile e il coraggio di un bambino (come Jean-Pierre Leaud ne I 400 colpi) di fronte al mare.