SHE WAS LIKE A WILD CHRYSANTHEMUM di Kinoshita Keisuke (1955)

L’amore di Kinoshita per il cinema, il suo sentimento nostalgico e umanista e l’inclinazione a rivelare la bellezza del mondo, anche nei suoi aspetti più umili e naturali, lo conducono alla realizzazione di She was like a wild chrysanthemum, tra le sue opere più belle, fragili ed evanescenti. L’intero film è una passeggiata fantasmatica nel passato e nel cuore umano, che trasfigura una dolorosa storia d’amore giovanile nel rimpianto e in una poetica accettazione del destino.
Ormai anziano, Masao torna alla terra natale, attraversando su una semplice barca i paesaggi del passato: rivede le coste, i campi, la vecchia casa abbandonata e ritenuta dagli abitanti del villaggio “una casa posseduta”. I ricordi agitano la sua mente, dagli occhi spuntano lacrime. Ryū Chishū è l’interprete miracoloso di un personaggio che non eccede mai nell’espressione dei propri sentimenti: dignitoso, composto, lascia intuire una sofferenza muta attraverso la postura appena curva e un volto intensamente segnato dalla tristezza. È impossibile restare indifferenti di fronte ai primi piani del suo viso rigato dal pianto. Masao ha preso la forma del dolore che lo ha accompagnato per tutta la vita, diventando il corpo dell’amore.

Ci penso ogni volta che arriva l’autunno. È qualcosa che non potrò mai dimenticare. Sono passati più di 60 anni… Mi sono rimasti solo i sogni del mio passato. Sei stato l’unico amore della mia vita, vivrai per sempre nel mio cuore.”
Attraversando il fiume luccicante di sole, nell’aria dolce di un autunno che sembra volerlo confortare e offrirgli un rifugio sospeso nel tempo, Masao ripercorre i propri ricordi sino a renderli vivi e presenti, sonori e visivi. L’uomo rivede se stesso appena quindicenne, accompagnato dalla gentile e delicata Tamiko, la cugina diciassettenne con la quale è cresciuto. Un mascherino bianco ovale, vera e propria aura spirituale che incornicia l’immagine, è l’espediente tecnico di cui Kinoshita si serve per fare del suo racconto un viaggio nella memoria e nel sogno. Il ricordo si circonda di un candore intangibile, il passato si fa allo stesso tempo distanza, luce, visione ultraterrena. Come un cantastorie, Masao traduce in versi poetici la storia triste dei due innamorati, sullo sfondo di un Giappone rurale – gentile di fiori e silenzi – ma irrigidito in una mentalità severa e feudale.

Attraverso il mascherino e la narrazione lirica ma asciutta di Masao, la storia d’amore assume i contorni di un racconto popolare: una storia di innocenza e crudeltà, che vede i due giovani divisi dalle malevole chiacchiere del vicinato, dalla gelosia di una cognata, e dalla mentalità retriva di una madre amorevole ma incapace di concedere la sua approvazione alla relazione. Tamiko non solo è più grande di Masao, ma anche di grado sociale inferiore; il suo destino è la sottomissione.
Per impedire che il rapporto possa continuare, il ragazzo viene inviato in una scuola lontana, mentre Tamiko è costretta ad accettare un matrimonio combinato, utile per l’economia familiare.
La separazione causa in entrambi un’infinita sofferenza, espressa attraverso il pianto e il silenzio. Kinoshita inserisce nel racconto immagini naturali (meravigliosamente fotografate da Kusuda Hiroshi): le colline immote, i cieli sereni, mentre carrelli attraversano i campi fioriti, accarezzati dal vento. Ogni filo d’erba, ogni corolla curvata sembra condividere il destino di accettazione e sofferenza dei ragazzi, fiori a loro volta: se Tamiko è, nelle parole di Masao, un crisantemo selvaggio, a sua volta il ragazzo viene da lei paragonato a una campanula: “Non mi ero resa conto che le campanule fossero così belle.”

La colonna sonora di Kinoshita Chūji (fratello di Keisuke e suo stretto collaboratore) accresce, con la sua malinconia, l’atmosfera elegiaca di resa: i due giovani non si ribellano ma si piegano alle decisioni e al sarcasmo della comunità. Rimasti soli, sfioriranno giorno dopo giorno, privati di quella felicità data solamente dall’essere vicini, trafitti dalla bellezza della luce. Quella di Masao e Tamiko è la storia di un amore tanto innocente quanto istintivo: i due ragazzi vivono l’uno dell’altra come il mattino gode della rugiada; la loro attrazione è una necessità, un bisogno naturale di presenza, di voci, di sfioramenti.
Masao, dal suo dormitorio lontano, scrive una lettera a Tamiko: “stare con te era come essere su una nuvola assieme a Dio”. In queste parole, l’essenza di un sentimento totalizzante e vitale, che vede l’amore come la vita stessa, proiettata nell’ immortalità. Un sentire poetico che ricorda i versi di Emily Dickinson, secondo la quale l’anima cerca la sua compagnia, senza la quale non può vivere. Per entrambi, l’allonanamento è un gesto contro natura che si traduce nella morte: dello spirito e del corpo.

Kinoshita filma con tutta la delicatezza possibile, ma anche con una sensibilità estrema nei confronti di un romaticismo struggente ma quieto, spiritualizzando il sentimento attraverso il mascherino bianco, ritagliando al suo interno geometrie e split-screen dati da oggetti, arredi o colonne: l’incubo della separazione si staglia nelle inquadrature. Le carrellate, i frequenti piani sequenza e i silenzi ci ricordano che tutto scorre e tutto ha una fine, ma l’universo accoglie il pianto e l’amore, conservandoli nell’eternità.
Sulla tua tomba tutto è silenzio, ora solo cantano i grilli”

THE WHALE di Darren Aronofsky

Darren Aronosfky, grande ammiratore del prematuramente scomparso Satoshi Kon, ha conservato nel cuore la sua filosofia: “negli esseri umani i ricordi, il presente, il passato e il futuro coesistono”. Un sentire che è presente in ogni inquadratura di The Whale e soprattutto nell’animo del protagonista Charlie (un magnifico Brendan Fraser), pronto ad abbandonare la propria vita corporea mentre ne coglie tutta la pienezza spirituale.
Insegnante mite e gentile, ma fermo nella sua ricerca di un vero che dia senso all’esperienza esistenziale, Charlie vive da recluso e si mantiene facendo lezioni via zoom, ma a webcam spenta. Visualizzato come un quadrato nero, Charlie è già fantasma e ombra, creatura di passaggio pervasa dal desiderio del nulla. La sua voce, calma e uniforme, sembra razionalizzare il dissidio con le forme estreme del proprio corpo. L’uomo vive una profonda contraddizione tra una fisicità ormai fuori controllo – traumatizzata e autolesionista, alla ricerca dell’annientamento nel cibo – e un pensiero trascendente in grado di abbracciare il reale, perdonarlo e comprenderlo nella sua interezza. Il fatto che il film si svolga in interni monotoni, privilegiando registicamente una struttura che vive di coazioni a ripetere (ingresso degli ospiti; porte che sbattono; dialoghi in campi/controcampi; soggettive di Charlie che scruta le ombre dietro la finestra) non si traduce in un cinema statico, ma in costante rivoluzione. All’interno di quelle mura e tra i pochi mobili sfatti, si agitano gli esseri umani e il Tempo, attratti dall’essere di Charlie, dalla sua enigmatica forza irradiante. Colpi di scena, stupori e confessioni si susseguono, ma è lui il centro emotivo. Seppur immobile, pesante, trascinato verso il basso dalla una mole umiliante e terrena, Charlie possiede una luce: è la luce della morte, che rende il suo sguardo limpido e infinito. Alle soglie della dissoluzione del corpo, egli acuisce i propri sensi e la propria sensibilità: finalmente comprende l’immensità del suo amore per la figlia Ellie, e ha uno sguardo di misericordia per tutti. 

Aronofsky scandisce il quotidiano del protagonista attraverso pochi rituali che si svolgono nell’arco di sette giorni. Tre scatole di pizza, consegnate ogni sera da un fattorino invisibile, rappresentano l’ultima parvenza di scambio sociale. Solo poche persone varcano la soglia che separa l’esterno tempestoso, condannato a una pioggia incessante, e l’interno incolore del suo appartamento. L’incontro con la figlia Ellie, abbandonata otto anni prima, crea momenti di tensione e tristezza quasi insostenibili; la brutalità verbale della ragazza è tradita dai suoi occhi lucidi e tremanti, mentre Charlie pronuncia poche parole d’amore e bellezza. Aronofsky proietta sullo schermo una realtà letteralmente infilmabile – un padre fallito e in pieno disfacimento corporale, una figlia consumata dalla propria violenza interiore; ma attraverso questo incontro/scontro duro e impietoso il regista sa farci intuire la presenza di una Grazia. Ed è per questa speranza, anche là dove tutto sembra perduto, che il suo cinema possiede un’audacia rara e la capacità di staccarsi dal peso del mondo.

La sceneggiatura, adattamento dell’opera teatrale di Samuel D. Hunter, sembra quella di un Tennessee Williams riemerso dal passato per posare il suo sguardo su un presente di cenere. Le parole hanno qualità poetica, sono un pianto dell’inconscio. Ogni tanto si apre un ricordo – solare, benedetto – che l’immaginazione (come il cinema) ci permette di abitare: non tutto è perduto, l’amore è ancora lì, così vicino da udirne la voce.
Charlie si riavvicina ai suoi amori perduti, riesce a incrinare la morsa di gelo cui si dibatte la ragazza. Il finale è luce, quella luce che per tutto il film abbiamo avuto l’impressione di ravvisare, tra le crepe del presente oscuro, tra le piaghe di un corpo da gigante; e quando un regista ci inonda di luce, allora la nostra esperienza va oltre il cinema, fino a raggiungere quelle stanze interiori che, come Charlie, abbiamo tenuto serrate per paura della vita.