[Parte di uno speciale che comprende The Elephant Man – Eraserhead – Una storia vera]
*****
Dopo quasi 40 anni, The Elephant Man di David Lynch è un film ancora molto amato e conosciuto; è un’opera che ha avuto il potere di lasciare un ricordo indelebile, una commozione viva e presente a dispetto del tempo. La dolorosa, poetica biografia di John Merrick (magistralmente interpretato da John Hurt) è tra i suoi film più accessibili; ma è anche un film autenticamente “di Lynch”, in cui la mediazione attraverso il mainstream nulla toglie alla specificità della sua arte, qui esercitata in modo più sottile, ma profondamente autentico. E’ impossibile, conoscendo il Lynch dei decenni successivi (fino allo scoperto sperimentalismo di Twin Peaks 3) non constatare come le sue ossessioni – si tratti di elementi del linguaggio o inquadrature ricorrenti – siano rimaste intatte: panorami “industriali” avvolti nel fumo, soggettive perdute lentamente nel cielo, primi piani di fiamme, dissolvenze incrociate, esplorazioni incantatorie di un volto, fino alla “caduta in abisso” in un vuoto nero e indefinito.
E’ un film meraviglioso, in cui Lynch ha raggiunto degli equilibri perfetti. Eppure alcuni critici, all’epoca, tacciarono il film di sentimentalismo: mai accusa fu più infondata. The Elephant Man, al contrario, ci dà la misura della differenza tra banale sentimentalismo e commozione vera: la delicatezza di ogni scena è affrontata con immenso pudore e i momenti strazianti, spesso insostenibili, sono sempre circoscritti dall’amore per il personaggio. Lynch è sinceramente umanista e ciò rende il film ancora più doloroso: il suo sguardo è colmo di rispetto, la macchina da presa è il riflesso del suo spirito illuminato. John Merrick non viene mai sfruttato, nè mai viene cercata la lacrima che blandisca il pubblico: lo squarcio che si apre nel cuore di chi guarda non trova alcun conforto nella lucidità della narrazione lynchana. L’unico potere di trasfigurazione viene offerto dall’arte: ecco quindi che Merrick diventa un Romeo shakespeariano agli occhi di Madge Kendal (Anne Bancroft), o compone la sua disperazione nelle armonie della sua cattedrale in miniatura.
Impossibile, guardando The Elephant Man, non pensare a tanto cinema classico: il film riluce di un’aura suggestiva da cinema muto, sia per estetiche che per procedimenti narrativi, su cui si innesta l’avanguardia del regista. Tornano alla mente non solo Il gobbo di Notre Dame (1923), con Lon Chaney nei panni del protagonista, ma soprattutto L’uomo che ride (1928): l’atmosfera malata del circo, la derisione del pubblico, la sofferenza ineluttabile del protagonista sembrano mutuati dall’archetipica opera di Paul Leni. E c’è ovviamente il classico dei classici sui “mostri”: Freaks (1932) di Tod Browning, scopertamente omaggiato nella parte finale.
Tante influenze non ne intaccano lo stile personale, in cui rintracciare l’eterno movimento circolare del regista intorno ai temi prediletti della sua poetica: le deformità, le anomalie, la “bellezza di una ferita”, l’interconnessione di sogno e realtà, l’incanto nei confronti de Il Mago di Oz (1939) di Fleming (evidente nella sequenza dello spettacolo teatrale). Ed è nella straordinaria chiusa che Lynch esprime tutta la sua dichiarazione di fede, per mezzo dei versi di Lord Alfred Tennyson: “Mai. Oh, mai. Niente morirà mai. L’acqua scorre. Il vento soffia. La nuvola fugge. Il cuore batte. Niente muore.”
[Lo Speciale continua: Eraserhead – Una storia vera]
Pingback: SPECIALE DAVID LYNCH – ERASERHEAD (1977) | Frammenti di cinema - di Marcella Leonardi
Pingback: SPECIALE DAVID LYNCH – UNA STORIA VERA (1999) | Frammenti di cinema - di Marcella Leonardi
È stato il primo film di Lynch che vidi da bambino, grazie a una vhs di mio nonno. Mi appassionai al suo cinema e al cinema in generale. Complimenti per questi post dedicati a Lynch 😊
Grazie a te! 🙂 Spero di espanderli aggiungendo altri titoli. E’ sempre una sfida scrivere di Lynch.