L’IMPICCAGIONE (Kōshikei, 1968) di Nagisa Ōshima

Nel 1968 Ōshima gira un film nerissimo in cui delinea, attraverso dialoghi taglienti e scelte grafiche nette, un’antropologia del popolo giapponese nel suo rapporto travagliato con la Corea; e allo stesso tempo esprime una viscerale dichiarazione contro la violenza di stato e la pena di morte. Prendendo spunto da “L’incidente di Komatsugawa”, celebre caso di cronaca del 1958 che vide un giovane coreano condannato a morte per l’uccisione di due studentesse, Ōshima realizza il film aderendo al progetto “film da 10 milioni di yen” (produzioni a basso costo con attori non professionisti). L’esiguità del budget diventa una una sfida artistica per il regista, che crea uno dei suoi film più radicalmente avanguardistici e politicamente incandescenti. Partendo da un incipit pseudo-documentario, in cui la natura della finzione viene subito esplicitata dalla voce fuori campo (“Voi che siete a favore della pena di morte, avete mai visto un’esecuzione? Avete mai visto la camera della morte?”), Ōshima mette in scena l’esecuzione di un giovane prigioniero coreano accusato di duplice omicidio; ma il ragazzo, identificato con la lettera “R”, si “rifiuta di morire” e piomba in uno stato d’amnesia. L’intero gruppo operativo adibito all’esecuzione – un funzionario, un cappellano, un medico e delle guardie carcerarie – si adopera con ogni mezzo (incluso l’omicidio) affiché il giovane recuperi la memoria, per poterlo impiccare nuovamente.

Ōshima ci conduce nel regno del grottesco e del paradosso senza mai scindere il gusto per la commedia crudele dall’oscenità morale che pervade gli ufficiali, creature prive di rimorso e votate al piacere della morte. L’aridità dei carnefici, la burattinesca stupidità di esecutori ligi alla legge – in ogni sua clausola più perversa – contrasta con l’immagine del condannato, benedetto dall’oblio, bianco e privo di espressione, defraudato della propria essenza da un Giappone che ne ha stroncato corpo e spirito. A R, illuminato da una luce bianca, si affianca la presenza della sorella, che appare come una visione e alla quale Ōshima affida il ruolo di una “Corea incarnata”, entità che attraverso il dialogo espone la propria sofferenza, il rancore, l’odio. R e la sorella, nudi e avvolti da una bandiera giapponese, sono stesi sul pavimento mentre gli ufficiali festeggiano la loro fine con giochi e canti infantili. La regia, stupefacente, ricorre a piani sequenza che esaltano l’azione quasi del tutto racchiusa in interni (a parte un intermezzo centrale) e affilata profondità di campo. Ōshima usa anche in modo purissimo il primo piano e l’esplorazione del corpo dei due coreani, di cui mette in risalto l’innocenza e il candore – la pelle diafana, la nudità di mani e piedi, la vulnerabilità della posizione orizzontale cui vengono costretti.

Martiri e immobili, lo sguardo perso in un orizzonte infinito, R e la ragazza si stringono in un amore che non può salvarli. Gli esecutori, intenti a scambiarsi parole mostruose (di gioia e orgoglio per le morti inflitte), li osservano con piacere entomologico. Un montaggio ellittico, l’inserimento di fotografie, la presenza della voce fuori campo e il fluviale dialogo meta-teatrale fanno de L’impiccagione una delle opere più impressionanti, incisive e formalmente innovative di Ōshima; un film che contiene suggestioni del surrealismo e di Buñuel, soffuso del potere del sogno e segnato dal labile confine tra finzione e realtà. Nel finale una luce accecante, quasi una malata divinità, si manifesta a R consegnandolo al suo destino; mentre i grigi carnefici si complimentano reciprocamente per il lavoro svolto, emblemi di un Giappone burocratico, disumano e alienato.

“Per favore, non guardate questo film come arte astratta… Voi spettatori dovreste guardarlo nello stesso modo in cui combattete, lavorate, amate, odiate. Guardando questo film dovreste sentirvi parte di un’azione” (Ōshima Nagisa).

ROBOT DREAMS di Pablo Berger

Conoscevo Pablo Berger per il bellissimo Blancanieves, film muto e in bianco e nero del 2012. Il regista resta affascinato dall’immagine pura, priva di dialoghi, anche in Robot Dreams, in Italia tradotto pedestremente Il mio amico robot; ma questo titolo tradisce la ragion d’essere del film, ovvero il sogno di natura surrealista, materia inconscia che si stringe indissolubilmente al reale tanto da confondersi con esso, in un unico magma di vissuto pulsante e allucinatorio.
Ambientato in una Manhattan paradossalmente “più vera del vero” nonostante i suoi abitanti antropomorfi, Robot Dreams insegue le tensioni della vita, il desiderio, l’amore, le disillusioni. Aderendo fedelmente ai disegni di Sara Varon, autrice della graphic novel originale, Berger crea un film cinefilo e struggente che sarebbe piaciuto a Satoshi Kon (l’artista assoluto di quella “dreaming machine” cinematografica in cui sogno e realtà sono indissolubili). Con una passione debordante per la settima arte, Berger intesse l’animazione di citazioni: da Il mago di Oz a The Shining, dal dolly zoom di Hitchcock alle squisitezze astratte di Busby Berkeley, dal romanticismo di Woody Allen alla follia anarchica di Duck Amuck, celebre cartone metacinematografico di Chuck Jones. Similmente a Duffy Duck, il robot protagonista si “stacca” ed esce dalla scenografia, rivelando la natura della finzione in visioni di sfrenata immaginazione.

Con una regia di puro movimento, Berger segue i personaggi affiancandoli nei piani sequenza, spalanca vertigini con improvvisi zoom, attraversa lo spazio e il tempo in un susseguirsi di panoramiche, dolly, inquadrature dall’alto. Il suo cinema onirico e profondamente umano si affida esclusivamente alle immagini, alle quali consegna l’emozione. Ogni sentimento, percezione e ricordo ha un corrispettivo visivo: Robot Dreams è una dolce dimostrazione di come la mente elabori il vissuto alla maniera di un film. Particolarmente bello “l’intermezzo degli uccellini”, parentesi autonoma e memore della delicatezza romantica de “Il principe felice” di Oscar Wilde; mentre il finale ci offre uno degli split screen più toccanti del cinema recente. Così come altri registi prima di lui (ad esempio Stanley Donen con il suo Indiscreto) Berger ci mostra la possibilità di essere “insieme” anche separati, in una dimensione dove passato, presente e futuro coincidono. Si esce dal cinema in lacrime, commossi e con l’anima più luminosa.