LA LLORONA – LE LACRIME DEL MALE di Michael Chaves

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Che James Wan fosse tra i più abili volgarizzatori del cinema horror e un talentuoso riproduttore di codici, linguaggi e archetipi è ormai noto. Con lui, il cinema orrorifico ha perso profondità per divenire il regno dell’hic et nunc: a Wan non interessa, se non in forma di involucro contenitivo, nè l’aspetto “sacro” del genere, nè la sua ramificazione genealogica in un continuum storico e leggendario: le indagini dei Warren, le collaterali parentesi di Annabelle, servono esclusivamente da cornice ad opere che vivono del loro labile, circoscritto presente; un presente di eterna ripetizione di schemi narrativi, funzioni dei personaggi, uniformità estetica e cliché linguistici. Tanta produzione industriale non ha comunque impedito la realizzazione di film in cui è possibile individuare un entusiasmo, pensino una ricerca: si pensi alle melanconie rurali dei paesaggi di Annabelle 2, o alle sfrenatezze cinefile di The Nun.

La LLorona invece segna il volontario abbandono di qualsiasi ambizione: il produttore Wan e il suo instant director Chaves optano per un compendio elementare del genere – da un’impalcatura folkloristica puramente introduttiva, all’enumerazione di jump scares, apparizioni in CGI, generici stilemi j-horror e inquadrature convenzionali – all’interno di un incongruente abbozzo di sceneggiatura; un abbecedario minimo che sembra soddisfare il pubblico, ormai analfabetizzato ad un grado zero linguistico e narrativo.
La Llorona è una galleria di elementi in esposizione: un non-film la cui standardizzazione pulita e professionale mortifica l’immaginario (già agonizzante) del genere.

Facendo appiglio esclusivamente a rapide e grossolane emozioni momentanee, il film non scava nell’inconscio, non risuona nel ricordo nè nell’immaginazione; nasce e finisce nel momento del suo consumo, in quello studiatissimo “spavento” che altro non è che un inganno: è un horror privo di spirali, senza vertigini, ripiegato sulla sua scintillante provvisorietà. Non possiede una sua musica, una cavità sonora in cui possa riecheggiare la nostra paura; e non ha bisogno del nostro inconscio perchè parla semplicemente alla nostra superficie sensoriale, mediante suoni e apparizioni.

Wan si conferma come un efficiente divulgatore, appassito all’interno del proprio enciclopedismo e incapace di spalancare una vera dimensione onirica: sembra alieno al senso del meraviglioso, lontano dal piacere del terrore, incapace di vagare nelle oscurità in cui l’horror ha smarrito tanti spettatori nel passato. Controllo del pubblico e saturazione di elementi: queste le basi del suo cinema. Alla sua LLorona manca anche quell’enfasi teatrale tipica dei primi film: è un mostro stanco del palcoscenico, un demone da cabaret che troppo spesso ha ripetuto la stessa parte.

L’UOMO FEDELE di Louis Garrel

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L’uomo fedele è un film di puro mimentismo: nel sentimento che spira dalle immagini, nelle riprese di strade e volti, nel montaggio emotivo, nella dolcezza malinconica della musica. Garrel guarda alla Nouvelle Vague con occhio innamorato e il suo cinema-ricordo è una forma di resistenza: non soltanto ai modi del cinema contemporaneo, ma allo stesso sentire attuale. La donna da lui vagheggiata è una creatura misterica, insondabile, leggera e capricciosa come un fenomeno naturale; a lei, il regista si avvicina con un misto di soggezione ed incanto.

Non sono pochi i primi piani del volto di Garrel in cui cogliamo un’espressione di candore smarrito e riflessivo: potremmo sovrapporvi il viso del giovane Antoine Doinel di Baci Rubati e vederne combaciare le linee, la piega degli occhi o delle labbra. Il grande Jean-Claude Carrière, collaboratore e partner “criminoso” di Bunuel, presta il suo sguardo sull’inafferrabilità femminile e la vanità umana consegnando uno script in cui grazia e buio convivono, l’uno scolorando nell’altro in forme rare ed evanescenti; ma si avverte una stanchezza nell’autore (ormai 87enne) e la rarefazione rischia l’inconsistenza e la maniera.

Garrel mette in scena questo conte moral con una regia estremamente sensibile e musicale: molto bella l’apertura del film, per la perfetta orchestrazione degli sguardi, l’essenzialità tragicomica del dialogo, fino al carrello indietro che separa Abel, vertiginosamente, dalla sua Marianne. Garrel gira con amore, fa della macchina da presa la sua penna, osserva persone, corpi, la città. Il suo istinto al contrappunto è palpabile anche nell’uso che viene fatto della voce fuori campo: parole come suoni, combinazioni di melodie, flusso di coscienza come “discorso” sonoro; l’immagine è di per sè sufficiente all’elaborazione del racconto, ma elegge la voce off a sua componente sensibile.

Nella brevità dei suoi 75 minuti, il film si spegne in un voluto anti-climax e si accontenta di una conciliante irresolutezza: il quadro parigino è un bozzetto non finito, studio di caratteri che si esaurisce in un sospiro. Brava Lily-Rose Depp, il cui personaggio è un lampo di futuro che irrompe tra tante squisitezza nostalgiche; più rigida Laetitia Casta, che non riesce a conferire alla sua Marianne la necessaria ambiguità, la sfumatura enigmatica in cui annega l’anima di Abel.

DUMBO di Tim Burton

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Se una volta c’era il “metacinema” a rappresentare un importante traguardo autoriflessivo, ora l’accartocciamento definitivo del cinema, la sua fine in un meccanismo di manipolazione dell’immaginario/predisposizione al consumo è data dalla riduzione del film a “metapubblicità”: perchè il Dumbo di Burton non esiste; esiste solo uno spazio audiovisivo – dato dalle due ore di durata – in cui il prodotto è proiettato sullo schermo e lo permea di sè. E’ sparito il soggetto filmico ed è rimasta la macchina pubblicitaria spettacolare che ne viene generata; niente più fabula, niente più trasfigurazione artistica delle peripezie dell’eroe: resta la messa in scena dell’immissione della merce nell’immaginario collettivo.

Ed è terribile che Burton si dimostri totalmente asservito al disegno disneyano: Dumbo distrugge passato e presente per livellarsi in pubblicità universale. Il film è un enorme parco a tema fruibile secondo modalità prestabilite; le coordinate di realtà vengono sfocate attraverso un rigido filtro di colori pastello, morali preconfezionate, gadget, valori familiari stantii e animali antropomorfi in pessima CGI. La particolare messa in abisso di Dumbo determina un crollo verticale: affondiamo tra estetiche di riciclo dello stesso Burton, che ripete se stesso senza le punte anarchiche e ludiche delle origini; non si distingue più la “finzione” dal “making of”, e vediamo attori che recitano se stessi che recitano in film di Burton. Quello del regista è un incurvarsi senile, l’atteggiamento stanco di un artista compromesso che vagheggia il suo cinema trascorso, ora ridotto a manierismo saturo su cui calano le tenebre e il sipario.

Dumbo non esiste nemmeno come protagonista: è accessorio, pupazzo di peluche (come dichiarato in due sequenze lampanti) spesso relegato sullo sfondo mentre campeggiano le figure dei due bambini. La dittatura dell’infanzia, imposta dalla Disney ormai da decenni per via dell’impatto sui consumi, qui è esplicitata senza imbarazzi: i due inespressivi ragazzini sono il fulcro di un racconto che, nella sua forma originale, non li conteneva; i voli della sceneggiatura rispetto al testo del 1941 sono un puro pretesto per imporre, in termini pericolosamente autoritari, l’ineluttabilità della cellula familiare, prigione politica e base di tutta l’economia americana.
Non vi è una sola immagine significante: Dumbo è la morte del cinema e dell’immaginazione, vuoto di sostanze emotive e archetipiche, pura superficie in vendita; in una parola, prostituzione.

BORDER di Ali Abbasi

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Border
è un film affascinante per la sua marginalità: sceglie infatti di raccontare una misterica storia fantasy e si immerge senza compromessi nella mitologia scandinava, sovrapponendola al grigiore di un quotidiano realismo fatto di solitudine e povertà. La leggenda trascolora in luce il livido cielo del nord; il verde degli alberi si accende, le notti vibrano dell’argento della luna, gli specchi d’acqua si fanno densi e opachi, carichi di segreti nelle profondità.

La più grande qualità del regista Abbasi è la sua sensibilità per il fiabesco, che in Border fiorisce e si inerpica sulla realtà, restituendoci le cose in forma magica: Abbasi assolve il reale, ne denuda un incanto arcaico che i nostri tristi occhi umani non sono più in grado di vedere. Border va alla ricerca dei nostri sensi, risvegliandoli dal torpore di tanto cinema levigato, computerizzato, sublimato in una perfezione morta e asettica: ecco il corpo, nel suo peso, nella verità delle deformazioni, nella sensibilità delle dita che affondano nella terra. Il regista ci restituisce gli odori, le pulsioni, l’elettricità di uno sguardo desiderante – di corpi elettrici infatti si tratta – e occupa lo spazio dello schermo con una fisicità ingombrante, muta, groviglio di passioni irrisolte. Abbasi ha il coraggio di riappropriarsi del desiderio e della sua soggettività.

Perchè al di là della sottotrama thriller e delle riduttive metafore sulla diversità, la vera bellezza di Border è il suo erotismo liberatorio: il piacere ritrovato di Tina, l’orgasmo panico che esplode in sintonia con la natura e i suoi fenomeni – i temporali, la neve, l’incanto della luna piena – vengono vissuti in prima persona dallo spettatore. Abbasi se ne frega della conformità del desiderio, rigetta i modi della rappresentazione sessuale mainstream e ci turba con le immagini di due corpi che ringhiano, si annusano, si cercano fin quasi a divorarsi. I due protagonisti diventano parte, eterna e simbolica, dei boschi svedesi: fiaba e realtà, condizione eterna di uno spirito irriducibile alla sottomissione ad una “civilizzazione” irta di orrore etico e antropologico.

Dal racconto di John Ajvide Lindqvist, Abbasi trae una scheggia di cinema tagliente e bizzarro, forse non sempre equilibrato nelle parti che lo compongono – gli elementi relativi all’investigazione criminale pesano sulla rarefazione sensuale ed instintuale del film – ma devoto senza compromessi al ritrovamento di un “brutto”naturale ed innocente. Border annulla qualsiasi distanza tra un corpo, un fiore, un animale: è cinema di notti selvagge, lontane da qualsiasi addomesticamento; ed in un panorama produttivo ipocrita e protettivo come quello attuale è il più bel dono che si possa fare allo spettatore.

NOI di Jordan Peele

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Intelligente riciclatore di materiali, figlio della serialità televisiva (da Buffy the Vampire Slayer a Black Mirror), colto consumatore di cinema di cui ha individuato generi e stili catalongandoli in un repertorio da riutilizzare con alfabetica metodicità, Jordan Peele è l’emblema del nuovo cinema progressista americano. Dopo Get Out, Noi è un altro film in cui creazione e creatività diventano alibi per il conseguimento di due scopi: il primo, enumerare la propria formidabile alfabetizzazione audiovisiva per quanto riguarda estetica e semantica contemporanee; il secondo, veicolare un “social commentary” che nel caso di Noi è scopertamente politico.

Noi ha una qualità: sa intrattenere. Peele procede per accumulo, costruisce la tensione affastellando climax in successione e per gli spettatori di oggi, irrimediabilmente compromessi dal deficit dell’attenzione, è un dato positivo. Inoltre, seguendo la lezione di tanta televisione neo-filosofica (dal citato Black Mirror, a Dark, a The OA  ecc.) si configura come spettacolo in grado di operare un disvelamento della realtà in termini tanto spettacolari quanto semplicistici: tramite rovesciamenti, facili metafore, ammiccamenti continui ad una cultura pop ormai codificata nell’immaginario, Peele diverte e lascia nello spettatore la velleitaria sensazione di ritrovarsi depositario di iniziatiche verità.

Dimensioni parallele, determinismi, circolarità del tempo, cospirazioni sono i temi prediletti dal nuovo pubblico che chiede facili speculazioni –  etiche, estetiche, metafisiche – sulla struttura del reale, con cui esorcizzare la noia del vivere; Peele costruisce con Noi il perfetto giocattolo ingegneristico capace di combinare le parti in sistema: certo, si tratta di un sistema postmoderno, discontinuo, fatto di coazioni a ripetere (la seconda parte del film è un flusso di finali senza soluzioni di continuità), eterogeneità citazionistica (dalla paranoia sci-fi de L’invasione degli ultracorpi, alla rivoluzione romeriana di La notte dei morti viventi e La città verrà distrutta all’alba ai grafismi del J-horror), ma in ultimo ci si chiede, appellandoci a Bazin: “Che cos’è il cinema”?

L’universo di Peele, come tanta valida produzione audiovisiva americana (per qualità tecnica, riflessività sui topoi della propria cultura), ha una sua brillantezza ma sembra avviluppato nel proprio acume, incapace di produrre una scintilla vera. Lupita Nyong’o, nelle vesti del suo doppio in rosso (come Michael Jackson in Thriller), fornisce, a meno di metà film, un racconto esplicativo quasi insultante per l’intelligenza dello spettatore; ed è qui che si rivela l’equivoco di un regista che si affanna a spiegare, metaforizzare, disseminare di ovvi indizi, livellando la fantasia di chi guarda e chiudendo ogni voragine di libertà che il cinema, soprattutto horror, dovrebbe lasciare.