THE NEST – IL NIDO di Roberto De Feo

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Rispetto a tante opere prime, The Nest – Il Nido percorre un sentiero a ritroso: non si tratta di un film che parte da un’idea per creare una forma, bensì di un’opera in cui la forma è il film stesso, il contenuto che veicola, l’idea di cinema che il regista De Feo vuole comunicare. In tempi come questi, di prevalenza del racconto, un film del tutto sospeso nelle suggestioni formali è un oggetto dal fascino profondo e indefinito: The Nest vuole essere principalmente visione – luce, colore, composizione dell’inquadratura, lentezza dell’esplorazione spaziale. Ogni scena nasce come tableau vivant che prende vita quasi inaspettatamente: per De Feo è essenziale la presa sui sensi dello spettatore, mediante una qualità pittorica e tattile delle immagini. Villa dei Laghi è il non-luogo del sogno/incubo cinematografico: un’apparizione anomala in senso spaziale e temporale, il correlativo oggettivo di un film che passa davanti ai nostri occhi come immerso nel ricordo, già passato. La lente di De Feo è una triste nostalgia, la stessa che si prova leggendo le poesie dei nostri poeti scapigliati, in cui la morte, la separazione dalla società triviale, l’aspirazione al “suicidio” inteso come ribellione ultima impregnavano le stanze dei loro componimenti in versi.

Qui, le stanze di De Feo racchiudono personaggi già votati ad una fine, ciascuno alla ricerca di un personale Ideale cui tendere in una tensione funebre e impossibile: meravigliosa Francesca Cavallin, che porta al personaggio della madre (una madre dolorosa, una messaggera della tenebra, in bilico tra crudeltà e follia) una grazia severa colma di inquietudini. Il suo sguardo, l’incedere aristocratico, gli inaspettati ripiegamenti in una vulnerabilità infantile conferiscono alla sua Elena una suggestione antieroica romantica e cupa: ella è il Caos, lo sturm-und-drang emotivo disciplinato in neoclassico rigore. Nei panni del giovane Samuel, Justin Korovkin si rivela un sensibile, giovanissimo Werther il cui risveglio alla vita e al turbamento sensuale è dato dall’arrivo dell’adolescente Denise (Ginevra Francesconi), musa moderna, viva e aliena in grado di incrinare le pareti di quel “nido” di pavida cultura e fittizia armonia cui Samuel è inchiodato.
The Nest è un coming-of-age di estrema crudeltà, in cui l’esperienza ha i colori degli inferni di Blake e Milton (citato in apertura): De Feo si muove con estrema circospezione negli spazi da lui creati: predilige movimenti circolari prudenti, composizioni di astratta bellezza, visioni gotiche velate di memoria. Villa dei Laghi, a differenza di molte case orrorifiche, non ha una vita propria, un suo respiro: si tratta, piuttosto, di una tomba lussuosa, un luogo di fine e di morte; i suoi corridoi, gli ampi saloni, le vetrate, annunciano una immobilità eterna.

Certamente The Nest ha innegabili debolezze: una trama irrisolta, una frettolosa collocazione produttiva nel genere dell’horror “domestico” (che comprende titoli come A quiet place o It comes at Night) in cui una minaccia invisibile, dai tratti spirituali, riduce i sopravvissuti a uno stato di isolamento. E’ persino presente una sequenza onirica in puro stile The Visit, probabilmente appiccicata post-produzione e non amalgamata al resto del testo filmico, la cui funzione è quella di corroborare l’appartenenza del film al genere.
Ma ciò non inficia il fascino di questo film evanescente, fantasmatico, colmo di presenze spettrali valorizzate dalla bellissima colonna sonora di Teho Teardo, in cui archi dissonanti (sulla scia della sperimentazione di artisti come Mica Levi o Bobby Krlic) trasfigurano l’immagine sottendendo una minaccia trascendente, in un canto doloroso che è lo stesso dei protagonisti.

 

CRAWL – INTRAPPOLATI di Alexandre Aja

CRAWL** 1/2
Si prova una certa malinconia nel constatare come Sam Raimi, uno dei “grandi pertubatori” del passato, un regista anarchico, orgogliosamente “oltre” i generi e tecnicamente vero avanguardista, sia ora un produttore di opere meramente di consumo, per quanto formalmente curate. Crawl – Intrappolati è un film efficace, con un perfetto controllo dei tempi del racconto e con un senso ancora audace dell’inquadratura. In tempi come quelli attuali, in cui l’horror è una sorta di discarica di sciatterie e mediocrità, il prodotto di Sam Raimi/Alexandre Aja è tutt’altro che disprezzabile; ma non si può non pensare a ciò che i due autori hanno perso, nel loro cammino verso la commerciabilità.

Crawl è un’opera che per molti aspetti riproduce lo schema già utilizzato in Man in The Dark (Don’t Breathe) di Fede Alvarez, altro prodotto della Ghost House Pictures di Raimi: li accomuna la quasi unità (escluso il prologo) di tempo, luogo e azione e il topos classico dello spazio circoscritto in cui agisce il nemico mortale. Ma rispetto allo spirito ludico, pionieristico del film di Alvarez, Crawl si assesta su uno standard di marcata convenzionalità. Manca il sussulto creativo, l’invenzione, una certa giovinezza esplorativa guidata da prospettive inconsuete. Adeguandosi alla pigrizia e conformismo del mercato, Raimi e l’ex enfant terrible Aja appaiono invecchiati, o peggio, rassegnati.

Crawl è un classico “creature feature”, genere ormai storicizzato, di cui vengono sperimentati tutti i cliché. Le brillanti soluzioni stilistiche non riescono a destabilizzare la pochezza di una scrittura (di Michael e Shawn Rasmussen, già sceneggiatori di The Ward) che non si fa scrupoli nell’accumulare svogliati déjà vu pur di mettere in scena uno spavento funzionale ma pedissequo, disseccato di un autentico sentimento di terrore.
Cinema-replica, campionamento di emozioni passate, riproduzione di canoni in un’asettica tempesta digitalizzata: i protagonisti si muovono attraverso l’uragano con estrema disinvoltura, senza mai davvero avvertire sulla pelle la furia del vento, la rabbia degli elementi naturali. Gli alligatori rappresentano una minaccia anonima e impersonale: non ne cogliamo l’istinto, la logica animale o la presenza metaforica, ma solo l’ingombro fisico, la presenza fatta di peso.

Manca del tutto, nel film di Aja/Raimi, la misura dell’uomo con le cose e la natura (si pensi alla differenza con l’opera più incendiaria di Raimi, quell’ Evil Dead del 1981 in cui tutto era vivo: non solo il bosco ma la stessa casa, le pareti, gli oggetti, persino i soprammobili); più semplicemente, è assente quel rapporto attivo con lo spazio che in passato trionfava nel cinema di Aja (dagli interni “sadici” di Alta Tensione alle iperboli di Piranha 3D)
Persino i due protagonisti si rivelano incapaci di comunicare tra loro, se non attraverso patetiche derive sentimentali; si respira una generale afasia comunicativa che si estende al dialogo tra film e pubblico. Il regista fa di tutto per aprire varchi di luce, introdurci nel seminterrato, coivolgerci attraverso rapidi carrelli all’indietro o complessi movimenti di macchina; ma la sensazione strisciante è quella di una distanza posta tra il nostro sguardo e le immagini. La macchina/cinema di Crawl, per sua intrinseca natura, resta assente, autosufficiente, chiusa in un sistema che la vuole sterile produttrice di emozioni seriali.

BLEEDER di Nicolas Winding Refn

BLEEDER11(Bleeder usciva in sala esattamente il 6 agosto 1999)
**** E’ “solo” un piccolo film, Bleeder, però fondamentale e prezioso per tutto il cinema che contiene. In Bleeder si annida un tumulto di ispirazioni, ma anche “deviazioni” nei confronti di una coerenza cinematografica cui Refn non vuole piegarsi. E’ impossibile attribuire al film un’etichetta: i toni si sovrappongono, scolorano l’uno nell’altro. C’è una qualità, e lo diciamo senza timore di apparire iperbolici, shakespeariana in Bleeder: la capacità di condensare al suo interno tragedia, commedia e dramma, oltre a un’intima unità strutturale che ne fa un corpo “classico” al cui interno si agitano schizofrenie moderne, rappresentate da angolature prospettiche, musica e colore. Luce e colore come filosofia, atteggiamento mentale: il famoso detto di Douglas Sirk trova qui uno degli esempi più compiuti. Ogni personaggio è segnato da una particolare fotografia che lo inserisce in un contesto luministico differente: per l’asociale e malinconico Lenny, commesso di videoteca, è una scala di grigi e penombre; per la donna che ama, la silenziosa Lea, il blu e spiragli di luce bianca; per l’aggressivo operaio Leo, il rosso e l’abisso cupo del nero; per sua moglie Louise, il giallo e i pastelli che colorano le sue speranze acerbe.
Ma non è solo la precisa identità fotografica a definire i caratteri: Refn infatti introduce i suoi protagonisti, nel prologo del film, per mezzo di brevi sequenze in cui li vediamo camminare per strada, accompagnati da brani musicali differenti: è come se il regista avesse scelto di tradurre i loro pensieri in forma sonora. Lo spettatore, in pochi secondi, può identificarli come violenti, aggressivi, timidi o gentili.

Bleeder affina ulteriormente quell’abilità che diverrà segno distintivo del regista nel suo percorso autoriale: la creazione di un personaggio per sottrazione. Refn sottrae dialoghi ed azione drammatica; i protagonisti di Bleeder parlano poco, hanno un’attitudine contemplativa, restano spesso soli all’interno della scena e abbiamo a disposizione per decifrarli solo informazioni visive e sonore: puro cinema.
Refn circonda i personaggi di uno stato emotivo: un’aura che li precede, creata dallo spazio che li circoscrive, differente per ognuno. Questo spazio è ottenuto da un uso vivo e presente della mdp, che diventa un personaggio vero e proprio: un punto di vista avvertibile, calato nel farsi di ciascuna scena, e capace di reagire con movimenti, sobbalzi, inseguimenti affannosi. Guardiamo Bleeder attraverso una mdp che pensa, soffre, si meraviglia o si allontana da un personaggio con uno scatto rapido, colta da sorpresa o paura.
BLEEDER4Si pensi alla casa di Louis: il “luogo” più stretto, angusto, soffocante del film. La mdp di Refn sembra non avere fiato, intrappolata nel misero appartamento, tra corridoi e stanzette decrepite. La luce non riesce a penetrare nell’ambiente: il nostro sguardo è incastrato tra una porta e una parete divisoria, e solo attraverso porzioni d’inquadratura riusciamo a seguire, tramite la mdp/personaggio, le tristi vicende familiari di Louis e Lea. I due vengono messi con le spalle al muro (dipinto di rosso): Lea si ostina a ritagliare una realtà fantastica di idillio familiare che persegue con la fede infantile di una creatura immatura e smarrita, priva di un rapporto con il reale.
Parallelamente, Louis ci è mostrato come un volto che emerge dagli angoli bui della casa, in cui affonda sempre più. Senza soldi, senza un vero lavoro, con l’unica passione dei film violenti condivisa con gli amici, Louis nutre una disperazione ed una rabbia autodistruttiva che cerca di placare attraverso una “imitation of life”: una pistola con cui “recitare” una vita intensa ed estrema.
Louis si inventa un nuovo presente che lo trasformi da fallito a duro, da schiavo sopraffatto ad anti-eroe libero grazie alla violenza. Ci troviamo dunque di fronte a una doppia imitazione: Louis imita il cinema, ma anche Refn lo fa, omaggiando apertamente non solo il Travis Bickle di Scorsese, ma tutto il cinema di genere che ha amato nella sua formazione.
In una scena essenziale, la mdp di Refn osserva Louis stagliarsi davanti allo schermo che proietta Maniac di William Lustig. Sconvolto e con la pistola in mano, Louis è prospetticamente deformato: una replica disgraziata della morte cinematografica che scorre alle sue spalle.BLEEDER2Del tutto diverso è il registro scelto per la storia che si svolge in parallelo: quella del timido Lenny, commesso di videoteca e totale nerd cinematografico. Se la mdp di Refn si agitava nevrotica, quasi in fin di vita nelle scene con Louis, qui sembra invece mossa da meraviglia, persino ingenuità. Quando Refn insegue Lenny negli spazi della videoteca in cui egli lavora, le immagini sono vorticose, risultato di una steadycam emozionale che scivola su scaffali di film d’ogni genere: gli spazi sembrano infiniti. Come direbbe Fassbinder, “i film liberano la testa”; e difatti è proprio il cinema il rifugio interiore di Lenny, cui Refn affida alcune dei momenti più divertenti del film. I suoi scambi di battute con l’amico che gli rimprovera di parlare solo di film (“Ci sono altre cose nella vita! La natura, la spiaggia!”) ci riportano alla memoria i nerd di Clerks: con la differenza che rispetto al film di Kevin Smith, Bleeder non ammicca mai allo spettatore.

La storia di Lenny e Lea, ragazza dei suoi sogni, permette a Bleeder derive di grande romaticismo e sequenze oniriche che elevano il film dal pessimismo dei suoi bassifondi. In una scena, bellissima, un’angelicata Lea si appoggia tristemente alla finestra: Refn sovrappone un treno in blu al volto della ragazza, quasi passasse nella galleria dei suoi sogni. Ed è ancora Lea a regalarci la sequenza più spirituale del film: seduta tra pile di libri, la ragazza ci appare pura ed illuminata, una presenza salvifica che ci libera dal sangue e dalle numerose dissolvenze in rosso che scandiscono l’essenzialità dei capitoli.
L’amore è rifugio, speranza: la dolcissima scena finale ci sorprende con un “coup de théâtre” che spegne letteralmente la luce su Lea e Lenny, rimasti soli nel diner: nel buio, appena rischiarato dalla luce dei loro volti, riusciranno finalmente a vedersi. Una chiusa senza parole, commossa da un brano romantico in cui sciogliere, senza paure, i sentimenti.

(articolo scritto per Nocturno n. 163)