HONG KONG EXPRESS di Wong Kar-wai

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Vuoto amoroso e distillata disperazione nel caos del quartiere di Chungking. Il “poliziotto 223” (Takeshi Kaneshiro) non si rassegna all’abbandono; la sua vita corre sul filo del telefono – una “voix humaine” che ha perso l’interlocutore. Amei, la sua ragazza, lo ha lasciato: e non bastano dozzine di lattine di ananas per placare la voragine interiore che lo inghiotte. 223 è giovane e ingenuo, quasi un germe estraneo nell’automatismo di notti inquiete e di un fluire di corpi nelle strade, tra crimine, luci al neon, bar dove consumare alcol e solitudine. L’incontro con una sconosciuta (Brigitte Lin) è un “lunghissimo brivido”: il ragazzo non lo sa, ma in quel momento anche vita e morte si confondono, rincorrendosi nei vicoli, tra la folla, là dove la passione esplode e fugge. “C’è una canzone che dice: Il sole che sorge fa finire l’amore. Era esattamente quello che speravo accadesse”.

La macchina da presa scivola e si sposta su nuovi personaggi. Si sofferma sul “poliziotto 663”, tradito dalla sua fidanzata hostess e immerso nella tristezza di un quotidiano vulnerabile e velato di rimpianto. 663 (un magnetico Tony Leung) fa dell’assenza la sua compagna malinconica: ogni giorno, nella sua abitazione, torna a rivivere nella memoria i momenti vissuti con la donna perduta; piange dignitosamente insieme agli oggetti, li consola, li umanizza. Nulla sembra avere più alcun significato se non in relazione alla sua perdita: “Quando un uomo piange basta un fazzoletto. Quando a piangere è una casa, ti tocca fare un sacco di fatica.”
Ma un giorno 663 si accorge di Faye (Faye Wong), la ragazza del fast food che si è innamorata di lui. Faye è uno spirito leggero, dall’allegria folle e un po’ clownesca; i suoi capelli corti di ragazza, i grandi occhi spalancati sul mondo e sull’amore ne fanno un’anima sperduta e giocosa sullo sfondo di una città in corsa. In un bellissima scena in time-lapse, Wong Kar-wai isola e cristallizza il sentimento di Faye per 663: un’adorazione silenziosa mentre intorno tutto scorre.

Non sono mai riuscita a comprendere perchè Wong Kar-wai abbia spesso suscitato critiche, tra cui l’essere troppo “occidentale” ed estetizzante. Wong Kar-wai è un regista di metropoli, ed è chiaro che il suo linguaggio aderisce al suo mondo, in cui i contorni tra le cose – così come tra le culture e le espressioni – perdono nitidezza per farsi mutevoli e veloci. La regia è elettrica, una corsa per afferrare il naturale fluire del caos e della vita, cogliendone l’intima e fragile bellezza. L’accusa di virtuosismo estetico è ancora più ingiustificata: Hong Kong Express è stato girato quasi interamente camera a spalla, e la visione di Wong Kar-wai è esattamente lo specchio del suo sentimento. Il regista mescola suoni e sensazioni, velocità e cromatismi intensi pari a certi sconvolgimenti del cuore. In Hong Kong Express, Wong Kar-wai è il regista dell’amore.

THE FATHER – NULLA È COME SEMBRA di Florian Zeller


Nel 2012, con Amour, Michael Haneke metteva in scena il dramma devastante di una malattia degenerativa: abbattendo la parete dell’appartamento, il regista ci aveva condotto all’interno di una rigorosa geometria strutturale e spaziale, l’unica possibile per filmare l’infilmabile e restituire pudore al dramma.
Anche in The Father (2020) Florian Zeller ci fa “entrare” nell’abitazione/spazio geometrico per renderci parte del dramma, ma le sue intenzioni sono più scopertamente sensazionalistiche: lo sguardo è voyeuristico ed è presente una sottile quanto pervasiva pornografia del dolore. Il film enumera, all’interno di un’estetica signorile, un vero catalogo di sofferenze: primissimi piani di una vecchiaia tremula, dialoghi disperati, strazianti crisi di pianto. Guardando The Father ho avuto l’impressione che il personaggio di Anthony Hopkins non fosse che uno strumento nelle mani di Zeller, un dispositivo per dispensare commozione, sdegno e infine catarsi emotiva. Piangere insieme a Anthony è un modo di lavarsi la coscienza e uscire dal cinema con un senso confortante di partecipazione e la convinzione di essere persone sensibili e migliori.

Certo, Hopkins è straordinario e nobilita la furbizia di un film manipolatore, che lavora sin dalle prime immagini per indirizzare la percezione degli spettatori in un’ indistinta condizione emotiva soffusa di compassione e lacrime. Hopkins intride il suo personaggio di dolore e realtà: l’attore inglese si cala nell’essere, non nella performance. Ogni dettaglio è colmo di verità: l’esitazione del corpo, la bravura nell’uso delle mani, la voce, l’inafferrabilità di uno sguardo che rifiuta l’esibizione e sceglie l’ombra. Hopkins è privo di tutti i vizi nei nostri grandi istrioni – da Servillo a Castellitto – ed è talmente umile da mettersi a servizio del personaggio invece di fagocitarlo all’interno della propria immagine.

Ma Zeller non è altrettanto onesto, né possiede la lucidità affilata di Haneke, pronto a chiamarci in causa nella nostra responsabilità di spettatori. Zeller compiace e corteggia apertamente il suo pubblico, lo confonde (e lo intrattiene) mimando i cliché del thriller psicologico; e non si fa scrupolo di abusare del suo protagonista – attraverso scrittura e messa in scena – per scatenare un pathos che valga il prezzo del biglietto. Non contento di imitare i labirinti mentali della demenza in uno showroom scenografico in cui il disorientamento si accorda ai colori dell’arredo e le gag ripetute (l’orologio) si offrono come sollievo comico, il drammaturgo francese ricorre alla violenza: in una scena Anthony viene schiaffeggiato due, tre volte. Ed è qui, in questa sopraffazione immaginata e brutalmente pornografica, che The Father mostra la sua anima astuta e calcolata, la sua natura di prodotto commerciale privo di profondità.