IL FUORILEGGE (THIS GUN FOR HIRE) di Frank Tuttle (1942)

thisgun*****
“Puro melodramma, diretto e vizioso; dalla scrittura tesa, morboso ed esplosivo”. Così Bosley Crowther, critico del New York Times, recensì IL FUORILEGGE (This Gun For Hire, 1942), il giorno dopo la sua uscita nei cinema americani. Diretto da Frank Tuttle e di produzione Paramount, This Gun For Hire divenne uno dei primi e più importanti film noir e fece di Alan Ladd (dopo dieci anni di gavetta e ruoli minori) una star accanto a Veronica Lake. I due formarono una coppia iconica di impossibile bellezza: un’astrazione in cui si condensavano i codici del genere – la solitudine, il mistero, la tensione erotica, il malinconico cinismo – ma anche due corpi cinematografici su cui si esercitò l’immaginario ed il desiderio di generazioni (innamorato del film, il regista francese Jean-Pierre Melville trasformò Delon nel “fantasma” di Ladd in Le Samourai, 1968).

Meno romantici, più riservati di Bogart-Bacall (l’insolente coppia antagonista della Warner Bros), Alan Ladd e Veronica Lake si trovano al centro di uno dei film più asciutti, essenziali e significativi del decennio; un’opera miracolosamente moderna e pervasa da un cupo senso funebre. Tratto da un romanzo di Graham Greene, This Gun for Hire stabilirà molte delle convenzioni del noir e ne anticiperà gli sviluppi futuri, con una regia che è specchio della sensibilità alterata del protagonista, una fotografia onirica ed espressionista, una dimensione temporale interiorizzata ed uno sguardo traumatico sulle cose.

Tuttle dirige con grande concentrazione, puntando ad un sintetico ed espressivo linguaggio cinematografico – attenta composizione dell’inquadratura, transizioni rapide ed epifaniche, dettagli significanti, grandissima pulizia e cura della messa in scena, découpage di classico nitore – il tutto immerso in una luce spirituale, tra penombre dell’inconscio e buio attraversato da raggi sovrannaturali. Scarni invece i dialoghi, che rivelano uno stato di costante afasia (siamo lontanissimi dalle brillanti ed allusive schermaglie dialogiche de Il Grande Sonno, 1946). Tra Ladd e la Lake l’attrazione è stupefacente e magnetica, ma costantemente inespressa, fino allo “spostamento” finale dell’oggetto del desiderio (l’abbraccio della Lake a Robert Preston) che è quanto di più profondo e struggente il cinema ci abbia mai offerto.

IN RICORDO DI ROBERT TODD

todd5“Quali sono le direzioni da prendere? Quale l’intenzione? Il più delle volte il tema mi è nascosto e necessita di essere scoperto. (…) Il vero tesoro emana da sé la propria Luce; un film è nato. Lo spero.”
Apprendo con sconcerto della scomparsa di Robert Todd (1963 – 2018), filmmaker, artista e docente di cinema sperimentale all’Emerson College di Boston, che ho avuto modo di scoprire grazie alla rassegna monografica “Robert Todd Lost Satellite” organizzata dalla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema (Pesaro 2016, a cura di Mauro Santini e Gianmarco Torri).
Spesso si parla di poesia a sproposito, ma Todd era un poeta vero e naturale; un filmmaker che non ha avuto bisogno di rivestire artificiosamente le cose di lirismo, poichè le cose stesse si sono rivelate alla sua sensibilità.
WinterDawn2Todd “si libra sulla vita e intende il linguaggio dei fiori e delle cose mute”; la sua macchina da presa possedeva la capacità di cogliere, senza sforzo, l’anima di un filo d’erba tremulo o di una corolla in boccio. Vedere i suoi film è come leggere le poesie di Emily Dickinson: la natura ha un respiro religioso, tanto vive di una divinità propria.
I ruscelli, la pioggia, le nuvole: nelle immagini di Todd accediamo ad una natura che è “l’urna molle e segreta” pascoliana, in cui si schiude una felicità nuova.
Todd ha avuto un dono: quello di poter sentire l’armonia dell’universo e di vedere il movimento eterno della natura. Per il suo cinema inventerei un nuovo genere: il cinema dell’incanto.