SPLIT di M. Night Shyamalan

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Split
conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto Hitchcock sia il regista più amato, saccheggiato, imitato; un autore con cui il cinema di genere e quello d’autore (se hanno senso queste distinzioni) sentono il bisogno di confrontarsi, l’origine di un modo di vedere e sentire il cinema (in forme ossessive, schizofreniche, psicanalitiche e voyeuristiche). Hitchcock è l’inconscio stesso del cinema, e Shyamalan è tra i registi più compulsivamente legati a lui; guardando Split ci si chiede se abbia ancora senso parlare di personalità multipla e dissociata, dopo Psycho, ma anche dopo Marnie.

C’è da dire che Shyamalan resta, tra altezze e cadute vertiginose della sua discontinua carriera, un autore ambizioso in modo ammirevole. Non ha avuto paura di sporcarsi e sbagliare pur di introdurre un rinnovamento: non solo tematico, ma strutturale e dell’immaginario. Nutrendosi dei fantasmi del passato – Hitchcock, ma anche B-movies di Tourneur, la fantascienza anni ’50 e lo psicologismo del cinema d’autore europeo – Shyamalan ha sempre puntato a contaminare e rinnovare l’horror e il thriller, partendo dalle loro convenzioni per terremotarle.
Uno degli esempi più felici di questo modo di operare è l’incompreso The Visit, film dello scorso anno: un’opera che, muovendo da un espediente pigro e anticinematografico come il found footage, rifletteva sul linguaggio, la natura e l’evoluzione della finzione cinematografica.

Split nasce dallo stesso bisogno di introdursi, come un germe, in uno schema consueto per ribaltarne la prevedibilità industriale. Shyamalan si appropria infatti dei canoni del contemporaneo: le protagoniste adolescenti; la scelta di girare in interni squallidi e soffocanti; il costo basso o contenuto della produzione; l’intervento di un male estraneo, diverso. Ma irride le aspettative approdando ad un cupo dramma psicanalitico, virato verso un filosofico delirio di onnipotenza.
Split somiglia terribilmente al suo protagonista (James McAvoy) impregnato del proprio ego, in cui però riconosciamo il barlume del genio. E’ un film che ha delle debolezze (in particolare i lunghi, prolissi dialoghi con la dottoressa) ma anche cinema geniale, straniante, coraggioso fino all’incoscienza. L’opposto di tanto horror che rende passivo lo spettatore: qui siamo coinvolti nel gioco, e Shyamalan non esita a farsi beffe del nostro senso comune. 

Shyamalan gira in spazi ristretti limitandosi ad esercitare tutta la propria passione voyeuristica: la sua mdp spia, si insinua in buchi, crepe, aperture da cui spiare i propri personaggi, sempre inquadrati in modo parziale – corpi senza testa, oppure primi piani su volti, sguardi, mani. Altre volte ci dà prova di tutta la sua raffinatezza tecnica con immagini-vertigo di scale in riprese verticali, o con piani sequenza di fughe attraverso corridoi labirintici di un sotterraneo. Anya Taylor-Joy, prigioniera di una tipizzazione, viene ancora una volta utilizzata come in The Witch per l’impressione di martirio veicolata dal suo volto attonito. James McAvoy è una vera stella da palcoscenico nel susseguirsi spettacolare di caratteri che ci offre, con uno smagliante senso dello spettacolo. La sua performance è l’esplosione barocca di Norman Bates: teatrale e immaginifica, tra il dramma shakespeariano e lo scintillio di Las Vegas.

ARRIVAL di Denis Villeneuve

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Arrival
è un film senza tempo: è allo stesso tempo classico e contemporaneo, intriso di memoria che traluce in ogni immagine. E proprio la luce è uno dei dati “forti” del film: Arrival vive di essa, inghiotte la nostra angoscia nel suo bianco, spiritualizza il nostro essere nel mondo. C’è una sorta di fede ancestrale nel tunnel nero che conduce ad un bianco puro, luminoso, sconosciuto, che sa di rinascita e di dimensione “altra”; luce cui tende il destino collettivo. Villeneuve attinge alla trascendenza di 2001 Odissea nello spazio, ai suoi silenzi in cui cova la scoperta e la paura: è cinema che si avvicina ad un oltre, punto d’incontro tra la vita e la morte. L’esperienza di Louise (Amy Adams) somiglia anche a quella di William Hurt in Altered States, al suo avvicinarsi ad un nucleo inconscio che lega il suo destino e la sua storia individuale a quelli universali.

E’ difficile parlare di Arrival perchè, come Louise di fronte agli alieni, lo spettatore è sopraffatto dall’emozione e mosso dal desiderio di conoscere e comunicare con ciò che appare sullo schermo. Una comunicazione fatta, in entrambi i casi, di linguaggio visivo, di segni densissimi. In Arrival anche noi tentiamo una decodifica, e lentamente riconosciamo il familiare: il monolito di Kubrick; le sue prospettive geometriche; la morte e la rinascita simboleggiata dal neonato. Ma anche lo Spielberg di Incontri ravvicinati è presente, una presenza sottesa ad ogni inquadratura: dall’astronave silente e sospesa nel paesaggio solitario del Montana; al brulicare di scienziati, tende, apparecchiature scientifiche e computer, il tutto in un improvvisato accampamento, come fedeli intorno ad una apparizione sacra; all’emergere dell’alieno dalla luce. E non manca la paranoia dei B-movies anni ’50 in quell’uccellino in gabbia che temiamo di veder morire sotto i nostri occhi, vittima di una “contaminazione”.

Arrival è saturo di cinema ma Villeneuve ne fa un film profondamente suo, e sembra quasi di sentire l’amore in ogni immagine, la cura con cui il regista corteggia l’abisso. L’arrivo di Louise in elicottero è quanto di più spettacolare, grandioso e emotivamente sconvolgente il cinema ci abbia regalato negli ultimi anni: Villeneuve si avvicina all’astronave con una panoramica da brivido, fatta di ampi movimenti circolari, in un lento, misterioso abbraccio: eccolo, l’inconoscibile, l’ignoto in cui “muore” tutto ciò che sappiamo della vita. L’astronave, con la sua presenza oscura ed estranea, costringe ad un nuovo rapporto con le cose; ma anche ad abbandonare gli usuali strumenti del comunicare. E’ un film sulla potenza dell’immagine: sensibile, subliminale, polisemantica; più forte del tempo. Un’immagine che il contemporaneo sembra disinteressato nel decifrare, fermandosi all’immediatezza della superficie.

L’interpretazione della Adams è meravigliosa e condensa tutta la fragilità e l’elevazione di cui è capace l’essere umano. Louise viene scelta per la sua anima intatta, per una purezza che le apre le porte della percezione: in lei tutto è al contempo mutevole ed eterno, presente e passato. Villeneuve la immerge in una stanza bianca (compresenza di vita e morte) e lavora sul suo corpo in modo struggente, alleggerendola del peso degli anni, smaterializzandola, privandola della gravità.
Di fronte al cinema di Villeneuve, mosso dal desiderio di essere più della vita stessa, catturare l’invisibile con “l’arma” sciamanica delle immagini, non si può che sbalordire fino alle lacrime.

DOPO L’AMORE di Joachim Lafosse

dopolamore***1/2
Il realismo di un film come Dopo l’amore solitamente induce a fraintendimenti: molti spettatori, ma anche recensori, lo descrivono come una “presa diretta” della realtà, una fotografia del vissuto. E in effetti il regista Joachim Lafosse fa apparire “facile” il suo stile: come se aderisse alla vita senza intromissioni e senza turbarne il flusso naturale. Al contrario, Dopo l’amore formalmente risponde ad una costruzione sottile e invisibile: sin dalle prime scene Lafosse imbastisce un racconto parallelo, spostando ritmicamente l’attenzione da un personaggio all’altro. Lo fa con l’alternanza della messa a fuoco, che crea una danza di volti all’interno dell’inquadratura; oppure attraverso piani significativi che scelgono di mostrare un personaggio nella sua interezza, e l’altro tagliato: come l’entrata in scena di Boris, che ce lo mostra “senza testa”, come se per Marie egli non avesse più un volto.
Similmente il dialogo si sviluppa lungo un doppio registro: mentre i piani sequenza seguono ossessivamente i personaggi, il punto di vista della narrazione scivola dall’uno all’altro. La loro è una voce doppia: un dualismo che ritroviamo anche nel “racconto morale” che impregna il film, e che ci porta ad aderire di volta in volta alle verità asserite dai due protagonisti, senza identificazioni definitive.

E’ un film sulla verità tremula e inafferrabile, sui punti di vista che filtrano le cose, sull’impossibilità di individuare una visione oggettiva degli eventi. La chiave è il due, la coppia, il doppio sguardo, anche quando l’amore finisce. Boris e Marie restano due nell’interpretazione dei fatti, due nella versione dei sentimenti, due nelle conseguenze e nella responsabilità. Ma è un due spezzato, sfocato, ondivago, che ha perso presa sulla cose, che procede incerto e zoppicante. Ognuna delle due estremità reclama un’indipendenza e un’autonomia; allo stesso tempo, i primi “movimenti” solitari sono incerti e timorosi, e si ammantano di alibi per ritrovare l’altro, per conservarlo all’interno della propria realtà.

L’economia della coppia, il titolo originale del film, sancisce con secchezza la natura di contratto del rapporto: e dopo l’amore resta il simulacro della cellula sociale, da gestire in termini “economici” separando cose e proprietà. Joachim Lafosse sceglie momenti esemplari, isola i suoi personaggi, li smarrisce, li rende muti e vinti di fronte al presente; eppure ancora in preda a un desiderio che resiste. La scena che si svolge sulle note della canzone “Bella” è un complesso, struggente esempio di costruzione di un momento drammatico e significativo, carico di passato, paure e sogni infranti in cui si sciolgono i nodi dei due caratteri.

Ogni risoluzione lascia aperti rimpianti e possibilità, esattamente come le porte di cui il regista si serve per mostrarci l’interazione della coppia: porte attraverso cui un personaggio sparisce o viene osservato; porta come un indizio di fuori campo, di storia che non ci viene svelata.
Dopo l’amore ci fa sentire fragili e fallimentari in quanto il suo studio sulla transitorietà delle cose non approda a soluzioni né ad un riposo: è un film sul provvisorio e l’incomunicabilità, quel toccarsi senza mai davvero raggiungersi che è il nucleo di sofferenza di ogni rapporto d’amore.

ALLIED di Robert Zemeckis

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Pur nello splendore della sua confezione, Allied esercita un fascino freddo e cerebrale; quasi fosse un trattato accademico sui generi – film bellico, noir, melodramma – di distaccata erudizione.
Da sempre culture dei classici, Zemeckis sembra aver abbandonato, in Allied, la consueta progettualità che lo porta a scomporre quegli stessi classici insinuandovi una “febbre” ed una inquietudine contemporanea – con risultati diseguali e irregolari, ma sempre arditi e vivi: penso ai recenti Flight e The Walk – a favore di uno studio entomologico. Allied infatti osserva il cinema con lo sguardo scientifico di chi analizza l’organismo di un corpo già morto: è un film sulla morte dei classici.

Brad Pitt si cala nel deserto in procinto di incontrare il suo corrispettivo divistico contemporaneo: Marion Cotillard. Il primo incontro stabilisce non solo la natura della loro relazione, ma anche del loro rapporto con il pubblico: ed è significativo che Zemeckis abbia scelto una introduzione “debole” per le due star. Pitt e la Cotillard ci vengono presentati attraverso una serie di scene profondamente anticlimatiche. Un metodo che è l’antitesi dei modelli cui il film fa riferimento: si pensi a Casablanca, alla ieraticità silenziosa delle due star, alla presenza magnetica rafforzata da poche battute. Il divismo nel cinema classico non aveva bisogno di parole, ma viveva del carisma assertivo dei suoi protagonisti. E’ proprio nella loro assertività che trovava giustificazione anche la parola: volti come Bogart o la Bergman (ma anche la Bacall) si muovevano con sicurezza nelle sceneggiature più complesse (penso a The Big Sleep).

Dopo aver provato la fragilità delle sue star (che in una scena “diventano” Mr & Mrs. Smith), Zemeckis passa a esaminare forma, struttura e scenografie del cinema di una volta: contrariamente alla pulizia del decoupage classico, ci immette nel locale con ampi movimenti di macchina, virtuosismi che attraversano la sala, rapidi passaggi dall’ingresso al pianoforte passando attraverso la folla fino al viso della Cotillard. La sala del Rick’s Café di Casablanca è destrutturata. E la stessa operazione di “distruzione” avviene nelle scene in auto: abbandonando la frontalità classica che vede la coppia all’interno del veicolo, su fondale trasparente, Zemeckis passa ed esplorare la pluralità di punti di vista attraverso l’abitacolo dell’auto, mostrandoci persino alcune soggettive in cui il parabrezza è una cornice filmica del mondo esterno.

Dal punto di vista scenografico, il mondo allestito da Zemeckis è perfettamente, consapevolmente fasullo: la ricostruzione della città in interni è ovvia e stilizzata, e culmina nella scena del parto sotto le bombe, che è al contempo di una bellezza struggente quanto artefatta ai limiti del camp.
Zemeckis parte dalla sceneggiatura di Knight per mettere in atto una sofisticata operazione di decostruzionismo: Knight infatti contamina film bellico, melodramma e noir in un testo che ne condensa i “movimenti” e i temi essenziali fino al parossismo. Complesso, lacrimevole ai limiti del kitsch e infine pervaso di tanta paranoia hitchcockiana (e Zemeckis riprende il “bacio” di Notorious trasformandolo nell’elaborata scena d’amore in macchina), il testo di Knight finisce con il sancire l’impossibilità dei generi tradizionali nel cinema di oggi impregnato di scarti, debolezze e soprattutto privo di corpi in grado di assorbire le fragilità dell’ordinario.

Pitt e Cotillard esprimono un costante senso di disorientamento e inadeguatezza: Pitt rappresenta metaforicamente questa sua estraneità proprio attraverso quel paracadute che lo cala in un mondo a lui lontano. Nel finale, la Cotillard scrive una lettera di Ophulsiana memoria: una dedica funebre ad un cinema che non è più.

SILENCE di Martin Scorsese

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Scorsese legge Silence, di Shūsaku Endō, nel 1988. E’ un romanzo che lo turba profondamente e decide, dopo due anni, di acquistarne i diritti per una trasposizione cinematografica, ma non si sente pronto: la gestazione di questo progetto finirà con l’attraversare più di due decenni, nel corso dei quali il regista si sentirà costantemente inadeguato di fronte alla potenza del libro. Allo stesso tempo però il romanzo si sedimenta nell’animo del regista, lo accompagna, diviene la luce attraverso la quale egli realizza altri progetti; come afferma nell’intervista a Antonio Spadaro, “ho vissuto la mia vita attorno ad esso”.
Proprio con la stessa sensazione di inadeguatezza ci si deve accostare, oggi, al film: e non per mera, ipocrita reverenza, ma consapevoli della sua inafferrabilità, della sua complessità estetica quanto della riflessione profonda che è in grado di indurre nello spettatore “devoto”: e per devozione si intende una devozione al cinema, ma anche allo spirito dell’uomo. Perchè la grandezza di Silence risiede nel suo coraggio di mostrare, nella povertà spirituale del contemporaneo, il rapporto tra l’uomo e la fede: una fede che è sguardo sulle cose, forza al contempo rivelatoria e distruttrice.

Silence affronta le complesse problematiche che ruotano attorno alla fede non solo in prospettiva storica, calandosi nel Giappone del Seicento; ma lo fa in modo essenzialmente soggettivo, riportando, attraverso la figura di Padre Rodrigues, i tormenti, i dubbi, le elevazioni e le cadute che sono state del regista stesso. Scorsese, chierichetto da bambino e seminarista da ragazzo, abbandona l’idea di farsi prete e sceglie il cinema: ma, come racconta nel documentario A Personal Journey Through American Movies, non vede poi molta differenza tra la chiesa e la sala cinematografica: due luoghi in cui vi è sempre, anche quando non è esplicita, una ricerca di spiritualità.

Silence è un film sulla Grazia, sulla capacità di vedere e riconoscere la Grazia come velo che avvolge le cose anche in quello che è un apparente “silenzio” divino: il viaggio attraverso l’esistenza è sempre un viaggio spirituale, cosa che l’epoca contemporanea sembra aver dimenticato.
Scorsese ce lo ricorda, ci racconta di creature umili disposte ad abbandonarsi alla sofferenza e alla morte pur di non perdere il loro credo spirituale, la fede che si concentra, nella disperazione di un’esistenza di stenti, in un oggetto-feticcio, un grano di rosario, una croce, una promessa di Paradiso. Illusione o forza liberatoria? E’ una domanda che ci si pone continuamente di fronte a queste anime che ci appaiono bellissime nel loro martirio.
Scorsese, da sempre affascinato dalle vite dei santi e dalle loro rappresentazioni, ripercorre iconograficamente Dreyer, Rossellini, Pasolini, Cavalier. Concentra, in una sequenza di inquadrature che si imprimono nella mente, tutta la sua suggestione, l’amore e la devozione di ragazzo per il volto di Cristo: un volto che oggi, con lo sguardo esperto dell’adulto, si sovraimprime di significati ma non perde la sua capacità di smarrire e far vacillare l’anima umana.

Silence mette alla prova il credente quanto l’ateo: è un film che scuote l’essere e rimette in discussione i pilastri spirituali, di qualunque tipo essi siano, scelti per erigervi l’esistenza. Scorsese non offre risposte ma racconta un’esperienza, espone dubbi, racconta l’incertezza, il mistero, allo stesso tempo come tenebra e come luce. Lo fa con i mezzi del cinema, quei mezzi che hanno fatto di lui il più grande regista americano vivente e il più grande storico del cinema: in Silence squarciano lo schermo visioni di Ozu, John Ford, Sam Peckinpah, Ingmar Bergman.
Tra i più umili registi del mondo, Scorsese ha sempre dichiarato di nutrirsi di ogni tipo di cinematografia per “arricchire la sua tavolozza” e perché “c’è così tanto da imparare”: in Silence è come se ogni film visto riemergesse per comporre un nuovo, straordinario affresco che mescola generi, stili ed epoche; e che ci illumina con composizioni dell’inquadratura classiche e moderne, fotografia di ascendenza pittorica, immagini ancestrali rubate all’inconscio e al sogno, cariche di inesprimibile potenza figurativa.

Scorsese parla della fede attraverso il cinema, perchè ci sono cose che la parola non può dire, ma l’editing delle immagini, la loro sequenza, può far scaturire nel pensiero di chi guarda. Padre Rodrigues, un meraviglioso Andrew Garfield, contiene in sé purezza e orgoglio, innocenza e colpevolezza. Il suo percorso magnifica le contraddizioni, il buio dell’esperienza umana. Mentre Kichijiro, come afferma Scorsese stesso, è la sua guida: lo conduce attraverso l’errore, innesca un duro processo verso la salvezza.
Silence è, per il pubblico contemporaneo, ciò che i romanzi di Proust e Joyce furono in letteratura per i lettori del primo ‘900: un’opera che non vuole un pubblico passivo, ma chiede attenzione, riflessione, in un viaggio magmatico attraverso il dolore, la bellezza e la grazia dell’esperienza umana.

IL GGG – IL GRANDE GIGANTE GENTILE di Steven Spielberg

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*** 1/2
Il cinema di Spielberg si è sempre sviluppato lungo una doppia direttrice: da un lato l’intensa sperimentazione, la ricerca di un cinema del futuro che rinnovasse tecniche e generi; dall’altro l’amore per i classici, reinterpretati e presenti nel suo cinema come archetipi ormai sedimentati nell’inconscio.
IL GGG contiene in forme chiare la duplice inclinazione del regista: è un’opera complessa tanto per le ascendenze filologiche quanto per l’ambizione tecnica che lo sorregge, ma tutto viene piegato al piacere della favola.
Con IL GGG,  Spielberg rende omaggio al cinema del “meraviglioso” (come già fece Scorsese, in modi diversi, con Hugo Cabret); la sofisticata tecnica della motion capture, trionfo del contemporaneo, viene messa al servizio della nostalgia e della memoria,  in un sogno attraverso il sogno – un viaggio nel cinema fantastico degli inventori e dei pionieri.

Spielberg ci porta a “guardare dietro la tenda”, esattamente come fa la protagonista contravvenendo alle rigide regole dell’orfanotrofio: e subito il suo mondo, fatto di osservazione “frontale” e privazioni, si slarga attraverso dimensioni impreviste.
Sophie viene catturata dalla mano del GGG come lo spettatore si lascia rapire dallo schermo: nuove possibilità vengono offerte alle sue (e nostre) percezioni.
Il primo viaggio di Sophie attraverso il “corpo” del Gigante ci viene mostrato in soggettiva: la città improvvisamente trema e sobbalza dal nuovo punto di osservazione, lo sguardo della bambina reinventa il reale da nuove vertiginose altezze. Ma anche la casa del Gigante viene esplorata da prospettive insolite: lo spazio, gli oggetti, i mobili, perdono qualsiasi connotazione familiare per diventare strumenti di quel cinema dell’illusione inventato da Georges Méliès, che Spielberg evoca sottilmente, come un incantesimo che avvolge l’inquadratura.
Questa dichiarazione d’amore al cinema muto si esplica anche attraverso il colore: non di rado le esplosioni luministiche, i rosa, i verdi innaturali sembrano inseguire il processo di colorazione manuale delle pellicole dei primi del ‘900. Spielberg inoltre mette in rilievo il mondo delle ombre (quasi una sorta di “caverna platonica”) alludendo all’immaginario “in cerca di proiezione” che da sempre accompagna l’animo umano.

Ma non solo: quando Sophie è adagiata sulla mano del GGG, si pensa al King Kong (1933) di Cooper e Schoedsack; così come la presenza minacciosa dei giganti ricorda il genio de Il Ladro di Bagdad  (1940) interpretato da Rex Ingram. Bellissima anche la scena nel Paese dei sogni, con un’animazione astratta che richiama gli sperimentalismi di alcune sequenze di Fantasia (1940) di Walt Disney: lì Sophie e il Gigante catturano bagliori che si agitano nel paesaggio come fate, “luce in movimento” in cui è racchiuso il desiderio umano di sognare.
Certo, non sempre gli effetti digitali de IL GGG sono all’altezza dell’ambizione fantastica del regista: ma il film resta una lanterna magica che commuove e incanta, un viaggio meraviglioso che Spielberg ha cercato, correndo non pochi rischi, di offrirci.

HARDCORE! di Ilya Naishuller

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Ho esitato a lungo prima di scrivere un articolo su Hardcore! di Ilya Naishuller; se si ama davvero qualcosa si teme sempre di non rendergli giustizia. Eppure Hardcore!, dalla prima visione, non mi ha più lasciata. E’ stato come innamorarsi del cinema una seconda volta, con la freschezza dei miei anni giovanili, quando la visione di un film offriva sensazioni mai provate. Perché se il cinema contemporaneo tenta ancora di superare se stesso e la soglia del visibile – e lo fa, come nel caso di Hollywood, spesso attingendo a soluzioni stanche e rassicuranti: l’animazione in cgi che ricrea una realtà dichiarandola insufficiente – il film di Naishuller è una corsa a perdifiato “dentro” il reale.

Naishuller prende la vita – sporca, grezza, improvvisata – e la trasforma in una esperienza visiva inattesa. Guardare Hardcore! è come rituffarsi nel cinema delle origini, in quella silent era che faceva dell’attore e del film un “corpo” unico. Il film di Naishuller è girato completamente in soggettiva, e la macchina da presa buca la realtà in un acrobatico funambolismo che sfida lo spazio e il tempo. Non si può non pensare ai comici del muto – da Buster Keaton a Harold Lloyd a Harry Langdon – penzolanti da gigantesche lancette, in bilico su cornicioni, appesi e dondolanti dall’alto di grattacieli oppure a pochi millimetri da un treno in corsa. Cinema di nonsense e velocità, figlio di un’altra epoca, quando le norme di sicurezza erano inesistenti o spesso disattese, e l’attore o lo stuntman erano disposti a tutto pur di avere un girato che scioccasse lo spettatore, o destasse meraviglia senza fine. Il mondo reale diveniva terreno di infinite possibilità: lo slapstick era trasgressione e sperimentazione. Se il cinema era nato da una matrice fotografica, i grandi pionieri del comico muto spostarono il suo specifico sul movimento parossistico. E Naishuller, a suo modo, realizza una piccola rivoluzione.

L’equivoco è l’origine “videoludica” del suo film: Hardcore sicuramente si innesta sulla fantasia contemporanea creata dai videogames, ma ricostruisce questo immaginario nella realtà. La bellezza del film è in questa sfida: ricreare, con vere riprese, l’emozione sintetizzata in tutta sicurezza dall’animazione digitale. Tornare sulla terra, correre attraverso stretti corridoi sul vuoto, saltare da pericolose altezze, gettarsi sull’asfalto, farsi male: qualsiasi cosa pur di violentare il reale, accedere là dove non sembrava possibile. E lo spettatore è coinvolto in un viaggio accelerato che lo trascina da un mondo all’altro, da palazzi fatiscenti ad auto in corsa a autobus affollati o locali notturni: sempre più veloce, sempre più impazzito, mentre ai suoi occhi la realtà toglie un velo dopo l’altro, fino a trasformarsi in un budello inconscio di luci al neon, sotterranei, verità che si stratificano e si moltiplicano.

Naishuller conduce questo gioco senza la minima approssimazione ed è questo il dato stupefacente del film. Sebbene il suo approccio da regista sia innocente ai limiti dell’incoscienza, nessuna immagine da lui prodotta nasce dal caso. Il POV scivola via attraverso porzioni di realtà accuratamente studiate: c’è un grandissimo senso compositivo. Se l’odissea del protagonista Henry è un susseguirsi di entrate ed uscite in dimensioni grottesche e sorprendenti, il “tunnel” di continuità predisposto dall’occhio di Naishuller nasce da preparazione tecnica, sguardo, cinefilia. Nulla a che vedere con la sciatteria del cinema di found footage, il più grosso alibi contemporaneo per la mediocrità. Naishuller ci introduce “dentro” inquadrature raffinate e di ascendenza colta: impossibile non cogliere numerose allusioni kubrickiane, o all’ingegneristico onirismo di Nolan. Eppure la cinefilia di Naishuller non è un vezzo, uno sterile sfoggio: è una prospettiva innestata nel suo dna, persino inconscia.

Su tutto resta il desiderio di creare un film pazzo, estremo, in cui il sangue si mescola alla droga, al sesso, alle continue esplosioni. Si respira aria di noir, le femme fatales colpiscono al cuore, e tutto il mondo è immerso in un eterno chiaroscuro. Il cattivo ha le fattezze di un Kurt Cobain robotico e crudele, e il suo esercito sembra la moltiplicazione all’infinito dei drughi di Arancia Meccanica. Naishuller indossa la sua GoPro, mescola Tarantino, i western, la fantascienza e cancella la noia di tanti supereroi americani con un pugno fatto di ferro e carne. Il suo viaggio allucinante è puro piacere.

PATERSON di Jim Jarmusch

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Come il protagonista Paterson torna ad un senso di umanità semplice e umile, che non ha bisogno di telefoni cellulari o computer, così Jarmusch torna ad una regia artigianale e aurorale, a scrivere il suo cinema su un taccuino di immagini in amorosa corrispondenza. Paterson è un film fatto di variazioni sulla quotidianità, in cui ogni giorno è uguale e diverso, ogni strada e ogni volto si colorano di una luce nuova; un film bello e raro innanzitutto perchè indaga il processo poetico nel modo più autentico, cercando di riprodurlo attraverso il cinema. Troppo spesso i film hanno descritto la vocazione poetica come una sorta di furore che si manifesta in un sedersi alla macchina da scrivere colti da improvvisa illuminazione; un esempio su tutti, il recente Giovani Ribelli in cui Daniel Radcliffe, nei panni di Allen Ginsberg, collezionava ogni possibile cliché sulla predestinazione del poeta.
Jarmusch no: mostra la poesia come scelta e attitudine quasi religiosa, come dedizione coltivata giornalmente e che consente, lentamente, alle cose di rivelarsi. Paterson (straordinario Adam Driver, l’attore più sensibile della sua generazione) vive in una sorta di serena medietà emozionale, ed in questo stato di quieta concentrazione lascia che il mondo lo attraversi e si manifesti.

La ripetizione, la vita scandita dalle ore e dalle abitudini, assume il sapore di un rito al contempo terreno e mistico: Paterson non si sottrae snobisticamente all’umiltà di un vissuto anonimo, ma vi si immerge come cosa tra le cose; è solo così, con l’arresa ai gesti, ai doveri e alle responsabilità che il mondo acquisisce ai suoi occhi un valore metafisico. L’ascolto segreto di un colloquio, l’osservazione degli incroci affollati della città, la testimonianza di un’umanità “di passaggio” all’interno dell’autobus fanno della vita di Paterson una continua, rinnovata esperienza poetica; ed è nella solitudine, seduto nei rifugi a lui familiari, che il protagonista lascia emergere le voci stratificate nel corso della giornata. Ecco allora che Jarmusch usa immagini sovraimpresse in trasparenza, per mostrarci visivamente la “spaccatura” nel reale da cui scorre la poesia. Poesia liquida, poesia come acqua: un’immagine che torna più volte, e che fa del poeta una creatura “naturale” (al punto che l’unico personaggio altrettanto “naturale” è il cane Marvin, con cui Paterson ha un rapporto di parità).

Jarmusch compone il suo poema filmico organizzandone le interne corrispondenze, individuando figure retoriche e variazioni, accostando assonanze e armonie. Paterson emerge, a sua volta, come un personaggio su cui è possibile sovraimprimerne un altro: l’autista e il poeta, il marito quieto e l’uomo che “brucia” per la sua donna (come un fiammifero); un matrimonio fondato sulla mutua comprensione, ma anche su segrete paure (“se mi lasciassi, mi toglierei il cuore per non rimetterlo mai più al suo posto”). La poesia è, per Paterson, la composizione armonica delle sue scomposte passioni, l’unico modo per rivelarle a se stesso; e Jarmusch, nell’apparente semplicità del suo poema, crea un universo di segrete simmetrie, di inconsci dejavù, di equilibri visivi: i colori, le forme, gli spazi. E’ un universo simile alla pittura di Hopper, che isolava istanti sottraendoli al tempo (la quarta dimensione) per offrire l’umanità nuda e fragile all’occhio di chi osservava.
“Una pagina bianca a volte presenta molte possibilità”: il film di Jarmusch, come raramente il cinema riesce a fare, è un invito a coltivare il giardino segreto all’interno della nostra anima. E risuonano le parole di Williams Carlos Williams, il poeta di Paterson: “Nessuna idea, se non nelle cose”.