I MORTI NON MUOIONO di Jim Jarmusch

THE DEAD DON'T DIE***
I morti non muoiono – The dead don’t die 
è veramente, come molti l’hanno definito, un divertissement? Un cinefilo gioco di citazioni, un ironico viaggio nel passato e nel genere attraverso la smaliziata visione autoriale di Jim Jarmusch?
Il regista americano in realtà ci consegna un’opera perfettamente aderente alla sua poetica e al suo modo di fare cinema: dalla sua intrinseca natura di film come “viaggio” attraverso territori che rivelano la propria inconoscibilità, al movimento dei personaggi, innaturale rispetto al tempo e allo spazio in cui si trovano inseriti, eterni estranei in una permanent vacation. Il mondo di Jarmusch è sempre “più strano del paradiso” e i suoi protagonisti vivono lo scarto tra la propria soggettività e la realtà, in un conflitto io/mondo che talvolta ha tratti ludici (come in Daubailò), altre volte drammatici (Stranger than Paradise) o tragici (Solo gli amanti sopravvivono).

In I morti non muoiono il genere horror/zombie viene usato con grande distacco postmoderno: Jarmusch non si cala mai pienamente in un universo orrorifico ma ne fa un paesaggio da percorrere imperturbabile, in perpetua riflessione e osservazione delle cose: l’identificazione del regista con il vagabondo, anarchico Tom Waits è ovvia per il costante mormorio morale del personaggio, che spiega allo spettatore come l’umanità sia caduta in uno stato di non-morte, obnubilante schiavitù digitale, esibizione del corpo corrotto e disfatto. Jarmusch fa dell’horror un panorama illustrato, su cui stendere la propria stanca morale verbale, appesantendo un film che avrebbe potuto vivere solamente del proprio “discorso” in immagini; la coazione a ripetere filosofie note risulta triste, funebre e svuotata di senso.
Interessante però è lo spostamento dello sguardo: se il cinema di Jarmusch si è sempre distinto per la sua qualità orizzontale – la sua macchina da presa è sempre stata innamorata di passeggiate lungo linee piane, movimenti in auto, riprese di palazzi, case, strade in senso longitudinale – in I morti non muoiono c’è una maggiore ricerca di profondità; l’occhio del regista non è più quello del viaggiatore ma di un sopravvissuto.

Idealmente, I morti non muoiono va a concludere una “trilogia della perdita”: in Solo gli amanti sopravvivono, ironico manifesto di dandysmo, i due vampiri snob, squisitamente formali e irraggiungibili, opponevano una “resistenza estetica” alla perdita della Bellezza, posando tra velluti e nostalgie del passato; in Paterson Adam Driver scopriva nella perdita della poesia le possibilità offerte da una pagina bianca.
Ma qui non c’è l’alba di un nuovo capitolo, nè l’ebbrezza di sangue giovane e innamorato come quello consumato da Tom Hiddleston e Tilda Swinton: in I Morti non muoiono manca un rituale di rinascita, sostituito da una notte senza fine: la perdita è di vita.

C’è tanto cinema in quest’ultima opera: la paranoia della fantascienza anni ’50, la comicità delle buddy comedies, le auto romeriane, i diners dei B-movies, la provincia dell’indie: ma tutto è raggelato, stanco, privo di emozione. Il colore non vibra – è un film che ambisce al grigio, alla riproduzione di un reale logoro e privo di saturazione.
Jarmusch narra, scivolando nella rassegnazione, una storia priva di riscatto in quello che è uno dei suoi film più cupi e pessimisti; ma ci consegna la luce di una meravigliosa eroina, incarnata da una Chloë Sevigny dagli occhi innocenti e spaventati. Lei è il tremito, la purezza, la fede nell’amore: il suo struggente personaggio è ciò che di più bello resta da questa stremata apocalisse.

CLIMAX di Gaspar Noé

climax*****
Non per tutti è facile amare Noé: là dove oggi il cinema si arresta, circoscrivendo limiti imposti dal pudore, dal buon gusto o buon senso, da un marketing dell’immagine volto a rendere il visibile soprattutto vendibile, il regista avanza e distrugge, fedele al proprio impulso d’artista; e lo fa con un stile perfettamente controllato. Una messa in scena del caos, della pulsione, dell’abbandono di ogni luce razionale quale si realizza in Climax nasconde in realtà una regia vigile e aderente ad un preciso disegno strutturale.
Vertigine, esaltazione, paura, si accendono per mezzo di una sovraeccitazione sensuale; Noé domina le stanze poetiche del proprio cinema e induce una ipnosi sinestetica.

Basterebbe una scomposizione dei pianisequenza che si succedono nel film per vedere come Noé impartisca una disciplinata partitura agli spazi: la sua macchina da presa, che scivola in un apparente stato di libertà, in una leggerezza mobile che ne fa quasi uno spirito arioso, obbedisce a un movimento complesso e magnifico elaborato dal regista orchestrando colonna sonora e visiva. Quella di Noé è una regia rituale, segue regole precise per spostare i limiti del visibile, sovvertire la visione “passiva” del pubblico e rivoluzionare la sua prospettiva. Un simile linguaggio è necessario per preparare l’anima di chi guarda allo sconvolgimento morale che seguirà, in cui passione e morte sono indissolubilmente legati in un passo di danza; e non è forse, questo legame, il segno ineluttabile che contraddistingue l’umanità?

Gaspar Noé non è, come molti sostengono, un artista sensazionale e superficiale (e basterebbe il dolore incompreso e profondissimo di Love a dimostrarlo): il suo studio dell’uomo è allo stesso tempo estetico, antropologico, poetico. E così è il suo studio del cinema: Climax, nel suo apparente giovanilismo, nell’oltraggio che fa ai codici della visione ribaltando il mondo in un anarchico upside down, nasce da un amore del musical classico; è impossibile infatti non riconoscere le tracce di Bob Fosse, ma persino di Busby Berkeley nel modo in cui i corpi diventano astrazione, movimento puro, arabeschi spaziali.

Partendo dal cinema, Noé trova la strada per l’inferno dell’esperienza umana: la droga, la violenza, il sesso come espedienti per uscire da se stessi, dall’atroce senso di finitezza della vita come incubo irrisolto. Il ballo è l’aspirazione a un’ altezza che non arriva mai: predomina l’impulso alla bassezza, il crudo bisogno di sopraffare l’altro. Nella musica che Noé usa (innestandola all’interno e non all’esterno dell’immagine), nel ballo che sublima l’orrore in bellezza vi è quell’amore cui l’essere umano tende con il proprio istinto malato; ma la violenza è l’approdo, sino al nulla della neve. Un film dal pensiero struggente e dal romanticismo ferito; un musical di morte, da uno dei più grandi uomini di cinema contemporanei.

THE PERFECTION di Richard Shepard

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*1/2
[attenzione: contiene spoiler]
The Perfection, thriller-horror di produzione indipendente distribuito da Netflix, potrebbe essere assunto a manifesto di mediocrità: per la sua sciatteria, banalità, tensione sensazionalistica ed estrema povertà di scrittura. Si tratta di un prodotto di consumo dagli stilemi ostentatamente anti-cinematografici – le immagini sono piatte, prive di profondità, lo spazio dello sguardo è circoscritto in forme quasi claustrofobiche e le inquadrature non sono significanti, ma funzionali. Più che di regia si può parlare di ripresa: cattura di immagini in movimento assemblate assecondando un dilettantesco disegno linguistico.

Trascurando di focalizzarsi sugli elementi visivi e sonori (la musica, cardine della trama, non assurge a elemento del racconto ma rimane puro pretesto), The Perfection è proteso nella messa in scena di una performance attoriale che non è mai interpretazione, ma grottesca spettacolarizzazione dei personaggi: nei panni di Charlotte e Lizzie, le due attrici Allison Williams (Scappa – Get Out) e Logan Browning lavorano esclusivamente sul piano della radicale esasperazione dei caratteri. Inoltre regista e sceneggiatori scelgono di sfruttare elementi di distrazione narrativa per mimetizzare la lacunosa pochezza della sceneggiatura – ovvero flashbacks e sequenze in reverse motion accelerato, ripercorse in avanti con l’aggiunta di indizi precedentemente omessi.
Destreggiandosi tra effettistici gimmicks, il racconto procede facendo leva sul disgusto dello spettatore: in una sequenza chiave, l’horror viene sollecitato mediante bassissime trovate scatologiche (l’impellente bisogno di defecare di Lizzie) e dalla presenza di insetti che vengono mostrati al pubblico, ma non trovano riscontro nel punto di vista del narratore (Charlotte). L’ambiguità del punto di vista, ingannevole e scivoloso, diviene quasi un dato moralmente riprovevole: il regista manipola lo spettatore con sequenze di totale falsità.

Al di là della rozzezza dell’insieme, ciò che rende The Perfection un prodotto deprimente è il palpabile disagio dei propri autori con la nozione di orrorifico. Non basta il sangue, non bastano elementi discutibili come stupro e pedofilia, inseriti per suscitare immediati sentimenti di repulsione nel pubblico: l’horror è altro, è una condizione spirituale che non può nascere da velleità o bassa improvvisazione. Il film di Richard Shepard è vile nella sua ricerca dell’effetto senza scrupoli; ma riesce persino a fregiarsi di una medaglia al valore sociale sfruttando tematiche care al #metoo, mettendo a nudo come, nella contemporaneità, il concetto di cinema etico sia del tutto frainteso.

GODZILLA II – KING OF THE MONSTERS di Michael Dougherty

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Se il film di Edwards trasportava l’universo di Godzilla in una dimensione di profondità filosofica e suggestioni storiche e apocalittiche contemporanee, facendo del mostro una presenza oscura, una metafora che prende corpo in visioni d’orrore, Godzilla II – King of the Monsters è orgogliosamente un monster movie in senso tradizionale; ciò che conta per Dougherty è l’amore per i kaiju, il rispetto filologico della mitologia Toho sia nel design delle creature ma ancor di più nella valenza culturale, persino mistica con cui hanno operato sull’immaginario collettivo.
Quello di Dougherty è un Godzilla più autentico per la passione e dedizione con cui aderisce totalmente al meraviglioso che ha incantato generazioni: il pubblico della franchise classica – esattamente come il pubblico dei film di Ray Harryhausen – si recava al cinema per il senso di bellezza quasi religiosa che scaturiva alla vista del mostro; l’incanto di fronte all’epica magnificenza dei movimenti, le forme ancestrali, la compresenza di preistoria e futuro, l’aura di fascino e terrore. Guardare Godzilla significava distaccarsi dall’esperienza meramente umana e terrena e confrontarsi con il divino: un divino spettacolare, brutale e primitivo, in grado di procurare puro piacere dei sensi e trascinare l’immaginazione in un “oltre” leggendario, dotato di proprie leggi e di una storia che si è arricchita e consolidata nel tempo.

Dougherty mostra il più assoluto rispetto nei confronti di un materiale incandescente di passato e di sogno, e si adopera per rendergli giustizia con un film che è allo stesso tempo un fiammeggiante santuario devozionale e un brillante aggiornamento del mito al presente.  I mostri della Toho, che in Godzilla II regnano splendidi e inviolati, conservano il mistero dei predecessori classici e sono filologicamente aderenti a un’iconografia tradizionale, ma adeguati alla sensibilità estetica contemporanea. Le apparizioni di Godzilla, Ghidorah, Mothra e Rodan sono momenti di cinema estatico, in cui lo schermo si riempie di quell’invisibile che risiede nel nostro inconscio e diventa mostro, trionfo del fantastico.

Ogni creatura possiede una bellezza indicibile e sinestetica; colpisce in particolar modo il movimento, che riproduce lo specifico della stop motion, ovvero la lentezza realistica. I mostri del film di Dougherty non scivolano impazziti come in tanta cgi contemporanea, ma si esprimono in movimenti ieratici che sono il cuore, lo spirito dell’immaginario Toho. Il regista mette in scena degli dèi, veri e propri personaggi di una mitologia, ciascuno con una personalità distinta (la femminilità materna di Mothra, la superiorità ultraterrena di Ghidorah, la ferocia primordiale di Rodan). Inoltre ne cura gli aspetti fondamentali del colore e del suono, per mantenere continuità con le incarnazioni del passato (significativo l’utilizzo dello score originale di Akira Ifukube, incorporato nella colonna sonora di Bear McCreary). Gli scontri danno vita alla più spettacolare kaiju action che i fan (ma anche gli spettatori casuali) possano desiderare.

Il “dramma” umano resta sullo sfondo: è mero raccordo tra una scena d’azione e l’altra, ma non potrebbe essere altrimenti; cercare una densità narrativa in un film del genere non ha alcun senso. Godzilla II, fedele allo spirito della franchise tradizionale, è tutto incentrato sui kaiju: sulla loro presenza, sulla rivoluzione percettiva indotta da ogni apparizione. Godzilla II è cinema, è il meraviglioso che si fa corpo, forma, luce e emozione; la necessità di uno script non è che l’alibi di chi non ha più occhi per vedere, nè il cuore per stupirsi.