Mia madre è un film tanto imperfetto quanto bello. Inizia con un omaggio esplicito a Woody Allen – quella fila fuori del cinema Capranichetta, con Margherita che rivede e interroga se stessa giovane, in coda, sembra venuta fuori da Io e Annie. Il tempo e lo spazio filmico si interrompono e i personaggi, pirandellianamente, parlano tra loro: è un tipico procedimento alleniano, attraverso cui il regista “ferma” il cinema e lo trasporta sul piano dei sogni, delle domande, dei ricordi. Mia madre è un oggetto strano, il più “cinematografico” tra le opere italiane degli ultimi anni: proprio perchè la realtà non è mai obiettiva, è totalmente filtrata attraverso lo sguardo di Margherita da indurci a dubitare se ciò che vediamo sia oggettivo o illusorio, tralucente attraverso le sensazioni della protagonista. Come Margherita stessa afferma con forza, “è il mio film, e questa è la mia realtà”. La morte della madre assume contorni poetici proprio perchè Moretti allestisce la sua realtà: quella del ricordo e dell’amore. Ed il film è come una nave impazzita che solca un mare emozionale: tra la necessaria lucidità che impone il cinema come “mestiere”, e lo smarrimento umano di fronte alla tragedia. Mia madre orchestra i due piani, quello professionale e quello personale di Margherita, con stacchi bruschi: Moretti sceglie un montaggio privo di transizioni per passare dal tono grottesco, felliniano (ed affettuoso) delle scene sul set alla poesia dei momenti privati, straziati dalla perdita. Le due dimensioni si avvicendano lasciando fratture, aperture: è lì, in quegli spazi vuoti, che il film si libra e “continua” in infinite diramazioni nella mente dello spettatore. E Margherita Buy è bravissima ad attraversare gli spazi tra la realtà e l’illusione, tra il desiderio e la brutalità del presente. Il suo silenzio, gli scoramenti, le rabbie, l’amore, sono tutti nella verità del suo volto.
Archivio mensile:aprile 2015
FOXCATCHER di BENNETT MILLER
Con Foxcatcher, Bennett Miller lavora all’interno del cinema americano allo stesso modo in cui i Dardenne lavorano all’interno del cinema europeo: la sua ricerca di naturalismo si fonda su un attento lavoro strutturale e su una profonda ricerca nei confronti del linguaggio. E se i Dardenne preferiscono piani sequenza e camera a mano, Miller sceglie l’alternanza di campi lunghi e primissimi piani; inserisce così il volto all’interno dell’ambiente. Dapprima Mark si muove nel suo appartamento modesto, e nella palestra proletaria e spoglia, sulla cui parete campeggia il logo: quasi un quadro pop-art. Poi si sposta nella villa di Du Pont: ecco che la sua mascolinità muscolosa, massiccia, giovanile ed energica irrompe nel candore delle stanze del ricco erede. Con la semplicità rozza del suo corpo allenato, Mark resta un elemento estraneo all’interno degli spazi posseduti da Du Pont. Di quegli spazi è un oggetto, un nuovo trofeo, l’emblema su cui Du Pont trasferisce passioni distorte: il nazionalismo, il potere, la perfezione del corpo, l’ossessione virile, la vittoria. Nei panni di Du Pont, Carell si smaterializza per lasciar emergere un uomo disturbato, privo di empatia, mosso da pulsioni elementari ingabbiate in un freddo razionalismo. I momenti più emozionanti del film sono quelli in cui i sentimenti di Mark, desideroso di soddisfare la figura del Padre-acquirente, sfociano in rabbia e frustrazione di fronte all’impassibilità ebete di Du Pont, essiccato di ogni umanità e proteso al raggiungimento dell’obbiettivo. Con il pretesto di raccontare un fatto di cronaca, Miller esplora l’America più nuda, i rapporti masochisti che attraversano le classi sociali, la disperazione ed il vuoto ideale; il wrestling è il paradigma carnale in cui si contorce lo spirito dell’uomo, sullo sfondo di ambienti ordinati e disciplinati sui cui pesa, divorante, l’ombra della tragedia.
THE FIGHTERS – ADDESTRAMENTO DI VITA di Thomas Cailley
Quando lessi la trama di Les Combattants, storia d’amore che si esprime attraverso una metafora guerresca fatta di esercito, combattimenti ed ostacoli, la prima cosa cui ho pensato è stato il testo fondamentale di Denis De Rougemont, L’Amore e l’occidente, che svelava il il mito della passione occidentale: l’amore inteso narcisisticamente come autoesaltazione, amore per l’ostacolo, che sottende un amore per la morte. Per De Rougemont, l’amore secondo il canone occidentale è fortemente legato alla guerra, e mi aspettavo una ulteriore variazione di questo tema connaturato, spesso inconsciamente, alla nostra cultura e sensibilità. Mi sono invece trovata davanti ad una leggerissima parabola in cui l’esercito sembra un centro di aggregazione giovanile, un incontro di boy-scouts tra bussole, trucco mimetico e dolcetti serviti dopo pranzo. I due protagonisti, giovani e annoiati, si ritrovano immersi in un campo di addestramento militare (quasi una vacanza alternativa) spinti da motivazioni diverse: Arnaud è sentimentale e vulnerabile; Madeleine è irrigidita in un ideale superomistico. L’esercito fa da promessa di avventura e azione per le reciproche crisi esistenziali. Si potrebbe anche perdonare l’inconsistenza dell’assunto (ma non la sua triste propaganda) se il regista avesse proposto quest’ incontro d’amore tra anime diverse con un linguaggio interessante; ma il film, oltre a non rendere credibile la passione tra i due, è un esempio di scrittura sbagliata, con spunti lasciati a metà, scene inutili, elementi narrativi incongruenti. Il tutto filmato in modo illustrativo: la natura fa da sfondo, e l’addestramento di vita non è niente di più che uno svago domenicale, quasi vandalico nel bosco. Spiace vedere come al cinema si stia affermando questa tendenza antropocentrica che vede l’ambiente a servizio dei protagonisti: i due ragazzi attraversano gli spazi, acqua e terra, senza provare fascinazione nè rispetto (particolarmente sgradevole l’uccisione della volpe) in una invenzione di sopravvivenza che li distoglie dall’inanità borghese delle proprie esistenze. Come questo film abbia vinto 6 premi, tra Cannes e César, è un mistero che non riesco a spiegare. E infine: su un noto magazine cinematografico online italiano, il film è stato paragonato a Susanna di Hawks: un’assurdità di chi ha frainteso non solo l’opera di Hawks ma, in senso assoluto, significato e modi della screwball comedy.
BARRY LYNDON di Stanley Kubrick – edizione restaurata
Guardando molti film contemporanei, a volte mi domando se non riesca più a provare l’entusiasmo della mia giovinezza. Quest’anno mi sono sentita in colpa per non essermi fatta travolgere da titoli unanimemente considerati altissimi – come Turner, o Ida. Anzi, davanti a queste opere e al loro oggettivo (o programmatico?) valore estetico, ho avvertito stanchezza, quasi noia. Ma ieri ho assistito alla proiezione di Barry Lyndon, e benchè lo avessi già visto al cinema in varie occasioni, ho sentito avvamparmi dentro la fiamma. I campi lunghissimi. Lo studio della luce. Il volto contorto di John Quin. La perfetta scansione temporale degli eventi. La macchina a mano. Dettagli stupefacenti come la brevissima soggettiva col fucile in mano, che emerge dalla finestra. Barry Lyndon è un film per iniziati; davanti ad ogni inquadratura, risultato di un maniacale studio pittorico, luministico, filosofico e letterario si ha la sensazione di essere parte di un rito esoterico che non comprendiamo, ma di cui percepiamo la suggestione. La bellezza di questo film, la combinazione degli elementi, possono indurre uno stato alterato di coscienza. E ci travolge la narrazione, il disegno profondo dei personaggi, sfumati in ogni emozione. E’ un film che non si raggela nei suoi quadri, tutt’altro: è pieno di vita, di passioni umane, di errori emotivi e sentimentali, di cadute ed elevazioni. Guardandolo mi sono detta che la pellicola è il suo mezzo d’elezione. Un film del genere, immerso nel naturalismo settecentesco, estraneo persino alla luce artificiale (Kubrick filmò esclusivamente utilizzando la luce naturale, o candele a olio), si esalta nella densità calda e materica della pellicola.
WILD di Jean-Marc Vallée
Jean-Marc Vallée è un bravo regista, ma qui deve fare i conti con un veicolo promozionale per Reese Witherspoon e non bastano la sua sensibilità, la sua ricerca, l’attenzione profonda per il corpo a salvare un film dalle intenzioni così manifeste. Ho trovato Wild tra i prodotti più sgradevoli della stagione proprio per questa dichiarazione d’intenti: Reese, anche produttrice, deborda narcisisticamente in ogni scena, col suo viso corrucciato, tormentato, concentrato in un tentativo di intensità. Chiamerei la sua performance “interpretazione di una interpretazione da Oscar”. L’attrice è irrigidita nel suo ruolo e non possiede quel coraggio attoriale capace di spingerla oltre i clichè del drammatico al femminile. Impossibile aderire alla decantata “riscoperta del sè”; la lamentosa Cheryl con le sue scarpe troppo tecniche, il suo bagaglio studiatissimo, il libretto d’istruzioni, è un corpo estraneo alla natura. Se Mia Wasikowska in Tracks attraversava la terra con anima libera e leggera, Cheryl la invade con sguardo turistico. Mai titolo fu più fuorviante: Wild non ha nulla di selvaggio, la natura non conturba, non strapazza, non possiede, non regna; è solo un panorama salvifico per civilizzati. Si salvano lo sguardo di Vallée, che rompe la monotonia spezzando il racconto con illuminazioni di corpi e ricordi; e la bellezza bizzarra di Laura Dern.
LA FAMIGLIA BELIER – di Eric Lartigau
Un film anacronistico, piccolo come tanto nostro cinema italiano: stile televisivo, approssimativo nei tempi e nel linguaggio, esile nella tela narrativa, e abitato da personaggi caricaturali sullo sfondo di immaginarie città di provincia. Nel paese dei Beliér, la fattoria è un luogo ideale: non si avverte la stanchezza del lavoro, tutto scorre allegramente tra vitellini e formaggi, mercati e produzione. La giovane protagonista Paula affronta con disinvoltura la pressione terribile cui è sottoposta: sveglia alle sei, lavoro, poi bicicletta, autobus, scuola, ma soprattutto mediazione linguistica per i genitori – una coppia di sordomuti usciti da una comica degli anni ’10. La mimica esagerata, gli equivoci da barzelletta, le gag sempliciotte e schematiche sono il pretesto per facili effetti comici; la scena dal ginecologo è il punto più basso e imbarazzante. Il film affastella clichè su clichè – l’adolescenza, i primi amori, le tensioni familiari, il professore buono, il matto del paese; e presenta il tipico rovesciamento secondo cui alle difficoltà iniziali di Paula lentamente subentrano il successo e il riscatto, rappresentati da una competizione canora: l’epitome del banale contemporaneo. Per fortuna Louane Emera è brava e riesce a conferire sensibilità e commozione ad una pellicola debole come le canzoni di Sardou, di cui è pesantemente infarcita. Ma quel ralenti finale non si può vedere.