THE KILLING OF A SACRED DEER di Yorgos Lanthimos

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“Ci sono mille modi di posizionare la macchina da presa, ma in realtà soltanto uno” (Ernst Lubitsch). In The Killing of a Sacred Deer, Lanthimos trova quell’uno, con una lucidità che da tempo non si vedeva al cinema. Dopo il successo di The Lobster, film duro e bizzarro ma pervaso da una furbizia capace di renderlo caro anche a quel pubblico “colto ed educato” che in genere rifiuta le esperienze più rigorose, Lanthimos realizza un’opera radicale e stilisticamente perfetta.
In The Killing of a Sacred Deer la corrispondenza di significante/significato schiude, in una convergenza matematica di linee che cercano l’infinito, la meschinità antimitologica della tragedia umana: Lanthimos disturba perchè il suo cinema è un atto, deciso e volontario, volto a privare l’uomo di una qualsiasi grandezza. L’archetipo viene decostruito per lasciar spazio ad una impietosa rivelazione della miseria dello spirito umano.

Ambienti asettici, geometrici, inquadrati attraverso una composizione simmetrica in cui la figura umana si pone come presenza antropocentrica (che spartisce, ponendosi al centro, perfettamente in due l’inquadratura): l’essere umano è centrale eppure del tutto insignificante nella sua completa oggettualità. L’uomo come cosa – presenza intrusiva, soggetto passivo le cui azioni prive di senso, mosse da pulsionalità egoista e legate ad un presente privo di progettualità – sono all’origine del male e del caos dell’universo; una visione che trova una corrispondenza in film come A Serbian Film di Srđan Spasojević e Kill List di Ben Wheatley.

Lanthimos muove dalla classicità greca ma il mirabile testo di The Killing of a Sacred Deer ci mostra come la sacralità della tragedia, frutto di una cultura tesa alla catarsi, sia ridotta, nella contemporaneità, ad un simulacro grottesco in cui nessun riscatto è più possibile.
I personaggi di Lanthimos (straordinario Colin Farrell) si muovono come automi, comunicano raggelati nella più totale inespressività, e partoriscono soluzioni vili e disumane; l’unico a sottrarsi a questa anoressia emotiva è il giovane Martin. Egli cerca di ristabilire una sorta di equilibrio universale delle cose, cercando la soluzione “più vicina alla giustizia”. Lo interpreta un Barry Keoghan magistrale, capace di far intravedere, attraverso una messa in scena di comportamenti apparentemente distratti e banali, l’urgenza emotiva e la turbata passione morale che gli impongono di ricreare un ordine “innocente”. Quella di Martin è una disciplina dolorosa per l’altro quanto per sé; egli è l’umanissimo esecutore di una legge superiore. Il suo è il “sangue del poeta” di cui parlava Cocteau.

STAR WARS – GLI ULTIMI JEDI di Rian Johnson

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STAR WARS VIII
di Johnson è un film in frantumi le cui schegge bruciano, si agitano, fuggono animate da una forza centrifuga in mille direzioni diverse. Il regista ha scritto una sceneggiatura eccitata, senza pace; il film si dirama in innumerevoli sottotesti, mentre stilisticamente si trasforma davanti ai nostri occhi: tragedia shakespeariana, buddy comedy, dramma dickensiano, science-fiction retrò, film d’avventura alla Douglas Fairbanks, fantasia surrealista, installazione avant-garde. Un continuo morphing che talora scivola con naturalezza, altre volte soffre all’interno di un montaggio impacciato. Star Wars VIII è talmente un sogno che sogna se stesso da indurci a riflettere sul destino del cinema, forma artistica che danza pericolosamente sul limitare della morte, ma pronta a rinascere e reinventarsi.

Si ha la sensazione che Johnson abbia voluto ascoltare fino allo spasimo le mille voci che la Saga, nel corso del tempo e per mezzo dell’immaginario collettivo, ha disperso in uno “spazio” parallelo; il suo sforzo è stato quello di trasferire ciascuna di queste suggestioni – che vanno a costituire l’architettura di un mondo fantastico ormai entrato nel Mito eterno – all’interno del suo film. Star Wars VIII è nostalgico ma tende al futuro: i suoi protagonisti sono fedeli a se stessi ma anche alla dialettica che è propria della saga. Guardare le stelle è, poeticamente, divenire; e il film di Johnson si dibatte, talora fallisce, ma continua a mutare pur sottostando al Logos, perenne e armonico, della Forza. Star Wars VIII è un’opera profonda e complessa, sempre pervasa da un senso di incompiutezza, ma umana come i personaggi che insegue, spia, circonda d’amore e analizza per poterne carpire i segreti. Il film dispiega un intreccio romanzesco complesso e ariostesco per lo spirito che lo percorre: un nuovo Orlando Furioso, strutturalmente basato su quell’entrelacement che caratterizzava la letteratura medievale. Armi, amori, sovrapposizione di generi; apertura di nuclei narrativi quasi sanguinanti, che talora restano inconclusi o poco approfonditi, ma che vanno a comporre una grande opera contemporanea.

Star Wars VIII cerca un’identità ed in questo tanto assomiglia ai suoi personaggi: lo spettatore attraversa continuamente “stanze” narrative, ciascuna con un design artistico/architettonico distintivo. Il luogo è specchio interiore del personaggio: il fanatismo goebbelsiano di Hux si dispiega in parate naziste all’insegna di un’estetica feticista; Kylo Ren (un Adam Driver superlativo) è distruzione, ambienti freddi e scabri su cui proiettare il suo fuoco: egli è il vero lucifero miltoniano, l’ambizione dell’angelo che conosce la propria disperazione; Riley si specchia nel colore naturale – grigioverde – dell’armonia con le cose; Luke è sturm-und-drang, tempesta e impeto, eroe tra elevazione e fallimento, ritto su una roccia come il celebre dipinto “Il viandante sul mare di nebbia” di Friedrich. Snoke siede in una stanza che è pura astrazione geometrica e coloristica, simbolo di un potere del tutto disumanizzato.

Ma la parte più bella, inaspettata nella sua squisitezza primonovecentesca è senza dubbio il contatto tra Riley e Kylo Ren, che si sviluppa nel sogno surrealista di una comunicazione oltre il reale, oltre i limiti dell’umano. Come in Sogno di Prigioniero (1931) di Henry Hathaway, i due comunicano da luoghi diversi, arrivando a vedersi e toccarsi: Hollywood è ancora capace di darci vertiginosi deragliamenti dalla nostra triste quotidianità. Star Wars possiede ancora la chiave del sogno, e la sua inconsapevole anima artistica affiora, innocente, dal blockbuster.

AMORI CHE NON SANNO STARE AL MONDO di Francesca Comencini

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Amori che non sanno stare al mondo
è un film privo di equilibrio; una caratteristica talvolta feconda, che consente quelle aperture, libertà, e imperfezioni in cui risiede “il cinema” con la sua abilità di cogliere gli spazi sfuggenti della vita. Ma nel caso del film della Comencini questa mancanza di equilibrio significa limite, blocco, ricerca di modelli narrativi e linguistici applicati in forma teorica. Amori che non sanno stare al mondo ha una freddezza programmatica che è pari alla calcolata sgradevolezza del suo personaggio femminile: è un’opera che insegue l’ondivaga autoanalisi di tanto cinema (Woody Allen su tutti) senza mai raggiungerlo, esattamente come non riesce a infondere calore al suo sommario comportamentale, sorta di breviario della coppia contemporanea, tra antropologia spicciola e sentimentalismo.

C’è una pesantezza cronica in Amori che non sanno stare al mondo: innanzitutto nella linea temporale non cronologica, che la Comencini trasforma in riflessione affaticata. Il percorso tra presente e passato non è mai un fluire naturale, aderente al movimento del pensiero, ma un fardello ragionativo, un vezzo di sceneggiatura che obbliga lo spettatore a sospendere l’adesione al racconto per trovarne la giusta ubicazione temporale.
Una volta districati nella struttura cronologica, ci ritroviamo con dei personaggi astratti, ammantati di banalità: Claudia e Flavio, vittime di uno schema relazionale che esprime più un’autopunitiva forma di dipendenza che un impulso amoroso. Claudia è aggressiva, castrante, priva d’ironia, ingabbiata in aspettative che le impediscono di “vedere” con occhi puliti il presunto oggetto d’amore; Flavio è legnoso, immaturo, narcisista, prone ad un fatalistico senso di colpa e all’obbedienza ai rimbrotti morali inflitti, con saccenza esasperante, da Claudia.

Nonostante il titolo, c’è ben poco amore sullo schermo: manca l’aria, mancano il soffio vitale ed erotico, l’attrazione inafferrabile e l’affinità elettiva. C’è, invece, il senso pesante di una progettualità, del compromesso, della relazione inserita in un contratto sociale. Tutto è clichè: i litigi, le frustrazioni, la ricerca di un partner più giovane (mere funzioni cui la Comencini non dà alcuno spessore psicologico). Lo spettatore annaspa alla ricerca vana di un momento di verità, di una crepa in cui l’amore fugga a rifugiarsi. Ma la Comencini cementa ogni spiraglio: e per un film che vuole parlarci d’amore, è grave non mostrare le stelle.