LA NOTTE DEL GIUDIZIO: ELECTION YEAR di James DeMonaco

electLa serie diretta da James DeMonaco affonda miserevolmente con il capitolo Election Year: una rozza deviazione rispetto all’intrattenimento non banale e formalmente curato degli episodi precedenti. Non solo Election Year è appesantito da strascichi moralistici e messaggi di frainteso progressismo, in una isterica mescolanza di patriottismo, ipocrita celebrazione della working class e nazionalistici ritorni all’ordine; ma viene a mancare anche quel disegno strutturale alla base del successo dei capitoli precedenti.

La Notte del Giudizio 1 e Anarchia si reggevano sui contrasti elementari tra esterno/interno, notte/giorno, nemico/familiare pronti a confondersi l’uno nell’altro; dicotomie perfettamente sorrette da una struttura temporale che scandiva, nell’ordine, l’avvicinarsi del terrore, l’irrompere della follia, l’istinto di sopravvivenza e infine l’alba del perdono e della rimessa dei peccati. Un disegno, se vogliamo, cupamente cattolico ma perfettamente funzionale, nella sua linearità, ai fini del suspence narrativo. La basica divisione degli elementi, il dualismo dentro/fuori, follia e normalità, divisi da una linea sottile, da uno scarto su cui si giocava la messa in scena terrorizzante dei primi due episodi sono del tutto accantonati in Election Year, che non riesce nemmeno a mantenere una coerenza spazio temporale.

DeMonaco, nei due primi film, era riuscito ad instillare un senso di paura incontrollata e selvaggia; la sua franchise aveva il gusto paranoico della miglior serie B, pronta a smarrire il nostro senso comune, a infondere inquietudine nel familiare e conosciuto, a stravolgere e sovvertire significati e punti di riferimento. Election Year annacqua tutto in una pessima sceneggiatura già scritta, e meglio, migliaia di volte: rispolvera, trivializzandola, la lotta tra politici buoni e cattivi, con tutto il classico apparato che si adopera nella difesa della parte onesta: un corollario di personaggi/caratteristi duri ed integri, dal valori familiari e nazionali, dal cuore d’oro e dal fucile carico.

Del tutto assenti il senso di attesa dello “sfogo”, il suo svolgimento distillato in un conto alla rovescia di terrore, la sua fine accolta col sollievo di chi ce l’ha fatta; elementi caratterizzanti della serie, semplici ma efficaci nel coinvolgere lo spettatore nell’incubo di una notte senza regole.
Pessima anche la regia, segmentatissima, ultradigitalizzata, fatta di ralenti e montaggi veloci in cui è impossibile distinguere le dinamiche dell’azione. Election Year è, tristemente, un prodotto mediocre.

QUEEN KONG di Monica Stambrini

queen12Non è un corto “rivoluzionario” il ricercato Queen Kong di Monica Stambrini: il film ripropone la contaminazione tra impulsi sessuali e personificazione della “bestia” annidata all’interno dell’essere umano, un tema caro all’arte in tutte le sue espressioni: si pensi alla mitologia greca, alla pittura medioevale, alla poesia romantica; o, nel cinema, a L’uomo, la donna, la bestia di Cavallone, al Ferreri de La donna scimmia, al Gondry di Human Nature, o a Possession di Zulawski (per citare titoli noti, sebbene diversissimi tra loro).

Il film della Stambrini si inserisce nel solco dell’immaginario più libero e naturale, in cui il sesso è associato ad una brutale forza primordiale, selvaggia e senza legge; una pulsione amorale, cui solo la limitatezza della ragione può attribuire connotazioni di colpa e vergogna. Queen Kong mette a nudo l’ipocrisia di cui spesso ammantiamo il desiderio, convogliandolo verso forme d’espressione dignitose, composte, accettabili: quelle forme disegnate da società, religione, cultura. In realtà, il “vile” protagonista di Queen Kong si abbandona senza rimorso all’attacco della Creatura (impersonata da una titanica Valentina Nappi): nonostante l’abito elegante e la sua signorilità borghese, l’iniziale orrore muta in una esplosione di libido incontrollabile.

La Queen Kong del titolo emerge dai boschi, in un’atmosfera tra il gotico e la favola pastorale, e si presenta come una versione femminile dei tanti satiri della letteratura classica. Il personaggio della Nappi è una dionisiaca forza della natura; e se i satiri, dediti al piacere, venivano raffigurati con il fallo in vistosa erezione, Queen Kong ha seni enormi ed un clitoride di cinque centimetri. Il suo corpo è, ipocritamente, repulsione razionale (“mi fai schifo”, dichiara il protagonista) e allo stesso tempo irresistibile desiderio corporale. Più ancora del satiro, Queen Kong, in quanto creatura femminile, si avvicina ai misteri ed alla potenza della natura.

La Stambrini, regista trasparente e senza compromessi, mostra il rapporto sessuale attraverso primissimi piani, con abbondanza di umori e dettagli: il corpo in tutto il suo trionfo (Queen Kong) e la sua volubilità (il personaggio di Lionello). Il suo cinema è fieramente porno nell’accezione settantesca del termine, quando il genere era campo di sperimentazione estetica ed ideologica. Le immagini sono esplicite, ma la Stambrini le avvolge di mistero iniziatico. Un piccolo film libero, un racconto “morale” leggero e anti-intellettualistico, la cui ambizione non è velleitaria ma ha la forza del gesto artistico volto a rovesciare i tabù.

A GIRL WALKS HOME ALONE AT NIGHT di Ana Lily Amirpour

girl-walks-home-alone-at-night-a-2014-004-girl-walking-at-night_1Sbagliato parlare di “new wave iraniana”, nel caso del fantastico film d’esordio A girl walks home alone at night. Perchè la regista, Ana Lily Amirpour, è nata da genitori iraniani, ma è cresciuta a Miami; e sebbene nel film, girato in lingua Farsi, sia presente un’idea, una traccia, un’atmosfera di Iran sognato più che reale (si pensi alle insegne e targhe d’automobili), la cultura che informa A girl walks home alone at night è soprattutto americana, nelle sembianze di cinema e musica indipendenti vissuti come ricordo/ossessione, aggiornati con sensibilità postmoderna. E americana è la fotografia: un bianco e nero contrastato e spirituale, che rievoca Nicholas Ray e Edgar G. Ulmer fino al Francis Ford Coppola di Rumble Fish.

Certo è impossibile non avvertire il fantasma del Nosferatu di Murnau nelle disorientanti apparizioni della protagonista, corpo “altro” stagliato su un paesaggio espressionista; ma la vera ombra che aleggia sul film è quella di Jim Jarmusch: l’icona dell’indie statunitense, il regista del silenzio, delle strade vuote, delle anime smarrite alla luce dei lampioni. Ana Lily Amirpour ne riproduce consapevolmente il senso estetico, la poetica del margine, l’ironia e lo sguardo affilato; rielabora brillantemente il cinema della propria formazione e inventa un personaggio formidabile – quello della giovane vampira velata, aggressiva e libera (in senso femminista) eppure disarmata di fronte all’amore.

La Amirpour, tecnicamente preparatissima e con una propensione per l’insolito, ci consegna immagini di forte fascino onirico, metacinematografiche, in cui si mescolano il noir più cupo dei B-movies, i giovani ribelli degli anni ’50 (con Arash Marandi novello James Dean), squarci di nouvelle vague (le magliette a righe alla Jean Seberg) e i personaggi silenti e complici di Stranger Than Paradise.
E’ difficile ignorare queste influenze, ma nonostante l’ingombro citazionistico A girl walks home alone at night è un’opera originale, fatta di déjà vu evocativi, costruzione polisemica dell’inquadratura, primi piani cristallini, un senso vertiginoso degli spazi. Cinema “finto povero”, in realtà iperprodotto (Elijah Wood è alle spalle del progetto, girato interamente in USA), e rivelazione di una regista promettente, dotata di un’autentica voce personale.

Non vivo nel rimpianto del passato. Il passato non esiste per me. Consumo tutta la mia nostalgia per il presente e per il futuro”, scrive la Amirpour su Twitter, consegnandoci quella che potrebbe essere la chiave per accedere al suo cinema: un cinema che porta evidenti su di sé le tracce di ciò che è stato, in forma di immagini-simbolo, archetipi fissati nell’inconscio che riemergono talora incrociati, talora giustapposti; un affioramento dell’immaginario che però diventa un oggetto del tutto contemporaneo. A girl walks home alone at night è cinema proiettato in avanti e non all’indietro: incorpora e supera le sue origini in un divenire. La Armirpur non è una vittima del passato, ma una regista del futuro osservato con cuore malinconico: la sua attitudine metafisica, tra Borges e De Chirico, informa ogni immagine e la solleva da sterili ripiegamenti nostalgici.