I film corali sono rischiosi. Nel cinema recente abbiamo visto molti film “a più voci” ancorarsi ad uno schema ormai usurato: allo stesso tempo colto e bozzettistico, dai personaggi ridotti a funzione di un disegno surreale, e solitamente contraddistinto dal grottesco, che è la cifra stilistica d’elezione di tanto cinema programmaticamente d’essai. Ne Il condominio dei cuori infranti di Samuel Benchetrit il rischio rimane solo sfiorato: perché se le trame che compongono il film muovono da uno spirito paradossale e da una individuazione delle “deformità” del reale, l’intenzione del regista non è affatto dimostrativa bensì poetica. E questa differenza di approccio è determinante: i personaggi infatti sono esseri umani definiti e scandagliati nel profondo delle loro anime, e gli episodi respirano di vita autonoma, oltre lo sguardo del narratore.
Uno sguardo, quello di Benchetrit, che anzi si fa umile e pudico di fronte al mistero dell’umanità: un’umanità che egli non invade con movimenti di macchina, ma che viene lasciata libera in piani fissi, lasciando che lo spettatore possa scoprirla. Asphalte, il titolo originale, traduce perfettamente l’oggettività cui tende il regista.
La bellezza del film di Benchetrit è proprio l’estrema autonomia che viene lasciata allo spettatore: ai suoi occhi, la realtà si forma poco a poco, e lentamente ogni personaggio assume caratteristiche sorprendenti; ognuno di loro nasce come un possibile cliché (l’adolescente, il solitario, l’attrice in declino, l’astronauta, la madre) per poi contraddirlo. Gli esseri umani di cui ci parla Benchetrit sono infinitamente interessanti e il suo obbiettivo non smette mai di rivelarli: ecco che scopriamo uno sfrenato romanticismo in quello che sembrava un carattere modesto e vile, o saggezza e sofferenza nell’apparente disincanto di un giovane.
La messa a nudo dei personaggi avviene attraverso indizi che si accumulano di scena in scena: l’espressione di un volto, un gesto, un particolare dell’ambiente. Se l’astronauta era a suo agio nell’astrazione dello spazio, improvvisamente la sua presenza si fa pesante, aliena, in un appartamento che è più arcano e sconosciuto di mille galassie. Michael Pitt è bravissimo, col corpo e con gli occhi, a tratteggiare la sua estraneità al contesto che lo circonda: l’appartamento umile, la donna semplice e operosa, e un affetto inaspettato che lo scalda.
L’episodio più bello è senza dubbio quello che vede protagonisti Isabelle Huppert e Jules Benchetrit: una storia che sembra omaggiare Xavier Dolan – con l’adolescente Charly che corre in bicicletta (seguito da una macchina da presa finalmente in movimento, irrequieta e libera come lui) e con una donna, Jeanne, la cui presenza incanta e magnifica lo schermo.
Charly guarda Jeanne come solo Dolan sa guardare le donne: se ne innamora, ne ama gli errori, i fallimenti, e tutta la magia che ella esprime inconsapevolmente.
La Huppert è l’archetipo femminile, madre, amante, desiderio e rifugio. La scena che la vede interpretare Agrippina è qualcosa di assolutamente trascendente: Benchetrit, attraverso gli occhi di Charly, la riprende frontalmente, su sfondo bianco, eppure l’immagine che ci viene restituita è stratificata: la Huppert condensa in sé l’attrice, la madre desiderata, è il sogno ed il reale. E’ una scena di una potenza indelebile che dimostra come il cinema vada oltre ciò che viene semplicemente filmato: il risultato è un’aura che solo la macchina da presa riesce a cogliere e consegnarci.
Il film di Benchetrit è tutto questo. I due ragazzi che stazionano sulle porte del condominio, come fossero Jay e Silent Bob delle periferie parigine, osservano muti e stupiti la bizzarria che si svolge davanti ai loro occhi. La loro meraviglia è la nostra, di fronte a un film come Il condominio dei cuori infranti, piovuto sulle nostre emozioni come una capsula smarrita da un altro pianeta.