The Pornographers (Introduzione all’antropologia) di Imamura Shōhei, 1966

Appunti su THE PORNOGRAPHERS ( Jinruigaku nyūmon, Introduzione all’antropologia, 1966). Il primo film che Imamura realizza da indipendente, senza avere alle spalle la Nikkatsu, porta alle estreme conseguenze la sua visione del Giappone post bellico – corrotto, smarrito, privo di etica e sedotto dal capitalismo di matrice statunitense – e intensifica lo sperimentalismo linguistico.
The Pornographers mette in scena le vicende di Subu, uno sgangherato produttore di film pornografici nei bassifondi di Osaka. L’uomo vive con una vedova, Haru, e i suoi due figli: il viziato Koichi e la quindicenne Keiko, nei confronti della quale prova una morbosa attrazione. Assistiamo a situazioni e contesti di estremo degrado spirituale e morale (incesto, pedofilia, prostituzione, sfruttamento) che Imamura rappresenta attraverso soluzioni formali di grande rigore e originalità. Più va in scena l’indicibile, più Imamura formalizza con un’arte grafica astratta, chiudendo il caos tra le sezioni verticali/orizzontali di palazzi, le pareti di una camera, le cornici di un effetto mascherino prodotto dal profilmico (travi, porte, grate alle finestre).
Lo stile accoglie il deragliamento della società giapponese e lo imprigiona in astrazioni geometriche per intensificare il distacco dell’osservatore rispetto alla materia osservata. Solo la distanza può infatti permettere a Imamura un’analisi tanto capillare e distillata, capace di addentrarsi nelle dinamiche più intime e perverse di una famiglia che è una grottesca metamorfosi della famiglia tradizionale. Questa “alterazione dell’armonia” è resa da Imamura attraverso l’uso di particolari prospettive e profondità di campo, indicative delle dinamiche tra i personaggi: i volti in avampiano ci appaiono enormi, i corpi sullo sfondo sono rimpiccioliti, creature di scarto. Non c’è equilibrio nei consorzi umani, dominati da sopraffazione, istinti, avidità.

Imamura tavolta registra con occhio glaciale, altre volte ci coglie di sorpresa, lasciando che le emozioni facciano irruzione con l’intensità di una lama: l’apparizione di una lacrima che taglia a metà l’inquadratura; un camera car all’indietro che parte dal primissimo piano di un volto per poi allontanarsi, lasciandolo solo nella vastità della sua follia; e ancora espressioni contorte nella disperazione o mella schizofrenia, in preda a dolori, impulsi, bizzarre superstizioni. Come in Unagi (1997), un pesce (in questo caso una carpa, che Haru crede sia lo spirito del defunto marito) osserva la degenerazione dell’umanità, testimone impotente e osservatore magico, cui forse è dato comprendere ciò che l’umano non sa più discernere.
Inquadrature dall’alto, attraverso la trasparenza dell’acqua, o sghembe, crepe nel visibile, ci svelano una società giapponese che ha perso il senso del tabù, del sacro, persino il rispetto dell’innocenza e della malattia mentale. Imamura lascia colare il suo humor nero rendendo il film un’esperienza tanto sgradevole quanto voyeuristica e pulsionale: spinti a nostra volta da una curiosità privi di scrupoli, vogliamo sapere quanto ancora il limite del rappresentabile possa spingersi oltre. Ombre di Kinugasa, di Mizoguchi e di Ozu sembrano presenti come fantasmi in un mondo degenerato.

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