THE VISIT di M. Night Shyamalan

thevisitCi voleva l’audacia di Shyamalan per rivitalizzare l’esausto found-footage; un genere ormai ripiegato su se stesso, che è servito da pretesto per dozzine di film horror mediocri e improvvisati, in cui la ripresa soggettiva, barcollante e confusa, ha camuffato punti di vista incapaci. Shyamalan invece reinventa il genere facendone il fulcro creativo di un prodotto libero e coraggioso. The Visit è la sua rivincita: un film che non solo disorienta lo spettatore, con una stranezza congenita che scontenta qualsiasi prevedibilità industriale (e per un autore che opera all’interno di Hollywood è già un risultato eroico), ma è anche una riflessione sul linguaggio, mossa da un espediente pigro e anticinematografico come il found footage.
La ripresa soggettiva e domestica diviene una sorta di contro-linguaggio su cui domina l’abilità di Shyamalan nella messa in scena: The Visit esplicita la natura e l’evoluzione della finzione cinematografica, rendendo evidente la realizzazione di un “film del film”: il video, che compone cronologicamente l’opera cui assistiamo, è simulato da Shyamalan che appone una sorta di “terzo occhio” sulle riprese (visibilmente raffinate e composite per essere il risultato di un esperimento domestico). Il regista organizza, dirige, e distingue anche i due stili di ripresa dei fratelli Becca e Tyler, ponendoci di fronte al pensiero della più matura Becca (in cui si identifica) e alle sue valutazioni ed ideali di un cinema “etico”.

Con una memoria che attinge al sapore fiabesco e corroso delle immagini di La morte corre sul fiume, Shyamalan ci offre una Deanna Dunagan che è il ritratto dell’anziana diva Lillian Gish, ma corrotto al suo interno. Il film segue la struttura delle favole dei fratelli Grimm, tra forni che inghiottono bambini, tavole imbandite di dolci e due vecchi che lentamente rivelano la loro essenza di mostruosità e follia, ma colora il racconto di una stonatura del tutto contemporanea. I due giovanissimi protagonisti, vestiti di colori primari che ne incarnano l’energia e la purezza, attraversano un viaggio temporale (una settimana) in cui faranno esperienza con la degenerazione dell’età adulta, isolati in un candore di nebbia e neve.
In novanta minuti Shyamalan ci mostra di tutto: deiezioni corporali, madri superficiali, padri assenti, crociere tutto compreso, fragilità emotiva e schizofrenia del mondo adulto. Il regista si prende il lusso di sconvolgerci con tabù di ogni genere, da quelli biologici (la decadenza del corpo umano) a societari (il fallimento della famiglia).
Un film profondamente originale, rischioso e coraggioso, che parte dalle fondamenta americane (sia linguistiche che sociali) per metterle a nudo immergendoci nel disagio.

45 ANNI di Andrew Haigh

45-YearsLa più bella immagine di 45 Anni, di Andrew Haigh, non ci viene mai mostrata. E’ l’immagine perturbante e fantasmatica di Katya, eternamente giovane e imprigionata nei ghiacci, sul fondo del crepaccio in cui era caduta nel 1962. Kate osserva il marito Geoff, ormai anziano e perduto in una specie di fissità infantile, mentre pronuncia la frase “la mia Katya”. E i 45 anni di matrimonio con lui – anni di serenità quieta, di un quotidiano rassicurante e abitudinario, di cui la coppia conserva ancora le forme educate e gentili – si accartocciano in un dubbio.
E’ significativa la similarità tra i nomi Katya e Kate: una sostituzione metonimica, un’assonanza. E’ così, forse, che una donna è succeduta ad un’altra.
La vita per Kate si colora d’ombra, la stessa ombra che cala sul suo sguardo; ad un tratto appare smarrita nella vastità della sua brughiera, ed avvolta nella nebbia del tormento. Ci voleva un fantasma d’amore perchè Kate si interrogasse sulla sua realtà.
Il tocco stilistico più notevole e riconoscibile del regista Haigh è la sua capacità di trasformare il paesaggio nello specchio dei sentimenti di Kate: il grigiore, la pioggia, i venti parlano del suo disagio, accentuano le pieghe del volto. Una delle inquadrature più belle vede Kate dietro ad una finestra, circondata dagli alberi: quasi si confondesse con le foglie autunnali, tremula e instabile. Una figura umana di cui si perdono i contorni. Ma si tratta di pochi tocchi autoriali di un film che sceglie la sottrazione ed il racconto minimale, appena scandito dai giorni, per poggiare completamente sulle spalle della sua protagonista.
La Kate interpretata dalla Rampling vive di sfumature, di dettagli, di sguardi obliqui: rappresentazioni del crescente disorientamento all’interno del suo mondo. Un mondo che lei stessa ha contribuito a ovattare, smussandone i contorni (è innegabile che Kate tratti il marito in modo fin troppo materno) e su cui adesso aleggia la presenza invincibile della Katya reale/immaginaria, incarnazione di un’alterità abissale.
Qualcuno ha citato, parlando di 45 anni, di Haneke e di Bergman: ma siamo lontanissimi dal rigore, dall’universalità del tragico che si respirano, in forme differenti, in questi due autori. Il film di Haigh è molto più limitato, si accontenta del microcosmo; si tratta di scene da un matrimonio prive di risonanza, circoscritte, che rivelano la prevedibile illusorietà del rapporto tra Geoff e Kate. Un dramma, in definitiva, borghese: un concetto che a Kate fa orrore, e in cui si ritrova, suo malgrado, intrappolata.

MR HOLMES di Bill Condon


sherlock3_croppedMr. Holmes
è un oggetto incerto, che confonde lo spettatore, cambiando spesso genere: film drammatico, thriller, storico, melò, narrativamente indeciso tra l’immobilità e il tuffo ripetuto nel flashback. Ed è un film che vorrebbe rispettare la classicità del personaggio di Arthur Conan Doyle ma inevitabilmente la trascende, la spezza, la rivede alla luce di un presente tremulo: quello di un’esistenza al tramonto. Del romanzo di Cullin da cui il film è tratto, il regista Bill Condon riprende fedelmente i tre spunti narrativi: tre storie (il 1947, il Giappone e la vicenda di una donna misteriosa) che definiscono l’Holmes del presente, questa figura colma di dignità, luccicanze di passato e fede incrollabile nella logica. Un uomo che è l’incarnazione di una contraddizione – quella portata dagli infiniti interrogativi della vecchiaia, dai rimorsi, dalle ombre, sigillati all’interno di un’anima razionale. Holmes non ha mai ceduto – o almeno così dichiara – al pianto: “la morte, il dolore, il cordoglio, sono luoghi comuni: mi concentro sui fatti. La logica è rara”. Ma il viso del vecchio detective, che il regista inquadra così spesso in primo piano, rivela i dubbi, il tormento. Il film potrebbe inscriversi tutto nel suo volto, negli occhi scavati e brillanti, alla ricerca di un passato che sfugge e scompare.

Se Mr. Holmes, con tutte le sue profonde imperfezioni, la lentezza, l’indulgenza illustrativa, trova una forza coesiva ed emozionale è grazie all’interpretazione di McKellen, che si imprime indelebilmente nel cuore. Ed è sempre McKellen, con la sua smorfia da grido muto, la voce consumata, le mani tremanti, a portare alla luce il vero nucleo del film: la memoria, carica di un respiro sovrannaturale.
Una figura femminile appare/scompare nei sogni; l’immaginazione interferisce sulla realtà e la riscrive; parallelamente, il protagonista si trasforma da emblema di razionalità a uomo che crede ai fantasmi “al di là del muro”. E chi guarda vive un viaggio dalla logica allo spirito, da Conan Doyle a Henry James.
Il film, scricchiolante per la struttura cedevole, le crepe, gli errori, le incoerenze, alla fine si ricompone spontaneamente in una forma. Perchè, come dice il suo protagonista, “Non si deve lasciare questa vita senza un segno di compiutezza”.

#ALLMYMOVIES DI SHIA LABEOUF

ALTRI10Da tre giorni spettatori da ogni parte del mondo sono incollati allo schermo del computer, ipnotizzati da una delle performances artistiche in streaming più affascinanti degli ultimi anni: #ALLMYMOVIES di Shia laBeouf, attore hollywoodiano tra i più geniali e controversi; uno dei pochi divi che, invece di adattarsi allo status di star, su questo status si è interrogato continuamente: lo ha studiato, sofferto, rigettato, guardato come fosse altro da sé. E proprio questa performance, da molti considerata uno stunt narcisistico e sensazionalista, si rivela in realtà un’acuta, toccante riflessione sulla celebrità, come condizione non solo personale, ma nel suo valore di proiezione/transfert.

Shia, seduto al cinema dell’Angelika Film Center di NY, inquadrato in primissimo piano, guarda incessantemente i propri film in ordine cronologico inverso, assieme al pubblico in sala: ovvero Shia guarda Shia mentre noi guardiamo lui, a sua volta osservato dagli altri e illusoriamente capace, attraverso numerosi e casuali sguardi in macchina, di osservare noi.
Uno sguardo, dunque, che innesca infinite conseguenze: un vero abisso di specchi, che avrebbe fatto impazzire gli studiosi di semiotica degli anni ’60.
L’attore, in questa messa a nudo in cui guarda-dorme-sbadiglia-mangia-ride, il tutto sempre a disposizione dei nostri occhi, in qualsiasi istante e luogo, ha offerto se stesso alla voracità di un pubblico sempre più affamato del privato delle star. Con un balzo non solo ha superato tutte le divette da instagram, ma anche quegli attori ed attrici di fama mondiale che esercitano un controllo maniacale sulla propria immagine.

Con la sua istintività “primitiva” e un atteggiamento (esistenziale) che è performance artistica naturale, Shia LaBeouf si è dimostrato più avanti di chiunque: anche di artisti consacrati come Marina Abramovic, la cui famosa esibizione “Occhi negli occhi” è decisamente bolsa e superata se paragonata al potere incantatorio e significante di #ALLMYMOVIES.
Tra qualche ora, ovvero alle 6.53 PM di New York, l’evento terminerà: e lo sguardo di molti si troverà, improvvisamente, orfano.

ALASKA di Claudio Cupellini

alaskaLa sensazione che si prova, guardando Alaska, è quella di non trovarsi di fronte ad un film italiano. Delle produzioni italiane non ha il folclore, i difetti, l’immediata riconoscibilità, certi vezzi narcisistici o mediocrità stilistiche/narrative. Ma Alaska non ha nemmeno aprioristiche pretese autoriali. La cosa bella del film di Cupellini è la sua ostinata libertà, la disobbedienza ai canoni e la spinta irrefrenabile alla vita – e al racconto. Assomiglia moltissimo, in questo, ai suoi personaggi, Fausto e Nadine: due giovani istintivi, selvatici, fortemente imperfetti, eppure trascinanti e vitali. Cupellini realizza un film che non assomiglia a nessun altro anche se dimostra di aver assorbito le suggestioni del miglior cinema internazionale: mentre scorre sullo schermo ci attraversano lampi della poesia di Audiard, del montaggio libero ed emozionale di Kechiche, della violenza emotiva di Farhadi; ma anche dei classici della nouvelle vague – in particolar modo la sequenza che vede Nadine col carrello del supermarket non può non far pensare a La signora della porta accanto di Truffaut. E difatti, Nadine e Fausto sono mossi dal medesimo sentimento selvaggio e irrazionale, da quella brutalità di passioni e pulsioni che porta ad “uccidere la cosa che si ama”. Siamo di fronte ad un bellissimo esempio di nouvelle vague italiana, ad una storia che è una sorta di Cime Tempestose trasportato nello squallore urbano, in città senza sole o locali notturni mitizzati, trasfigurati in misteriose Shangri-La in cui dimenticare il vuoto. Alaska vive delle proprie pulsazioni, attraversa due vite servendosi di un montaggio ellittico, quasi un’aritmia cardiaca. Inutile contare i buchi di trama, le incoerenze nel film di Cupellini: ce ne sono molte, ma sono necessarie a riprodurre il flusso irregolare e le contraddizioni del vivere, con una regia mai approssimativa, ma sempre consapevole. Fausto è inquadrato spesso dietro sbarre, o cancelli, a sottolineare una prigionia interiore; Nadine è rivelata nella sua corporeità anonima (appena tradita dallo sguardo selvatico), nell’automatismo dei gesti, in cui celare le proprie fragilità. E poi ci sono gli spazi: le carceri fotografate nella loro monolitica spietatezza, le panoramiche sulle città, fredde e prive di consolazione e infine gli interni, mai accoglienti ma sempre estranei, minacciosi. Cupellini mette in scena una storia d’amore dolorosa, ma mossa dalla speranza e dal futuro: i protagonisti sono smarriti ma non vinti, in questo racconto labirintico, fatto di continui spostamenti, di irrequietezza, di ostacoli superati e cercati ostinatamente, quasi a voler amplificare le emozioni di un amore in bilico sul nulla, e tenerlo così in vita. Ed è significativo che la vicenda sia circolare: i due personaggi dell’inizio sono gli stessi della fine; Fausto (uno strepitoso Elio Germano) non ha perso il desiderio di far sorridere la sua malinconica Nadine.

TUTTO PUO’ ACCADERE A BROADWAY di Peter Bogdanovich

funnyPer i cinefili cresciuti con il cinema classico, She’s funny that way è il film più malinconico degli ultimi anni. Una constatazione che va fatta nonostante l’indubbia forza comica dell’ultima opera firmata Bogdanovich; un film che è una doppia, triplice messa in abisso di memorie cinematografiche, qui allestite e messe in scena in un viaggio al contempo divertente e funebre. Bogdanovich ci riporta a un’epoca ed uno stile cinematografici ormai trascorsi: quello della commedia screwball e sofisticata degli anni ’30 e ’40. Lubitsch certo, ma non solo: anche McCarey e Hawks, Leisen e LaCava, tra gli altri. Dialoghi arguti e irresistibili, una perfetta struttura da vaudeville, allusioni, tempismo che incastra le scene in un susseguirsi di cause/effetto esilaranti. Un genere scomparso, e che aveva raggiunto l’apice in quel Lubitsch che si fa nume tutelare del film non solo attraverso la battuta “degli scoiattoli”, ma in una ricerca della perfezione che sfocia nel bellissimo finale –  una dissolvenza nella luce, perchè il cinema della Hollywood classica era trascendente nella sua assoluta irraggiungibilità. Autori come Lubitsch trasformavano la vita in tutte le sue declinazioni – romanticismo, fallimenti, delusioni, scoperte – in gioielli stilistici, in cui la forma sublimava ogni fallacia umana. Bogdanovich ci prova, e ci restituisce parte della magia, filtrata anche attraverso registi che, come lui, hanno omaggiato le commedie del passato: sin dalle prime scene non si può non notare che Bogdanovich cita Woody Allen che cita le screwball. Strumenti narrativi come i flashback, o il racconto in prima persona sono tipicamente alleniani. Ma Bogdanovich sta semplicemente dichiarando il suo amore al genere, usando ogni mezzo. Gli si può rimproverare di aver esagerato nel colore troppo slapstck della sceneggiatura, che conferisce al film un tono farsesco del tutto assente dalle sophisticated comedies: Lubitsch era infinitamente più allusivo e reticente. Ma di fronte a tanto amore, e a quella fuga nel passato delle ultime inquadrature, ci si può solo commuovere. She’s funny that way racconta di un cinema ed una vita che non esistono più. Meravigliosamente anacronistico, un fantasma dal passato. Una menzione speciale va fatta a Jennifer Aniston: commediante strepitosa, ruba il film con una performance che la eleva al rango di una Miriam Hopkins. Mostruosa, bravissima, perfetta.