HALLOWEEN di David Gordon Green

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E’ un bene che il nuovo Halloween sia stato girato da un ottimo artigiano come David Gordon Green e non, come qualcuno auspicava, da un autore horror europeo (come Laugier o Bustillo e Maury); era fondamentale che l’immaginario di Halloween restasse specificamente americano, quasi una condizione genetica innestata nella cultura popolare statunitense; e che non intervenisse un’autorialità europea a sovrascriverne il Mito. Halloween non ha bisogno di riletture a partire da nuove sensibilità, né della distanza interpretativa di una memoria da cinephile: David Gordon Green dimostra di saper trattare la materia con il rispetto e la diligenza necessari, senza eccedere mai – né i confini sistemici dell’opera di Carpenter, né la riconoscibile condizione dello spirito che la permea. Green considera il film originale come un mondo: ne riconosce l’autonomia, la perfezione estetica e narrativa; riesce ad apprenderne grammatica, la funzione dei personaggi e soprattutto l’essenza di Michael Myers.

“The Shape”: un non-volto, un Male che procede in una ipnotica coazione a ripetere. Myers non ha una motivazione, non ci interessano le origini psicoanalitiche della sua natura; è sufficiente, come accadeva nel primo Halloween, la sua presenza: un germe del Male che informa il mondo. Myers è una fisicità muta e pesante di cui avvertiamo il respiro affaticato: il suo essere “corpo” è l’unica traccia di umanità che gli resta.
Partendo dalla piena comprensione del personaggio-Myers, David Gordon Green è in grado di “mettere in scena”, in piena fedeltà all’originale, le dinamiche tra Myers e Laurie: l’ineluttabilità del loro legame, la lenta trasformazione di Laurie in carnefice, il suo pulsionale desiderio di stringere la sua “vittima” in una morte violenta e senza uscita, in cui chiudere il cerchio del destino.

Ed è proprio in questa messa in scena che Green dà il meglio di se, mostrandosi in grado di calarsi completamente nell’Halloween carpenteriano in quanto “dimensione” e rispettandone tutte le regole: dai tópoi narrativi agli snodi di sceneggiatura, regalando numerosi omaggi (sia sequenze che singole inquadrature) all’originale.
Haddonfield è la stessa di allora: battuta dal vento, tattile nella sua atmosfera autunnale; Michael fugge e torna ad uccidere, mentre Green lo segue con i medesimi piani-sequenza: il suo scrupolo nel rispettare il linguaggio carpenteriano è ammirevole, anche quando spesso si concede di giocare con gli attanti (rovesciando, ad esempio, i ruoli di Laurie e Michael).
Certo, il film del 1978 resta l’archetipo eterno cui Green tende, talora scivolando o ricorrendo a scelte non sempre all’altezza; e pesa anche la risoluzione femminile/femminista come impone l’attuale correttezza politica. Resta però la possibilità di rientrare in Halloween come universo semantico, ritrovare luoghi, figure, atmosfere, e ritrovare la forma narrativa che tanto ci aveva avvinto. Una dichiarazione di fedeltà che appare dai titoli di testa, replica esatta dei titoli del 1978, con una zucca che si “ricompone” in un presente che ritorna. 40 anni dopo, il cinema è ancora omicidio, ed il nostro piacere ritrovato.

DISOBEDIENCE di Sebastián Lelio

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Se Una donna fantastica era un film tanto bello quanto fuggevole – quasi poggiasse su una casualità viva e vibrante, in cui il talento del regista si incontrava con una protagonista talmente brava da “divenire” il suo personaggio e trasmetterci l’emozione nel suo farsi – Disobedience è opera che nasce da una differente necessità: il regista ricorre ad un impianto strutturale “forte” che la rende più complessa, ma anche meno libera.

Lelio placa l’intensità coloristica e il movimento quasi in presa diretta della sua regia precedente: ne risulta un film controllato, meno vitale, eppure di grande fascino nella sua imperfezione. La scelta di una struttura circolare ed una sceneggiatura estremamente rigida limitano il respiro di Disobedience, girato quasi totalmente in interni. La Londra è quella delle case soffocanti, sviluppate in verticale, dai piani stretti e dai tetti spioventi; le dolenti protagoniste interagiscono quasi sempre con le “spalle al muro”, bloccate metaforicamente quanto spazialmente. Lelio cede allo stereotipo del paesaggio urbano grigio e nuvoloso e lo riflette sui volti delle sue attrici: struccate, sbiancate da perenne luce invernale, Ronit (Rachel Weisz) e Esti (Rachel McAdams) interpretano sulla propria pelle l’assenza, il vuoto; scambiano sguardi e poche parole scarne, con una costante allusione ad un altrove e un non detto.

La forzata tensione tra Ronit e Esti è spesso enfatizzata eccessivamente da Lelio, che pone le sue protagoniste in uno stato di angoscia artificiosa, unita ad una certa teatralizzazione dei dialoghi (con echi da Cechov a Tennessee Williams). Tutti gli attori in verità sembrano far parte di un grande allestimento scenico, ciascuno con una parte da “ripetere” più che da interpretare: e qui, paradossalmente, risiede anche il fascino di Disobedience: Lelio insegue il dramma in quanto genere, lo ripercorre con la memoria attraverso le sue declinazioni e ne afferra brandelli per farne un film-fantasma, sui cui aleggia costante un sentimento di morte.

Nella sua ricerca di un’autorialità Disobedience molto spesso fallisce, ma reca il segno di uno stile, l’ambizione ad un’altezza. Lelio ci offre una “natura morta” in cui serpeggia l’inquietudine, incarnata non tanto dalla fredda passione tra le due donne, quanto dal vero germe estraneo: il personaggio del giovane rabbi (un grande Alessandro Nivola). Mutevole e sofferente, il Dovid di Nivola è il cuore sentimentale del racconto: si libra sui numerosi cliché della sceneggiatura, rende impalpabili le forzature di trama ed è la vera “disobbedienza” che scuote la ricercata cerebralità del film. Dovid offre la sfocatura, la vertigine; salvando Disobedience dalla sua stessa cifra stilistica.

L’INVASIONE DEGLI ULTRACORPI (1956) di Don Siegel

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Sapevo che si trattava di una storia molto importante. Credo che il mondo sia popolato da baccelli e volevo mostrarli. Penso che tante persone non abbiano alcuna emozione né sentimento o cultura, nessuna sensazione di dolore, nessuna pena. […] Il riferimento politico per il senatore McCarthy e il totalitarismo era inevitabile, ma ho cercato di non sottolinearlo perché i film servono in primo luogo per intrattenere e non volevo predicare.” (Don Siegel: American Cinema, Londra, 1975 ).

Tratto dal romanzo di Jack Finney “The Body Snatchers” e prodotto nel 1956 dal lungimirante e sensibile Walter Wanger, L’invasione degli Ultracorpi descrive un’invasione extraterrestre in una piccola città della California. Gli invasori sostituiscono gli esseri umani con i duplicati che compaiono identici in superficie, ma sono privi di qualsiasi emozione o individualità.
Concepito a basso budget e ferocemente pessimista, tanto da suscitare l’intervento dello Studio che impose un prologo ed un epilogo rassicuranti (trasformando il racconto in un lungo flashback) L’invasione degli Ultracorpi rappresenta una chiave di volta nel cinema americano.
Il film concentra su di sé, raggiungendo la perfezione formale, la psicosi da guerra fredda e il clima di prostrazione creatosi dopo dieci anni di maccartismo; è il film/emblema delle nevrosi, della paranoia e dell’incombente senso di punizione enfatizzato dalla matrice religiosa e puritana della società americana.
Mentre il governo si era adoperato per rimuovere la “grande colpa nazionale” – lo sgancio della bomba atomicafavorendo produzioni semidocumentaristiche e giustificative, il cinema di genere di quegli anni, perfetto e affilato come un incubo, recupera il rimosso e macchia le colpe col terrore. Nelle produzioni a basso costo si scatena un inferno punitivo, la rappresentazione di un destino cui non ci si può sottrarre; il clima è quello di una mistica condanna e mancanza di una via d’uscita: l’apocalisse che ingoia e divora i peccati della razza umana.

L’astrattezza ideale del sogno americano (dal candore di Capra all’infinito del western) si trasforma nel terrore dell’invasione, nell’infiltrazione di un corpo freddo, estraneo, capace di distruggere natura/emozioni/cultura.
Come altre produzioni simili e contemporanee, L’invasione degli Ultracorpi si può definire come un western “al contrario”, in cui la colpa imperialista si mescola alle ferite della guerra. L’opera di Siegel è lo spettro malato del nazionalismo, ribalta l’ideologia colonialista di cui si stavolta è ipotetica vittima ad opera di creature sconosciute ed orribili.
E proprio mentre negli anni ’50 il western perde, in opere malinconiche, deluse e prive di certezze, la baldanza propria di quell’espansionismo vitale che caratterizzò i decenni precedenti, la fantascienza diviene il genere ideale da ancorare alla metafora politica.
La guerra fredda crea tensioni nell’immaginario artistico: l’ “altro”, il nemico, assume le fattezze di una minaccia senza volto; una realtà possibile, presente, priva di riferimento storico e quindi inconoscibile. Questo fa sì che la paura, nelle sterminate produzioni dell’epoca, si tinga di toni deliranti, schizofrenici o mistici. Di fronte al vuoto, l’America cerca l’assoluzione di Dio e lo fa con un atteggiamento misto di sublime e ridicolo (si pensi a The next Voice you hear (1950) di William Wellman, in cui Dio comunica addirittura al telefono). L’America chiede perdono per l'”imprevisto” tecnologico, per le scoperte della scienza applicate alla guerra e tramutate in mostri (ecco allora la schiera di formiche o ragni giganti, i fantasmi delle radiazioni nucleari, le creature disumanizzate e i bambini dagli occhi bianchi).

Il senso di insicurezza si rovescia nell’irrazionale, in particolare nella paura dei dischi volanti; e così, mentre si moltiplicano gli avvistamenti, le ricerche ufficiali, i files top secret, L’invasione degli Ultracorpi instaura a livello narrativo un sistema basato sul dualismo tra l’umano e l’insondabile, il conosciuto e l’alieno.
Se il film di Siegel è diventato l’emblema di un contesto storico-sociale, ponendosi significativamente al di sopra di tutta la fantascienza dell’epoca, il motivo è da ricercarsi nella sua qualità estetica. Siegel si affida ad uno stile scabro, trasforma il vecchio esattamente come i suoi baccelli divorano l’umanità obsoleta, sentimentale e fragile.
L’occhio di Siegel predilige una valenza simbolica visiva (in cui trionfa l’evidenza dell’oggetto), che si trasferisce come un pugno nell’incoscio. La sua è una regia moderna e sperimentale, che apparentemente riprende i canoni propri degli anni ’40, per distruggerli dall’interno.
Il film affila i contorni delle ombre, toglie elusività ai chiaroscuri e si affida ad una spietata profondità di campo.
I contrasti del noir si trasformano e si fanno taglienti; tutto ciò che vi era di allusivo, sfumato, spirituale nel noir (che è film dell’anima) nell’Invasione degli Ultracorpi si fa concreto: un film del corpo e dell’oggetto, utilizzato nella sua potenza freudiana.
Il terrore diventa reale. Dal regno della possibilità si passa alla sua terrificante attuazione: lo spettatore è faccia a faccia con la paura/corpo estraneo, con l’invasore che succhia l’anima, e le scelte stilistiche del film, improntate ad una lucida schizofrenia, enfatizzano il suo sgomento. Siegel si serve di una tecnica che imprime al film una qualità tattile, e attua un controllo compositivo che mira a limitare le interpretazioni possibili a favore di un unico, innegabile sguardo agghiacciato.

L’accento dato alla profondità di campo è un segno proprio di quegli anni: è interessante notare che parallelamente la stessa precisione veniva utilizzata, ad esempio, nei film antibellici di Fuller: la profondità di campo si fa linguaggio figlio del trauma.
La realtà ha perso la qualità di sogno soffuso fatto di notte e nebbia; è uno schiaffo alla luce del sole, aspro e minuzioso. L’invasione degli Ultracorpi apre gli occhi degli spettatori con la crudeltà di una lama. La trasformazione degli individui avviene al riparo della notte e del sonno, mentre il giorno è la dolorosa rivelazione di un nuovo che avanza e divora. Siegel pretese che le numerose scene notturne venissero girate senza “effetto notte” ma propriamente al buio, per rendere più reale il contrasto tra i due stadi psicologici ed esistenziali rappresentati: la notte come fuga, lotta, speranza, trasformazione. Il giorno immutabile e irreversibile nel suo orrore.

(già apparso su Nocturno dossier n. 126)

SOLDADO di Stefano Sollima

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Considero Soldado di Sollima un testo filmico di passaggio dalla scrittura cinematografica a quella televisiva: si vocifera di una trasformazione di Sicario in serie tv e il film di Sollima è un perfetto strumento di transizione. Paragonato all’opera di Villeneuve, Soldado subisce una serie di mutazioni e un imprinting al movimento: Sicario era fondamentalmente cinema immanente, metafisico, capace di trasformare la realtà in tragica astrazione. Lo spazio convergeva all’infinito e il personaggio di Kate (Emily Blunt) era il fondamento, la misura attraverso cui confrontarsi con la profondità del Male. I suoi antagonisti, Alejandro e Matt, erano estremamente definiti, due caratteri il cui nichilismo ammantava di sé ogni motivazione: figure pulsionali e amorali. Lo scontro tra la purezza addolorata della Blunt, martire segnata nel corpo e nello spirito dalla discesa nell’inferno del reale, e i due agenti – ormai investititi dal male in ogni fibra – costruiva la struttura tragica ed essenziale di Sicario.

Soldado riporta tutto alla terra: all’epos sostituisce un racconto ordinario; rompe lo spazio geometrico di Villeneuve e ridefinisce nuove coordinate e direzioni, trasforma uno spazio mentale in strade, deserti, case, moltiplicando le prospettive o meglio confondendole.
In tutto e per tutto, Soldado diventa un action tanto professionale e superbamente girato quanto convenzionale (si pensi anche alla funzione enfatizzante dello score). La sceneggiatura di Sheridan, nonostante aderisca con sconvolgente precisione all’attualità sociale e politica dell’America di Trump, perde compattezza, forza metaforica e si frantuma in una varietà di sottotrame; l’assenza di Kate, anima di Sicario, ci introduce nel classico universo maschile degli action thriller, dove le presenze femminili sono vittime o accessorie. In tal senso, Soldado è profondamente conservatore.

Le delusioni maggiori vengono dai personaggi interpretati da Del Toro e Brolin: questo nuovo capitolo li snatura, li rende opachi, smussa la punta acuminata che ne faceva macchine inarrestabili, impulsi ad uccidere; Brolin resta nell’ombra mentre Del Toro viene umanizzato, psicologizzato, dotato di compassioni, ripensamenti, pietà. Del Toro assume le sfaccettature dell’eroe, al punto da essere quasi dotato di immortalità.
In tutto questo, Sollima riesce comunque a dimostrare il suo talento brillante ma Soldado lo rende un anonimo, quanto capace, shooter. Si notano assonanze col cinema della Bigelow, ma manca a Sollima, in questo suo prestarsi al cinema di Hollywood, uno sguardo forte, una visione che sorregga la sua abilità con la macchina da presa. Bellissima la sequenza della bomba al supermercato, e altrettanto notevole il controllo di Sollima sull’ipercinetismo della scena del rapimento: lampi di vera grandezza in un film di “aurea medietà” che non trova la sua personale luce.

SICARIO (2015) di Denis Villeneuve

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Villeneuve possiede una cifra stilistica talmente distintiva da informare persino il cinema di genere del suo sguardo autoriale: un cinema d’autore che però non ha pesantezze intellettuali, bensì è in grado di parlare allo spettatore con grande immediatezza. Il cinema di Villeneuve è la sua visione del mondo: pensiero e filosofia trasformati in immagine, condizione dello spirito resa attraverso la luce.

Sicario è un film “americano” che si ibrida con la sensibilità di Villeneuve per un risultato dalla bellezza arcana: al regista interessa rivelare il valore iniziatico della storia che racconta. Scritta dal grande Taylor Sheridan (Hell or High Water, I Segreti di Wind River), cui si devono gli script più esistenzialisti, rarefatti eppure radicati nella brutalità del reale degli ultimi anni, la sceneggiatura possiede la qualità dell’epos tragico: Kate Macer (una Emily Blunt di sconvolgente bravura) è l’anti-eroe al centro di un passaggio esperienziale – tanto concreto, fisico, spaziale, quanto interiore – al termine del quale si troverà cambiata. Simbolicamente, questo “viaggio” infernale, discesa nel Male, inizia con la scoperta di una “casa dell’orrore” in cui si trovano decine di cadaveri marcescenti: una visione orrorifica che Villeneuve rappresenta in tutta la sua corporale ripugnanza, sapendola però rivestire di una “sacralità” – attraverso volti ormai maciullati e irriconoscibili, sangue e carne esplosi in sacchetti di plastica – in cui semantizzare il senso di una profanazione: una macabra apparizione del Male.

Questa violenta epifania , amplificata dallo score perturbante del compianto Jóhann Jóhannson, schiude l’iniziazione di Kate ad una realtà talmente malvagia da portare Villeneuve a “smaterializzarla” per poterla rappresentare sullo schermo: Sicario è un film costitutito da poco movimento (siamo lontani dagli stilemi dell’action) ma da grandissima attenzione alle scelte luministiche e alla composizione dell’inquadratura. La bravura di Villeneuve sta esattamente nel costruire il movimento dentro l’inquadratura, come facevano i pittori rinascimentali: spesso riusciamo ad individuare tre differenti piani all’interno dell’immagine, attraverso i quali egli costruisce un percorso che punta all’infinito. Villeneuve racconta attraverso cambi di fuoco, spostamenti essenziali, modulazione fotografica. Kate è investita di luce spirituale; analogamente, lo spazio esterno è spesso invaso dalla luce, all’interno della quale i movimenti di automobili, aerei, mezzi di vario tipo appaiono astratti, misteriosi.

Villeneuve è perfettamente in sintonia con l’idea di frontiera che emerge dalle sceneggiature di Sheridan: un non-luogo senza legge, in cui le pulsioni più basse, la più fredda e crudele amoralità, la contrapposizione elementare “uomo contro uomo” assumono dimensione esasperata, formalizzata in una metafisica scarnificazione. In Sicario prevale il nichilismo più assoluto, tradotto in luoghi resi irriconoscibili dalla tecnica di Villeneuve, che trasfigura le cose in paesaggio lunare e fantascientifico (come nella bellissima sequenza del tunnel). La grandezza di Villeneuve risiede proprio nell’anima del suo cinema: la volontà di rappresentare un Male senza fine attraverso lo spirito.

A STAR IS BORN di Bradley Cooper

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Bradley Cooper apre A Star is born con un titolo di testa che, per via del carattere tipografico scelto, ci riporta fugacemente agli anni ’50 . Ma è l’unico omaggio al passato in un film che si impone come un universo estremamente chiuso, un sistema rigido dominato da una forte monodimensionalità formale quanto contenutistica. Cooper dimostra grandi ambizioni nei confronti di quest’opera prima: dalla scelta del soggetto all’enfasi sentimentale, dallo studio coloristico alla teatralità delle performances. Ma registicamente non è in grado di contenere la materia in una forma: A Star is born soffre di mancanza di disciplina estetica e narrativa.

Le scene si susseguono in un abbozzo narrativo incapace di comporsi in racconto: è un film che costantemente sbava, si espande, eccede in lunghezze e soffre di un montaggio dilettantesco. Lo spettatore viene incanalato all’interno dello sguardo di Cooper che è estremamente claustrofobico: A Star is born predilige come linguaggio d’elezione il primo piano e quasi mai si discosta dai volti dei due attori. Una scelta che, lungi dal rappresentare l’intrinseco conflitto dei protagonisti, sortisce l’effetto di una storia d’amore – una Bad Romance, per citare la Gaga – chiusa all’interno di una scatola. Intrappolati nell’ossessivo sguardo ravvicinato di Cooper, i personaggi soffocano e non hanno mai la possibilità di diventare esseri umani: restano mere funzioni, cliché di una storia archetipica che Cooper non riesce a raccontare se non attraverso una superficiale, banalissima drammatizzazione. Anche l’attenzione del regista per il rosso ed il blu, colori dominanti e stemperati in una patica onirica fatta di illusionismi luministici e riflessi, assume un’artificiosità che ne fa un filtro insincero e stancante; come se Cooper avvertisse la necessità di virare costantemente l’immagine imbevendola di sogno e romanticismo.

Di questa vicenda eterna, raccontata con ben altro spessore da registi come Wellman e Cukor, cui si devono le migliori versioni (dense, chiaroscurali, crudeli e capaci di schiudere una polisemia che con gli anni si è solo accresciuta) non resta che un involucro tanto prolisso quanto inconsistente. La visione è pesante proprio per la passività cui viene costretto lo spettatore, costretto ad assecondare le leggi di un sistema-cinema (quello di Cooper) in cui le emozioni sono studiate a tavolino, i sentimenti imposti, la commozione programmata, senza mai una crepa, un’apertura, un’ombra cui affidare l’intuizione della complessità oscura e contraddittoria dei protagonisti. Nella scena finale, l’ultima canzone di Gaga, avvertiamo un brivido di verità liberatoria; ma è ormai troppo tardi.

GIRL di Lukas Dhont

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L’equilibrio conseguito da Dhont in questa opera prima è mirabile: l’identità di genere viene affrontata come racconto di formazione, alieno dalla ricerca di facili empatie o commozioni. Lara è una ragazza transessuale estranea al proprio corpo: nella semplicità del titolo, Girl, è racchiusa l’essenza del film.
Il suo volto, di incantevole bellezza, è presente quasi in ogni inquadratura: vediamo Lara dormire, vestirsi, mangiare, prendere la metropolitana; Dhont la segue in ogni momento quotidiano e la sua tragedia è la tragedia di ogni adolescente, elevata a potenza dal rifiuto violento della propria fisicità. A Dhont non interessa mostrarci i pensieri di Lara: la ragazza resta opaca, talora impenetrabile; eppure cogliamo la sua tempesta interiore semplicemente dal modo in cui ella si relaziona con l’ambiente. Dhont usa come mezzi d’elezione la luce e il colore, come dimostra, ad esempio, il primo colloquio con lo psicologo: Lara è illuminata dalla luce naturale, ma alcune domande fanno letteralmente “calare l’ombra” su di lei.

Dhont ci mostra inoltre Lara quasi fondersi, coloristicamente, con il contesto. Bionda e vestita di colori tenui all’interno di ambienti pastello, cupa e triste in interni grigi e impersonali, Lara aspira ad essere una presenza perfettamente naturale nell’ordine delle cose. Il divario è sempre dato dal corpo: per raggiungere quello stato di naturalezza e di anonimità, il corpo maschile è un ostacolo, un oltraggio al proprio sentire.
Dhont scruta le rabbie, la sofferenza, il trauma di Lara attraverso primi piani in cui il più leggero moto dell’anima affiora sul viso. Parallelamente la danza, cui la ragazza si offre con dedizione masochistica, è la metafora della violenza con cui affronta il rapporto con la propria fisicità: allenamenti durissimi, dolorosi bendaggi, ferite, sanguinamenti e dimagrimenti sono la punizione inflitta a quel corpo “ingombrante”. La terapia ormonale, in cui cercare soluzione, non agisce con la rapidità sperata: ogni giorno Lara si esamina allo specchio, cerca invano la curva del seno, paradigma della propria immagine ideale.

Il regista si attiene ad uno sguardo da entomologo che non attenua, ma semmai amplifica nello spettatore il crash emotivo, il senso di non-corrispondenza tra il corpo che vediamo riflesso allo specchio e l’anima della giovane che balza agli occhi così distintamente. Il cinema di Dhont non ha bisogno di ricatti sentimentali: collocare la ragazza nello spazio, a contatto con i suoi simili, è sufficiente a far collassare il sistema di realtà. Un film terribilmente duro, la cui pulizia e ordine – la sequenza di movimenti quotidiani ne fa una partitura da musica classica – è l’unica forma possibile in cui rappresentare un dolore che tracima oltre lo schermo.

IL DOTTOR JEKYLL (1931) di Rouben Mamoulian

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Nel 1931 la Paramount affida a Rouben Mamoulian la realizzazione del classico di Stevenson, per farne la prima versione sonora e contrastare il successo degli horror dello studio rivale Universal. Un compito che Mamoulian trasforma in un sogno sperimentale e atmosferico, nonché uno dei film più intensamente erotici della storia del cinema (siamo ancora in era pre-codice Hays e Il dottor Jekyll sfrutta tutto il suo potenziale morboso). Nel film il regista, coadiuvato da Karl Struss (direttore della fotografia di film come Aurora di Murnau), si serve di tutta la sua creatività fantastica per creare un linguaggio cinematografico senza limiti, fatto di soggettive, dissolvenze, montaggio rapido, stilizzazione, primissimi piani sugli occhi dei protagonisti.

Mamoulian ci conduce, per mezzo di dense nebbie, chiaroscuri, sovraesposizioni e ritmi irregolari (come il battito cardiaco di March nella tormentata trasformazione) nel ventre più nero degli impulsi sessuali, proiettati sulle due antitetiche figure femminili: la virtuosa Muriel (Rose Hobart) e la prostituta Ivy (Miriam Hopkins); ma mentre Rose Hobart incarna la noia della perfezione (e quindi dimenticabile), è sulla perfomance della Hopkins che si potrebbero scrivere libri interi. La sua sfortunata, sfrontata e innocente Ivy macchia di desiderio le inquadrature e invade gli occhi e la memoria. Se Mamoulian si adopera a raddoppiare lo spazio dello schermo con dissolvenze incrociate, profondità di campo ed zoomate improvvise, è esattamente per intensificare ciò che il cinema può contenere: le voglie, la colpa, la paura, gli istinti, la bestia e la preda.

Miriam Hopkins, mai così bella, fa del suo corpo l’oggetto e il simbolo, lo strumento filmico da cui si irradiano sottotesti – la scollatura, la schiena nuda, il profilo del seno – e soprattutto quella gamba su cui Mamoulian induce: penzolante dal letto, adornata da giarrettiera, dondolata avanti e indietro. Un’immagine che si sovraimprime sulla successiva a indicare la permanenza del desiderio ossessivo. E poi la fisicità dell’attrice, così minuta, bambina e vulnerabile; la Hopkins porta alla luce l’impulso nudo, la sua legge violenta, crudele e cieca.

L’UOMO CHE UCCISE DON CHISCIOTTE di Terry Gilliam

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Dopo tanti anni, Gilliam riesce a consegnarci la sua opera concettualmente più ambiziosa e artisticamente più desiderata: ma lo spettatore cosa vede, esattamente? Il problema del film di Gilliam è la sua irriconoscibilità in quanto sistema: è un insieme di parti continuamente centrifughe, un maremoto di ispirazioni, stili, sovrapposizioni di intenti, convergenze umorali, libertà sintattiche. E’ veramente troppo il carico cui viene sottoposto lo sguardo del pubblico, che ha il compito di decifrare, cucire gli strappi, creare ipotesi. E anche se si abbandonasse qualsiasi tentativo di analisi o ricostruzione strutturale, una semplice visione passiva diventa impossibile perchè il film di Gilliam eccede lo sguardo.

Lo eccede in senso deteriore: al cinema totale, inseguito da Gilliam in questa opera-maelstrom che tutto contiene – dalla creazione del testo filmico, alla sua estetica ed ermeneutica – si sostituisce un accumulo “fenomenico” di espressioni artistiche nel loro manifestarsi. La fantasia di Gilliam si dispiega grezza, disordinata, non cerca un’armonia tra le parti.
Nella vicenda di Toby (un Adam Driver pronto a tutto), regista pubblicitario che sembra aver perso negli anni gli ideali e la passione giovanili, Gilliam concentra il ritratto dell’Artista, la sua lotta con l’ardore poetico e l’innocenza dell’arte, il quotidiano scontro con la brutalità annicchilente del reale; ma lo scopo di Gilliam è anche quello di montare/smontare la Macchina dei Sogni, trascinarci all’interno dei meccanismi che muovono la messa in scena – dall’ispirazione alla materializzazione del sogno attraverso la tecnica, fino all’illusione che prende il sopravvento tanto da divorare il suo creatore.

L’immaginazione di Gilliam è rimasta fedele a se stessa, così come il suo linguaggio prediletto: prospettive deformate, smarrimento della figura umana nello spazio, primissimi piani di volti che diventano perturbanti paesaggi; il tutto dispiegato in fantasticherie storico/oniriche e gusto dell’avventura in senso cavalleresco. Gilliam è un creatore di mondi alla maniera di Ariosto e Cervantes: in lui converge il desiderio, il senso del magnifico e del folle, la consapevolezza della limitatezza umana.

Toby ritrova nel vecchio pazzo (Jonathan Pryce, commovente) la fede nel sogno e nel cinema: ma il tutto è pervaso da un senso di morte, di senilità, che Gilliam esprime attraverso una smaccata teatralità della rappresentazione (maschere, fondali, danze, effetti elementari, cgi scopertamente falsa come ad esempio nella ricostruzione del sangue o del fuoco). Toby va donchisciottescamente alla ricerca del suo cinema, di un mondo ormai ridotto a cartapesta: i giganti alla 7th Voyage of Sinbad, un senso parossistico dell’azione tipico del muto, il fantastico alla Melies, le donne fatali e le creature angelicate. Gilliam/Toby si ostina ad inseguire il rimpianto di un “reale oltre il reale” e resta inceppato nelle meccaniche del sogno.
C’è qualcosa di sgangherato in Toby, nel suo mondo felliniano alla Sceicco Bianco; Gilliam ne fa affettuosamente il suo alter ego, e firma un testamento elegiaco ed obsoleto: L’Uomo che uccise Don Chisciotte non è destinato ad attraversare il tempo, ma a farsi polvere, come oggetto troppo malato di nostalgia per poter interpretare il presente.