LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT di Gabriele Mainetti

jeeg1“Più riuscito è il cattivo, più riuscito è il film”, era il motto di Alfred Hitchcock; e difatti tra le ragioni che ci fanno guardare con entusiasmo a Lo chiamavano Jeeg Robot c’è innanzitutto Luca Marinelli, un cattivo che manda lo schermo in frantumi: esibizionista, perverso, crudele come un bambino; i suoi abiti glam, le canzoni della Oxa e della Bertè cantate con passione, improbabili colonne sonore di indicibili efferatezze, lo elevano sul podio dei villain indimenticabili. Il suo Zingaro è un folle, un malato, spinto da una cupa sete di grandezza e dal desiderio di elevarsi dalla mediocrità mortale. Ricorda, sotto molti aspetti, il Loki di Tom Hiddleston: dandy e immaturo, col terrore del ridicolo in cui però scivola inevitabilmente.

Marinelli incendia la scena ma non è l’unica fiamma di Lo chiamavano Jeeg Robot, un film che non ha paura di sporcarsi, di tentare carte estreme: il sangue (tanto), sottotrame nere, e una realtà di forte malinconia. Il film di Mainetti vira i topoi classici dei film di supereroi in un nero dall’identità tutta italiana: le borgate, la droga, la morte, il degrado come paesaggio urbano (che però si tinge di poesia, come nella splendida sequenza del luna park). In un simile contesto di sopraffazione e disprezzo della vita, il protagonista intravede nei superpoteri una possibilità di sopravvivenza: a Enzo non importa nulla della gente, e tutta la retorica del supereroe viene distrutta in quel Bancomat sradicato con una rabbia che è pura disperazione.
Sarà la forza dell’amore, incarnato da una donna/bambina folle e vulnerabile, un’Ofelia delle periferie, a “umanizzare” il supereroe: perchè il vero potere, paradossalmente, è tenere in vita la propria umanità massacrata.

Mainetti, assieme agli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti, realizza un film di genere che è puro piacere: la violenza non ha limiti, né il romaticismo; il male non ha redenzione, il senso di condanna sull’umanità pesa come i cieli d’asfalto di Tor Bella Monaca. E Roma è bella come una speranza, in un film che segna la sua ulteriore rinascita cinematografica.
Come in molti si sono affrettati a sottolineare, Lo chiamavano Jeeg Robot ha i suoi difetti: qualche passaggio debole, qualche scena che rivela gli evidenti limiti di budget. Ma il film ha amore, sincerità, e un’energia che conquistano. Paga i suoi omaggi, in particolare, allo Spiderman di Sam Raimi (la scoperta del corpo in trasformazione, il costume fatto in casa, la scena dell’autobus con il protagonista senza maschera), ma immerge queste suggestioni in una nuova anarchia, in personaggi coloriti e inediti, spingendo verso derive talora violente talora comiche.
In un panorama cinematografico come il nostro, fatto di un passato trascurato come un monumento in rovina, e di un presente indeciso tra commedia ipocrita e cinema “sociale”, Lo chiamavano Jeeg Robot è un germe ribelle, un invito a osservare il presente con lo sguardo innocente del cinema.

THE DANISH GIRL di Tom Hooper

liliUna crisi senza crisi in The Danish Girl: nel film di Hooper tutto è ordinato, contenuto, senza scosse. I passaggi sono lievi sulle emozioni, ed il racconto episodico. E’ un film che non ha rabbia o dolore; gli appartengono un’infinita pazienza, e modulazioni che levigano l’anima invece di traumatizzarla.
La Lili di Eddie Redmayne è angelicata, quieta; i suoi primi turbamenti appaiono quasi per gioco, al tocco della seta, ed altrettanto divertita è la prima trasformazione. Einar diventa Lili, che è già perfetta, una luce di grazia, talmente indifesa e pura da rendere impossibile non amarla. Sopporta le conseguenze del suo essere soffrendo in silenzio, in una parabola di martirio che la vede assecondare l’ineluttabilità del destino.

C’è una passività in Lili, nonostante il coraggio e la perseveranza che la inducono a perseguire nella ricerca della propria identità sessuale: il personaggio di Redmayne ha una vulnerabilità e delicatezza infantili, possiede l’incoscienza innocente dei bambini. Lili parla poco, si esprime con la meraviglia del volto e con lo stupore di un corpo che si scopre per la prima volta. Il film ha scene molto belle, come la presa di coscienza di fronte allo specchio, o più ancora la sequenza del peep show, che vede Redmayne cercarsi in un riflesso femminile.
C’è molto pudore in The Danish Girl, e molta educazione. Tanta appropriatezza priva il film della sua forza, e riduce Lili e sua moglie a due figurine d’epoca osservate attraverso il filtro del passato. Qualcosa che si può osservare ma non si può toccare; una Lanterna Magica (si noti l’uso che fa Hooper del fisheye) che affascina con distanti illusioni. In The Danish Girl manca la vita vera, i sentimenti brutali che la condizione di Lili obbligatoriamente portano alla luce; manca la violenza, il dolore, manca la gioia che fanno sobbalzare tutto l’essere.
Il personaggio della moglie Gerta, una sensibile Alicia Vikander, è il vero corpo estraneo alla compostezza del film: appassionata, contraddittoria, sofferente, apre molte crepe nello splendore della messa in scena, ma non è sufficiente a far erompere il disordine. Peccato poi per Mathias Schoenaerts, ormai usato serialmente in ruoli di valletto.

La vera Lili, in una lettera, scrisse: “Io sono vitale, e ho diritto alla vita, e l’ho provato vivendo”. In The Danish Girl non percepiamo mai questa emozione, così come non riusciamo a sentire i pensieri della protagonista; ella agisce, sorride, si rattrista. Tutto ciò che si svolge ai nostri occhi è una elegante sequenza di azioni. Resta un senso di frustrazione nello sguardo dello spettatore, che non riesce mai ad accedere ad un film/sistema chiuso, curato e impenetrabile. The Danish Girl non è insincero, ma è troppo preoccupato di non turbare le platee con la crudeltà della verità.

PERFETTI SCONOSCIUTI di Paolo Genovese

perfettiIl trionfo al botteghino di Perfetti Sconosciuti ci mostra come a volte un “piccolo” film possa essere importante. Il regista Paolo Genovese è riuscito nell’intento di realizzare un film commerciale che non sia afflitto dalla piaga principale di tanto cinema italiano: la sciatteria. In Italia si producono ogni anno dozzine di film-fotocopia, privi di qualsiasi elementare grammatica-cinema e sostenuti da sceneggiature imbarazzanti; prodotti volgari (non solo nei contenuti ma soprattutto nella forma) che hanno affossato la qualità e che riciclano serialmente trame, dialoghi, riducendo gli interpreti a bestiame.
Genovese decide di partire dal basso – ovvero da un cinema popolare, rivolto al grande pubblico – per attuare la sua piccola rivoluzione: una rivoluzione che registi come Sorrentino. Guadagnino, Garrone stanno già portando avanti da anni, a fasi alterne, ai “piani alti”. Come loro, Genovese comprende che il cambiamento va effettuato a partire dalla forma. E se per i registi citati questo lavoro coincide con una ricerca estetica mossa da un impulso artistico, per Genovese si tratta semplicemente di ridare dignità al film popolare, iniziando dal linguaggio.

Perfetti Sconosciuti sceglie una struttura apparentemente semplice qual è il “film da camera” con unità di tempo, luogo e azione. In questo spazio (subdolo), Genovese dimostra di trovarsi a suo agio: l’essenzialità mette in risalto la storia ed il disegno dei caratteri. Il soggiorno, la tavola, la contiguità tra i commensali, diventano gli elementi di un soffocamento in cui la trama ipocrita dei rapporti emerge con violenza: la falsità come pilastro sociale, da non scalfire per non far crollare il sistema in cui ogni personaggio è inserito.
Genovese usa la macchina da presa per segmentare, isolare, circoscrivere i suoi protagonisti: adiacenti all’amico o al compagno, fianco a fianco, in auto o in una camera. L’amore, la coppia, i rapporti si rivelano forme di controllo e Genovese non manca di mostrarci i suoi piccoli nuclei sociali all’interno di “cornici” (create da porte, finestre): gabbie in cui agitarsi e sopravvivere, più o meno vilmente. Ne emerge un’umanità meschina, un retaggio borghese da cui non si sfugge, e una verità di impulsi espressa nei tradimenti (sessuali, affettivi).
La bravura di Genovese sta nell’affidarsi alle immagini – di cui il dialogo è spesso solo un contrappunto – per operare il graduale smascheramento dei protagonisti, fino a rivelarne l’essenza di “sconosciuti” e “soli”. Il film si snoda attraverso un montaggio dai tempi perfetti che accresce la tensione e i conflitti: il naturalismo iniziale lascia il posto ad una accelerazione che esprime la crisi ormai innescata. Peccato per il finale “alternativo”: un epilogo da racconto morale che appesantisce la struttura del film, compiuta ed essenziale fino al prefinale. Bravi gli attori, perfetta la Rohrwacher: il suo personaggio è il più vero e avvincente, ed emoziona il rossetto rosso con cui abbandona per sempre l'”abito” dell’ingenua.

ZOOLANDER 2 di Ben Stiller

zoolanderAppartengo alla cerchia, probabilmente esigua, di coloro che considerano i due Zoolander come l’espressione della vena migliore di Ben Stiller, e infinitamente più interessanti di I sogni segreti di Walter Mitty, il suo tentativo di cinema più misurato e “profondo”.
Con il primo Zoolander, Stiller ha inventato una mitologia irresistibile: un campionario di personaggi eccessivi e caricaturali, totalmente inseriti in un mondo dotato di leggi proprie in cui la cretineria è la regola. Proprio nell’autonomia di questo mondo risiede il fascino di Zoolander: Ben Stiller ha messo in scena una dimensione parallela in cui ritrovare, deformi, gonfiati, grotteschi, i tratti della nostra società; un microcosmo in cui il gesto più sciocco, la frase più scriteriata hanno un senso riconosciuto da tutti: la normalità dell’idiozia. Ovviamente, dietro tanta superficialità c’è una messa a nudo impietosa, scarnificante, della demenza del nostro presente alla deriva. Al regista comunque non interessa una presa di posizione seria; vuole divertire e divertirsi, e non c’è dubbio che anche in Zoolander 2 l’impressionante numero di celebrità (attori, stilisti, cantanti) sembri spassarsela.

Meno riuscito del primo episodio, cui giovavano la freschezza e linearità di trama, Zoolander 2 è appesantito da una sceneggiatura virata all’action, che snatura in parte la sublime banalità dei due protagonisti. Eppure è un film che, tra sovraccarichi di colpi di scena, invenzioni stanche ed un ritmo troppo accelerato (quasi insostenibile nella seconda parte) offre ancora qualche fotografia brillante della spazzatura della nostra epoca.
Tra le cose notevoli: una Roma notturna percorsa in motocicletta (come Fulci aveva fatto ne I Guerrieri dell’anno 2072); la surreale apparizione della “famiglia” di Hansel, che in modo ilare fa a pezzi qualsiasi convenzione; la pubblicità Aqua Vitae (stupida quasi quanto le reali pubblicità di profumi); ma soprattutto un sensazionale Benedict Cumberbatch che da solo vale il prezzo del biglietto. La sua esibizione nei panni del transessuale Tutto è fantastica e si imprime nella retina; ed il fatto che in USA i movimenti transgender abbiano lanciato una petizione per denunciare la presunta “transfobia” del film la dice lunga sulla tristezza del politically correct: l’autoironia è morta, e con essa l’abbandono ad un godimento puramente umoristico.
Stupisce che una simile petizione non sia stata sollevata anche dagli spettatori sovrappeso, dal momento che i due modelli Derek e Hansel, in una delle scene più divertenti del film, sono rosi dal dubbio che i “ciccioni” siano anche “brutte persone”.
Simili iperboli non possono essere prese sul serio, ma godute in un luna-park di eccessi cafoni, in cui ridere della nostra ottusità in aumento esponenziale.

LA PAURA MANGIA L’ANIMA di Rainer Werner Fassbinder (1973)

Nel 1955, Douglas Sirk, emigrato a Hollywood con tutto il bagaglio di pessimismo romantico tipico degli autori di estrazione germanica (Lang, Wilder per citare i più famosi), realizzava Secondo Amore. Un film sublime, sull’impossibile amore tra una vedova benestante (Jane Wyman) ed il suo giovanissimo giardiniere (Rock Hudson) nell’america puritana e benpensante dell’epoca.
Fassbinder amava molto Sirk e soprattutto questo film. Ne amava la disperazione, il sentimento originario e istintivo che lo guidava; ne amava la malinconia, il pudore gentile dei protagonisti, il loro muoversi leggeri e incolpevoli nella vergogna e nella condanna generali, da parte di una società che non tollerava comportamenti “diversi”.

18 anni dopo, il regista ricrea l’incantesimo bizzarro e la purezza di quel film con il suo Angst essen Seele auf (La Paura mangia l’anima); spariscono, però, i sobborghi di lusso del New England, i giardini ben curati, l’eleganza iperrealista tipica della regia di Sirk. La paura mangia l’anima è un film immerso in realtà tristi e squallide, mura scrostate, edifici grigi e modesti; ed i protagonisti incarnano un nuovo ideale di vergogna sociale: la donna sessantenne, non bella e dimessa, ed il giovane immigrato.

Ciò che più colpisce della mano di Fassbinder è la sua capacità di comunicare l’amore in un contesto che appare danneggiato ed incurabile; il sentimento, puro ed ingenuo dei protagonisti, riveste di grazia il loro vissuto. La loro relazione è oggetto di scherno, di insulti, tanto da ridurre la coppia ad uno stato di miseria ed emarginazione sociale; ma questo amore che fa battere il cuore al film è reale e palpabile come i colori rossi, verdi, blu accesi che ogni tanto squarciano l’azzurro mesto della pellicola.

La paura mangia l’anima è un film straziante e crepuscolare, composto ed eroico, fatto di emozioni limpide e intatte in una realtà incapace di sognare o tollerare chi aspira a volare sulle miserie umane.
Forse il film più dolce e romantico di Fassbinder, è allo stesso tempo quello in cui sentimenti sono rivelati nel loro valore immediato e quasi archetipico; un viaggio sentimentale in una realtà violenta, aggressiva e livida pronta ad assassinare la delicatezza di un affetto innocente. Amare è un mestiere per sopravvissuti.

L’ULTIMA PAROLA – LA VERA STORIA DI DALTON TRUMBO di Jay Roach

trumboOgni tanto Hollywood si misura con la vita di persone eccezionali per riportarla a dimensioni ordinarie. E’ successo con Hitchcock, il biopic sul maestro del brivido, risultato in un film fiacco e deprimente, in cui il regista ne usciva dimezzato; ed accade di nuovo con L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, film che ripercorre gli anni del maccartismo e della caccia alle streghe, che videro il celebre sceneggiatore (dalla rovente personalità) tra le vittime illustri. Ma L’ultima parola è una pallida riduzione sia della complessità del periodo, di cui schematizza gli eventi storici in forme elementari, sia dell’uomo Trumbo, di cui offre non un ritratto ma una tipizzazione. Dalton Trumbo, così come ci appare, è una maschera: il bocchino, le sopracciglia, lo sguardo pensoso. Dalla sua bocca non escono mai frasi naturali, realistiche, ma una sorta di declamazione di pessime righe di sceneggiatura. Cranston, che pure ha ricevuto una candidatura all’Oscar per questo ruolo, si arrocca sul personaggio: lo vediamo sempre recitare.
Vi è un eccesso di performance – nell’andatura, nel modo di corrugare il volto, nell’enfasi con cui aspira grandi boccate di fumo o pesta i tasti della macchina da scrivere – per cui il suo Trumbo non è un essere umano, ma un luogo comune (esattamente come era accaduto all’Hitchcock di Anthony Hopkins).

Prove attoriali di questo genere hanno un’allure di sensazionalità, ma sono travestimenti, non immedesimazioni. Non va meglio per quanto riguarda i coprotagonisti: Michael Stuhlbarg, nei panni di Edward G. Robinson, è teatrale e imbalsamato nel make-up; peggio ancora David James Elliott nei panni di John Wayne, tra le cose più deplorevoli del film. Wayne è ridotto ad un allocco muscoloso e poco pensante, e spiace che le vecchie glorie hollywoodiane siano sottoposte a tanta stereotipizzazione. Helen Mirren, classico esempio di typecast per questo genere di ruoli, è una Hedda Hopper prevedibilmente velenosa. Unica eccezione il bravissimo, e lui sì credibile, Louis C.K.

Jay Roach, chiamato a dirigere, è un regista schematico; ha a che fare con una sceneggiatura debole e fortemente didascalica, di cui finisce persino con l’amplificare i punti vulnerabili. La sua regia è puramente consequenziale, il suo linguaggio elementare e televisivo. Tra l’altro Roach non è un buon direttore di attori, e le varie scene, che non si amalgamano mai, contengono al loro interno singole prove che sembrano non interagire, quasi gli interpreti fossero stati giustapposti in fase di post-produzione.

Infine, è pazzesco che con tutta la tecnologia ed i professionisti di cui Hollywood dispone, compaia una ricostruzione di cinema noir così scadente, come avviene nelle sequenze iniziali: la luce, le ombre, la recitazione sono completamente sbagliate. Purtroppo le parti più interessanti di L’ultima parola, che banalizza un’epoca profondamente complessa e chiaroscurale offrendo coordinate nette e semplicistiche, finiscono con l’essere i pochi film di repertorio utilizzati.
Parafrasando Norma Desmond, il vero Trumbo è stato grande, e altrettanto grandiosa (ma anche malata, tormentata) la sua Hollywood; è il cinema che è diventato piccolo.

JOY di David O. Russell

joyCosa ci fa, tra un sopravvissuto, un redivivo, tra superuomini e supereroi del cinema americano, il film di David O. Russell? In un momento in cui tutto a Hollywood è eccezionale (con l’aspirazione ad infrangere le barriere dei limiti umani, in una celebrazione, che è anche politica, di machismo e superomismo americani), il regista torna all’immensamente piccolo e trascurabile. Torna ad una casa tra tante, dietro ad uno steccato bianco; torna alla provincia, ad un microcosmo di esistenze banali, e punta la sua macchina da presa su una donna. La storia della sua protagonista non ha nulla di epico e immaginifico; anzi, è un materiale prosaico, è un cinema che si immerge nell’ordinarietà. Eppure, da questa vicenda di una giovane imprenditrice ribelle, cui si deve l’invenzione del Miracle Mop (ovvero il mocio casalingo) David O. Russell trae un film pieno di invenzione e suggestioni cinematografiche; mescola stili, materiali, e ritrova una vena onirica e grottesca già presente in opere “divergenti” come I heart Huckabees, ma senza asperità ed eccessi.

In fondo, David O. Russell insegue da anni lo stesso film: c’è una “storia”, nel suo immaginario, che va portata alla luce; e film come The Fighter, Il Lato Positivo, Joy, continuano a raccontarla da differenti prospettive: quasi un cubismo che fa apparire lo stesso materiale d’ispirazione ogni volta in forme differenti. Si tratta della storia universale che vede il singolo nel suo rapporto con la famiglia; e di come il singolo si elevi, nonostante la prigionia familiare (una gabbia sociale di cui però Russell non può fare a meno di subire la dolcezza) per affermare se stesso e riconciliarsi all’interno della sua cellula sociale.

Joy è un film coraggioso per molti motivi: la protagonista, Joy Mangano, è trasfigurata in un personaggio da favola, una sorta di Cenerentola moderna (e non mancano la sorellastra e la matrigna) ma senza il conforto di un riscatto romantico. E’ un film “senza amore”, in cui la ragazza si salva da sé, e solo un pazzo idealista come Russell poteva mettere insieme Jennifer Lawrence e Bradley Cooper senza farli innamorare. Inoltre, Joy è un film che porta alla luce lo strettissimo rapporto, tutto americano, tra vita e televisione: la vita di Joy non è differente dalla soap che sua madre guarda quasi in stato ipnotico, confondendo fantasia e realtà. Joy stessa sogna secondo modelli televisivi. Ed il fallimento, in Joy, è un pessimo commercial.

Allo stesso tempo, Russell ama ogni forma di deviazione che possa intravedere tra le pieghe del suo reale soapizzato, e questo fa di lui un regista non comune: tra le cose più significative del film vi è il rapporto della madre di Joy (una meravigliosa, abbandonata Virginia Madsen) con il suo giovane idraulico di colore, che la salva dall’incantenamento televisivo. Questo momento è puro Douglas Sirk, All That Heaven Allows.
Inoltre, Russell esplora le deviazioni attraverso una particolare composizione spaziale: nelle prime scene, scendiamo, con uno dei suoi tipici, labirintici movimenti di macchina, nel piano sottostante della casa: una discesa che è anche surreale e simbolica. Lì, vediamo l’ex marito della ragazza, intento a cantare spensieratamente. Con poche immagini, Russell spiega la bellezza e l’anomalia del rapporto tra i due.
Russell riesce sempre a fare cinema-emozione, anche in un film come Joy che è più debole, più vulnerabile delle sue opere precedenti. E’ un regista che ama la gente invece di disprezzarla; e ogni movimento di macchina, ogni composizione d’immagine, ogni primo piano parla di questo amore.

THE HATEFUL EIGHT di Quentin Tarantino

hatefulDopo sette film, Tarantino presenta la sua opera più radicale. Con The Hateful Eight il regista americano realizza il progetto più personale, un film scomodo che vive ai margini sia dell’industria, che dei gusti dello spettatore medio. The Hateful Eight fa letteralmente a meno dello spettatore, e si pone contro il cinema contemporaneo: la struttura dell’opera, irregolare e spesso incoerente, crea le proprie regole e incrocia spettri (non solo) cinematografici arbitrari ed affascinanti.
In un certo senso, è un film-fantasma in quanto si nutre di un “già morto”: l’aura fantasmatica è presente e palpabile, a partire dal supporto – questa pellicola sporca di segni, calda e vissuta, che per Tarantino è l’essenza stessa del cinema. Già morti sono i personaggi, morto è il paesaggio, i cavalli, la neve. La diligenza, che appare piccola e lontana, è la carrozza ectoplasmatica di Sjöström.
Quello che Tarantino mette in scena è un ricordo, o meglio il film dei ricordi: e per il passato occorre uno spazio grandioso. Per slargare la memoria occorrono 70 mm, e non importa se poi questo scavo continuo del passato finisca con l’esercitarsi in un interno limitato: l’emporio di Minnie è un’estensione orizzontale cui Tarantino dà una profondità tridimensionale, con un’accuratezza che ricorda il Wyler di The best years of our life.

Altrettanto significativo del trattamento che egli fa dello spazio, è sicuramente quello che egli fa del tempo: contro qualsiasi convenzione contemporanea, che tritura sia la durata dell’azione che l’attenzione dello spettatore, proiettando il tempo in una accelerazione schizofrenica (che depotenzia i sensi), Tarantino dilata la durata. In The Hateful Eight è come se l’unità temporale fosse raddoppiata nel suo valore: il regista estende il tempo, lo espande. Infine, oltre all’azione presente all’interno dell’immagine, ne crea altre servendosi della parola. I dialoghi di The Hateful Eight creano quasi un film ulteriore che va a sovrapporsi a quanto già vediamo: Tarantino, nella sua ambizione, moltiplica il film cui assistiamo.

Tra i film cui più curiosamente assomiglia c’è sicuramente Bus Stop (1956) di Joshua Logan: non solo per alcune similarità di trama (in Bus Stop è un autobus a fermarsi a causa della tormenta di neve, costringendo i personaggi all’interno dell’isolato diner di Grace), ma soprattutto per l’uso “interno” del Cinemascope e per le mutazioni (quasi fosse una modulazione della luce) da commedia a dramma, da piece teatrale a film sperimentale, in cui la figura umana occupa lo spazio in forme simboliche. Si pensi a Daisy Domergue, l’unico personaggio femminile di The Hateful Eight, che in una rapidissima inquadratura appare addirittura come un angelo alato: un’immagine crudele, deviata e bellissima, che dovrebbe anche servire per tutti quei detrattori che hanno parlato di “maschilismo” del film. Un’assurdità, dal momento che Daisy è l’unica a piangere, e anche l’unica a suonare una canzone struggente.

Un film imperfetto, The Hateful Eight, dall’energia sia comica che disturbante, e in cui confluiscono, in una contaminazione che ha del profano, la drammaticità di Kazan, lo slapstick di Frank Tashlin, il sovrannaturale di Carpenter, lo splatter di Peter Jackson, la violenza di Peckinpah ma anche dei Looney Tunes. Imperfetto in quanto non compiuto, come accadeva nell’epoca del muto con i film di Stroheim, artista totale e anticonvenzionale, la cui visione era troppo grande per il proprio tempo. Tarantino non ha la statura e l’originalità artistica di Stroheim, ma ha la sua caparbietà: come lui, è un uomo-cinema.