FOGLIE AL VENTO di Aki Kaurismäki

I miei film possono sembrare tutti uguali, ma io cerco di creare qualcosa di nuovo ogni volta: come fa il pittore che dipinge la stessa rosa, sempre la stessa, e ogni volta arricchisce la propria visione.” Come Ozu, che rilasciò questa dichiarazione a proposito del suo cinema, Kaurismäki ferma i suoi “universali” nell’incessante trasformazione delle cose. La sua filmografia ci consegna un universo dai tratti definiti e un sistema di relazioni governate da silenzi, intensità, emozioni trattenute e un profondo, sotterraneo romanticismo. In Foglie al vento lo spettatore ritrova, come in sogno, uno spazio perduto e familiare: ci sono ancora i bar, le stanze spoglie, le panchine fredde e circondate dagli alberi autunnali. E ci sono personaggi dai volti conosciuti, su cui cade la luce della Grazia – ma anche il raggio del proiettore di una sala cinematografica, a magnificare il “breve incontro” che cambia una vita.

Foglie al vento è un ritorno: ai proletari dagli occhi velati di tristezza, alle sigarette, all’alcol in cui dimenticare la propria condizione; e alle figure femminili colme di dignità, piegate dallo sfruttamento eppure luminose e irriducibili. In più di una scena Ansa mi ha ricordato Takamine Hideko nei film di Naruse, silenziosa e consumata dal lavoro, ma con lo sguardo rivolto al futuro. I viaggi in bus o in treno di Ansa sono gli stessi di tante eroine pensose del cinema giapponese classico: su tutte, la Reiko di Yearning (1964).
Kaurismäki racconta “la stessa storia” così come Shakespeare, in un sonetto, “sempre dice ciò che è stato detto”. I suoi personaggi cercano amore o una seconda possibilità, un’alternativa alle “nuvole” dell’esistenza, a quei supermercati alienanti o fabbriche in cui la polvere inghiotte gli esseri umani e le loro fatiche. In particolare, la fabbrica di Foglie al vento – con i suoi ganci minacciosi, presenze inquietanti che incombono sull’anonimato della manovalanza – viene introdotta da alcuni “pillow shots” (inquadrature di transizione) di silos e cisterne, esplicito omaggio a quel “cinema delle baracche” tanto caro a Ozu.

Su tutto ciò il regista stende il suo sguardo fatto d’amore e compassione profonda. Le mani si sfiorano, i corpi, pur impacciati, cercano un contatto. Chi ritiene che Kaurismäki sia freddo o, come mi è capitato di leggere, “poco empatico”, si è mantenuto ben distante dalle scie d’amore che attraversano i suoi film: i sentimenti scorrono e lasciano un segno di malinconia, come il bellissimo movimento di macchina che allontana Ansa da Holappa, lasciandola svanire.
Kaurismaki compone le sue inquadrature in modo meticoloso: interni scarni, un divano, un letto, una lampada dalla luce fioca e una radio d’altri tempi. In questa composizione così devota al cinema di Ozu (ma anche a Sirk, come dimostra la finestra rubata a Secondo amore, 1955), i personaggi si pongono ai margini, cose tra le cose, mentre il colore ne esalta la purezza dei sentimenti. C’è uno studio profondo di blu, rossi, gialli: ogni cromatismo è una nota emotiva. La musica, spesso diegetica, si sostituisce ai dialoghi e diviene discorso interiore.

Questa stilizzazione sublima l’avventura esistenziale e trasforma ogni più umile protagonista in “eroe” del proprio transitorio quotidiano: i destini si incrociano (e non di rado i personaggi si muovono all’unisono), i corpi fragili si feriscono (in ogni film del regista troviamo bende, lividi, sangue) e il cuore si affida all’amore di un cane. Nel cinema di Kaurismäki i cani hanno la stessa dignità degli altri personaggi, e lo dimostra il fatto che siano oggetto della medesima tecnica fotografica (del fedele Timo Salminen): la luce li colpisce da un lato, lasciandoli parzialmente in ombra, ma vi è una sorta di “aura” a circondarli, segno di laica santità. Del resto, anche il cinema di Chaplin è fatto di umanissimi angeli, smarriti tra le macerie della terra.

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