Ne “La camera chiara”, Roland Barthes definisce la fotografia “contingenza pura”: immagine viva di una cosa morta. I fotografi, dunque, non sono che “Agenti della Morte”. Ho pensato a questi concetti mentre guardavo Un piccione seduto su un ramo: una sequenza di inquadrature fisse, al cui interno si muovono personaggi “già morti”: cadaverici, sfatti, ombre in un contesto completamente ricostruito. Andersson rifiuta l’idea di cinema come movimento, perchè l’umanità è già prigioniera della sua morte. L’amore, il potere, il male, la sopraffazione, perdono qualunque pathos mentre la morte è al lavoro. Tutto è ripetizione: geometrica, stilizzata, asciutta. L’esistenza è un’illusione misera: costellata di baci senza amore – che pure emozionano – e bicchieri d’alcol in cui sprofondare la memoria. Non c’è il tempo nel film di Andersson: presente e passato coesistono, senza dramma o trasformazione: solo poche domande ossessive, l’automatismo del vivere, e la piccola ribellione di chi vuole sfuggire alla gabbia del quotidiano: “’E’ mercoledì? Eppure lo sentivo come un giovedì”.
Archivio mensile:febbraio 2015
BIRDMAN di Alejandro González Iñárritu
Guardando Birdman ho pensato come spesso ci voglia un autore non americano per comprendere fino in fondo la natura di Hollywood e dell’America – dal suo spirito alla sua psicologia. Se Billy Wilder scarnificava la nascita e la morte del divismo, ed il mutamento crudele e funebre della macchina-cinema hollywoodiana, servendosi dei suoi stessi codici (osservati con malinconia non solo in Viale del Tramonto, ma soprattutto in Fedora), adesso Iñárritu si insinua negli stretti spazi del teatro, con una Handycam invasiva, alla ricerca del corpo e della mente dell’attore. Micheal Keaton, consumato tra ambizione e umanità, risponde al suo super-io Birdman esattamente come Willem Dafoe, in Spiderman di Sam Raimi, rispondeva alla presenza allucinata del suo Green Goblin. Una voce nel cervello, che elide la linea tra realtà e immaginazione. Ed è significativo che un film contro i supereroi adotti un procedimento che viene proprio da un esponente del genere – ma in fondo Iñárritu subisce il fascino del fantastico, dell’evasione che fa sognare le folle. Il suo virtuosismo cinematografico – questi piani sequenza fluidi, senza limiti di spazio, capaci di attraversare gli ostacoli – non sono che la manifestazione di un superpotere: desiderio, forse, di volare.
STILL ALICE di Richard Glatzer e Wash Westmoreland
Still Alice può avere una doppia lettura: quella di onesta, convenzionale biografia, priva di ambizioni artistiche e volta a produrre un messaggio sociale ed umano.
Ma Still Alice è anche un film pericoloso, che struttura un mondo in cui la malattia diventa il solo rifugio per la protagonista (del resto la Moore è talmente brava da riuscire a stratificare un personaggio cognitivamente alla deriva.). Una lettura, questa, che non credo fosse nell’intenzione degli autori; semplicemente uno “scarto” filmico, un effetto collaterale che mi è balzato agli occhi.
“Hai avuto una vita rimarchevole” – dice Alice a se stessa; “Una carriera eccezionale, un bel matrimonio, tre figli”. Alice, insegnante accademica, moglie, madre comprensiva, ottima cuoca; capace di scrivere un testo di linguistica tradotto in tutto il mondo ed al contempo cullare tre bambini. Obblighi sociali assolti con ferrea dedizione, dimenticando se stessa in un’illusione di vita. E forse ora, in quei vuoti di memoria, in quel ritorno all’infanzia (la spiaggia, il padre, i giochi) Alice sta recuperando il senso dell’essere. Ed il sorriso finale sembra il dolce smarrimento in una pace ritrovata: “love”.
GEMMA BOVERY DI ANNE FONTAINE
Gemma Bovery è il classico esempio di film che compiace il pubblico in cerca di un sottile piacere intellettuale; sottile quanto sterile e vacuo. Questa vicenda narrata con un doppio registro – quello dell’io narrante di Fabrice Luchini, e quello dell’io onnisciente della regista, entrambi invadenti – resta un divertissement con le leziosità tipiche del cinema francese contemporaneo. I due registri si sovrappongono senza mai armonizzarsi, ed il gioco letterario è talmente scoperto e dichiarato ad ogni inquadratura da non lasciare alcuno spazio allo spettatore pensante. Ci si ritrova con una struttura ingombrante che preordina materiale modesto. La Fontaine cerca di vivacizzare schemi già visti con una regia nervosa e moderna, ma il risultato è meramente illustrativo: un colorato bozzettismo. Luchini è imbarazzante nella sua fissità senile; la Arterton resta un soffio primaverile che non diventa mai vero personaggio.