COPIA ORIGINALE di Marielle Heller

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Can you ever forgive me
– titolo ben più colto del piatto Copia Originale – ci illumina su quelle che sono le debolezze del pur buon film di Marielle Heller: la frase racchiude lo humor audace di Dorothy Parker, la qualità tagliente, elegante e sintetica che Lee Israel era in grado di riprodurre, immergendosi nello spirito degli scrittori da lei falsificati.
Scritto da Nicole Holofcener e Jack Whitty, il film possiede dialoghi di rara arguzia, netti e sfrontati: eppure l’abilità di “imitatrice” di Lee, il narcisismo che la portava orgogliosamente a misurarsi con i grandi della letteratura americana, la spudoratezza con cui attribuiva loro missive dal contenuto improbabile vengono trattati in forma contestuale: ciò che manca al film è il cuore letterario, il pensiero di Lee.
Vediamo la Israel comprare macchine da scrivere, “cuocere” i fogli nel forno per invecchiarli; la guardiamo incollare una miriade di appunti, idee, promemoria al muro; ma il processo letterario imitativo, il suo rapporto con gli autori restano temi sfuggenti.

Can you ever forgive me preferisce concentrarsi sulla caratterialità di Lee e del suo “complice per caso” Jack, diventando un buddy movie tra due solitudini vivaci, profondamente umane ed erronee, ma colme di spirito. In questo, forse, il film si accontenta di un compromesso, evitando di studiare l’amore di Lee per la scrittura, lasciando fuori campo il faticoso processo creativo a favore dell’intenso vaudeville tra Lee e Jack. Lo scambio di battute è sfavillante, incorniciato da una New York perfettamente illustrata, ma pudicamente schivo di fronte all’intimità più complessa e profonda dei protagonisti.

Regista e sceneggiatori optano per una soluzione di medietà tra dramma e “azione”: il film ci mostra i due personaggi agire, non pensare; la Heller si concentra sui fatti, professionalmente orchestrati all’interno di tempi narrativi scanditi con grande abilità.
Si ha la sensazione che Can you ever forgive me ambisse a riprodurre lo stile e la leggerezza di Nora Ephron (che della vicenda è anche involontaria protagonista), ma il risultato è più simile ad un disimpegno da sitcom: purtroppo ciò è da imputare alla modesta regia della Heller, estremamente televisiva, “corretta” ma senza respiro cinematografico. L’uso sistematico della sfocatura dei piani per mettere le figure umane in risalto blocca le inquadrature in una ripetitiva monotonia, e la stessa New York non è che una stereotipata cartolina.

Melissa McCarthy e Richard E. Grant, di contro, sono attori di razza e riescono a scavare immensità pure in un piccolo film come questo: a loro si deve la forza emotiva, la modulazione lieve e taciuta dei sentimenti; se c’è uno sguardo all’anima di Lee e Jack è grazie ai loro volti, alle impercettibili malinconie, al buio che vediamo affiorare dai loro corpi espressivi. Perchè la bravura dei due interpreti è questa: recitare con tutto il corpo. La McCarthy trascina un’andatura pesante, emblematica del tracollo sotto un fardello emotivo e sociale che la donna è incapace di gestire. Grant è il dandy sofferto, la cui cerulea eleganza tradisce una velleitaria necessità di misericordia.

HIGH FLYING BIRD di Steven Soderbergh

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Steven Soderbergh è un autore prolifico e una mente-cinema inesauribile: è quello che i teorici della nouvelle vague avrebbero definito homme-cinéma, per il desiderio infinito di esplorare ogni variante dello sguardo e di mettere a fuoco le possibilità – estetiche, filosofiche – offerte dalle tecnologie. Un regista come lui, distante da pregiudizi, cui si deve l’opera televisiva più radicale e sperimentale degli ultimi anni (The Knick) non poteva non nutrire interesse per la particolare rappresentazione della realtà generata dall’Iphone: la sua brillante nitidezza, la pulizia tonale, la potenzialità grandangolare.

L’entusiasmo di Soderbergh è tale da averlo indotto a sfruttare le peculiarità della videocamera dell’Iphone in generi diversi: dapprima l’horror psicologico Unsane, in cui le possibilità deformanti diventano immagine espressionista, mentre il wide angle, sapientemente utilizzato negli angusti interni dell’ospedale psichiatrico, amplifica l’angoscia claustrofobica; successivamente in High Flying Bird, dramma sportivo in cui l’alterazione prospettica e gli effetti cromatico/luministici trasformano l’universo del protagonista in metropoli aliena; un’asetticità lucida in cui l’essere umano appare corpo estraneo, presenza in una dimensione metafisica.

L’immagine di High Flying Bird è astratta, rarefatta e fantascientifica: nelle riprese in esterni come in interni, Soderbergh compone l’inquadratura esaltandone gli aspetti matematici e di conseguenza la sua intrinseca solitudine. Ray Burke (il sempre notevole André Holland) è un personaggio estremamente sfaccettato, di cui il regista evidenzia il disincanto traducendolo nella sua disinvoltura all’interno dello spazio: Ray sa muoversi nella città aliena, tra i grattacieli dalle grandi superfici specchiate, o dall’alto di uffici le cui immense vetrate si affacciano su cieli azzurri e urbani; egli si colloca come una cosa tra le cose, forte di una consumata esperienza di vita.
Persino il corridoio di un hotel o l’interno di un treno assumono, attraverso lo sguardo di Soderbergh, una profondità vertiginosa; lo spettatore non può non provare un lieve stordimento, un’alterazione della percezione, voluta dal regista per magnificare il senso di sradicamento umano. Ray è un viaggiatore di questo spazio perturbante; ma così come altri personaggi-cardine (Myra, Sam), egli ci viene mostrato nelle sue fragilità, nelle celate malinconie.

High Flying Bird è un film metafisico in senso avanguardistico, un spazio galleggiante in una sospensione atemporale. Eppure Soderbergh non perde mai di vista nè il senso dello spettacolo né del racconto: il suo film è una presa diretta sul reale, oltre che sulla qualità della sua rappresentazione. Soderbergh è, in questo, un regista unico: con una visione consapevole di storia e discorso, di realtà e percezione, supera i confini del genere e fa di High Flying Bird una riflessione totale sul contemporaneo, dall’immagine allo spirito.

ALITA – ANGELO DELLA BATTAGLIA di Robert Rodriguez

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Non avendo che una conoscenza parziale del manga Battle Angel Alita (GUNMM) di Yukito Kishiro (una lacuna che conto di colmare), non mi è possibile mettere in rapporto l’opera d’origine con il film diretto da Rodriguez e prodotto da James Cameron. Ma un’analisi del film nella sua nudità ed indipendenza artistica mi induce purtroppo ad un giudizio di mediocrità. L’Alita ideata da Cameron è una figura spuria, sperduta in un universo privo di identità e coerenza interna.
A differenza del Ready Player One di Spielberg, film che rivendica una specificità autoriale “forte”, Alita – Angelo della Battaglia ambisce a costruire una propria essenza mitologica partendo da una giustapposizione di elementi eterogenei, uniti dal collante di una sofisticata tecnologia. Ma se il cuore del personaggio-Alita è un nucleo potente e immortale, che la ragazza, in un gesto eloquente, estrae dal petto per donarlo all’amato, il centro pulsante del film è debole ed incapace di tenere in vita la somma delle sue parti; anzi, ad Alita manca del tutto un demone interiore, la spinta propulsiva capace di schiudere un genere – il fantastico – che si nutre di un proprio epos.

Il fallimento di Alita si esplicita su un doppio livello: quello dell’immaginario, di cui il film è completamente privo, non riucendo a creare un mondo specifico dotato di regole e una propria antropologia culturale; e, di conseguenza, quello estetico: Alita non possiede uno stile riconoscibile proprio perchè non vi è sottesa una visione ideale e fantastica di cui il tratto stilistico si fa espressione. Si pensi, di contro, alla caratterizzazione di Pandora in Avatar e all’aspetto dei Na’vi: la loro azzurrata bellezza, l’esplosione di armonie naturali del pianeta erano il correlativo formale del mito messo in scena da Cameron.

I personaggi di Alita, le loro azioni, non corrispondono ad alcuna funzione profonda nell’ambito della struttura della fabula. Rapporti vengono allacciati in modo arbitrario; gli antagonisti hanno motivazioni deboli e confuse; l’eroina non vive un percorso esperienziale nella sua interezza ma la vediamo operare in un insieme di sequenze d’azione superficiali. Certo, la cura tecnologica della CGI è radicale: l’azione viene messa in scena stereoscopicamente attraverso scene estremamente rapide, fluide, piani-sequenza d’animazione vertiginosa, volti a creare una profondità pluridimensionale. Ma persino un film come il romantico Upside Down di Juan Solanas, che con Alita condivide l’idea di una separazione spaziale e sociale in alto/basso, aveva affrontato il concept visivo con un senso artistico ben più personale.
Rodriguez dirige in modo insolitamente anonimo e si riserva solo una scena in cui esprimere l’ironia metacinematografica che è il suo segno distintivo (la gustosissima scazzottata “western” nel bar). Alita procede per luoghi comuni e stereotipizzazioni, confidando su un’elezione digitale che da sola non basta a distrarre dalla povertà della leggenda.

LE NOSTRE BATTAGLIE di Guillaume Senez

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E’ “solo” un piccolo film, Le nostre Battaglie: con un titolo che è un manifesto, alla ricerca di un cinema “umano” – quello esplorato, con diverse sensibilità, da autori come i Dardenne, Joachim Lafosse, ma anche Loach – in grado di imitare la vita; un cinema che si serve di un linguaggio sofisticato, di un’accuratissima messa in scena per ricostruire un realismo attento ad ogni dettaglio, a volti e gesti, alla spontaneità dei dialoghi (anche l’improvvisazione necessita di un lungo lavoro preparatorio).

Il film di Guillaume Senez si mette al servizio di una realtà studiata e ricreata attraverso il cinema. Nulla è lasciato al caso: solo un grande lavoro d’amore, una perfetta padronanza di tecnica e linguaggio, una dedizione rispettosa dei sentimenti umani possono portare all’apparente semplicità di Le Nostre Battaglie, opera dotata d’una precisa forza autoriale. Luminoso, colmo di affetto, mai retorico, il film è un vero e proprio canto all’uomo; alla sua fragilità e alla capacità di risorgere persino nei momenti più bui.
Non c’è un solo frame di troppo in questa tesissima vicenda familiare. Olivier, stimato capo operaio sul cui corpo leggiamo la fatica del vivere (le linee del viso, la resistenza fisica, le mani screpolate, proletarie) si ritrova improvvisamente solo con due bambini. Abbandonato dalla giovane moglie, egli è costretto ad affrontare un vuoto, una perdita, e contemporaneamente a ritrovare il rapporto con i figli quanto con se stesso.

E’ un percorso magnifico, doloroso, spaventoso; si prova, da spettatori, quasi una gratitudine per l’accesso che ci viene dato al mondo intimo di Olivier; una messa a nudo di scoperte sentimentali ed esistenziali che l’eccezionale Duris affronta con una intensità che lascia il segno, fin quasi a ferirci. Avvertiamo il suo dolore, le prese di coscienza, le cadute; e il regista è bravissimo nel narrare la complessità delle giornate, scandendo tempi narrativi perfetti.
Senez ci immette in un flusso quotidiano talmente naturale che è quasi un miracolo. Tutto è rispettato: il pudore dei sentimenti, la sofferenza delle crisi, la bellezza dell’amore; tutto appartiene ad un “tempo” umanissimo che scorre davanti ai nostri occhi e ci rende partecipi della battaglia del protagonista: una battaglia che diventa “nostra”, come parte di un mondo perfettamente familiare.

Grande cinema umanista dunque, in cui Senez si rivela, pur con l’umiltà dell’artefice “invisibile”, un regista dotatissimo: si veda la composizione delle inquadrature nello spersonalizzante ufficio spedizioni, in cui la figura di Olivier appare comunque forte, dominante; o l’essenzialità dei campi/controcampi nelle scene più tese (come alla centrale di polizia), fino alla potenza struggente dell’ultima, semplice immagine che chiude il film. Una chiusa perfetta che ci ricorda la dolcezza dell’essere umani.

LA FAVORITA di Yorgos Lanthimos

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Dopo il cinema radicale, stilisticamente perfetto di The killing of a sacred deer – l’opera in cui Lanthimos sancisce con un assoluto rigore la meschinità dello spirito dell’uomo – il regista greco torna ad un cinema meno grave, più incline all’autoreferenzialità e ad una popolarizzazione dei motivi tematici e stilistici che lo hanno reso celebre. La Favorita è senza dubbio il suo film più accessibile e mainstream: una sorta di “Eva contro Eva alla corte d’Inghilterra” con un soggetto che Lanthimos piega e trasforma in una summa del suo grottesco espressionismo.

Le scelte linguistico/tecniche, che molto hanno fatto discutere, sono centrali ne La Favorita: il regista impernia l’opera su un uso/abuso di fish-eye e grandangoli, stabilendo da subito una distanza dal materiale narrato; la vicenda è raccontata da un “narratore” contemporaneo che osserva intrighi, viltà e sopraffazioni attraverso le deformazioni di uno sguardo che non può più aderire ai codici del dramma classico. Grande ammiratore della drammaturga britannica Sarah Kane, Lanthimos si è ispirato, per sua ammissione, all’opera teatrale Phaedra’s Love, rivisitazione del mito originario in forma di commedia violenta e controversa, messa in scena con un ruvido linguaggio moderno.
La Favorita attinge al medesimo gioco intertestuale e si inebria delle eccentricità della corte inglese del ‘700 osservandole attraverso un filtro intellettuale, critico e ludico, esplicitato dalle alterazioni del fish-eye, che funge da “buco della serratura” culturale e temporale. Questo significa che, per tutta la durata del film, assistiamo ad un racconto “mediato” dalla presenza del regista, costatemente in comunicazione col suo pubblico attraverso scherzi, anacronismi (la sequenza del ballo, i violenti corteggiamenti tra Abigail e Samuel), esasperazioni dialogiche, bizzarrie antropologiche; fino ai teatri dell’assurdo della gara delle oche o del tiro a segno con le melagrane.

Quello che sicuramente il pubblico più apprezza del film è la complicità intellettuale che il regista riesce a stabilire con il proprio spettatore, rendendolo partecipe (o facendoglielo credere) del proprio affilato, erudito humor. Ma La Favorita rischia di esaurirsi in uno sterile compiacimento cerebrale, in cui tutti i paradigmi del cinema di Lanthimos – l’anoressia sentimentale, il gioco di potere alla base delle relazioni umane, la sgradevolezza dei corpi, il ridicolo dell’atto sessuale, la manipolazione – sono enumerati in sequenze di smagliante fattura.

L’intensità drammatica de La Favorita si deve interamente ad Olivia Colman: una regina di toccante tragicità, la cui disperazione è leggibile nel volto, nei fremiti di insicurezza e infantilismo, negli occhi inabissati in un nero senza fine; la Colman dà vita a un personaggio reale e non mera figura farsesca: perennemente bloccata in una maschera, prigioniera delle parrucche, del trucco, dei dolorosi attacchi di gotta, usa il sesso come unica fuga dall’immobilizzazione fisica e psichica.
Lanthimos resta uno degli autori più dotati, capace di uno sguardo vivo e riconoscibile: ma La Favorita concede troppo al compromesso, accomodandosi come colto divertissement (amato dalla critica e dai giurati dell’Academy) ma privo di autentica forza sovversiva.

IL PRIMO RE di Matteo Rovere

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Matteo Rovere si fa carico dell’ingrato compito di liberare il cinema italiano da un canone granitico e asfissiante: Il Primo Re è un colpo di mazza chiodata ai paradigmi dell’intimismo, della famiglia, alle interminabili sedute al tavolo da pranzo (quasi un tavolo operatorio dei sentimenti), alla dissezione dei segreti e bugie che corrompono le relazioni.
Il regista rigetta l’autoanalisi, l’esibita presunzione di un cinema “interiore” e volge la sua attenzione alle superfici: i corpi, il sangue, gli elementi naturali primari e il loro effetto sulla fragile vita umana. L’obiettivo è il ritorno ad un cinema in grado di scavare nel primigenio: attraverso la nuda messa in scena del mito fondativo, Rovere cerca l’immagine primitiva, l’elettricità di pulsioni elementari; e lo fa con l’incoscienza dell’avventuriero, smanioso di ricreare la gloria del genere cercandone le ceneri appassite e infiammandole con ogni mezzo.

Così come Il Primo Re fonda la sua vicenda sul possesso elettivo del “fuoco”, Rovere brucia i tinelli borghesi e pone lo spettatore di fronte al paesaggio scabro, alla lotta dei guerrieri sporchi e avvinghiati, alla pietra che spacca il cranio. La violenza cui assistiamo nel film ha allo stesso tempo valore narrativo e simbolico – è la necessità, espressa in tutto il suo furore selvaggio, di riportare la visione allo stadio arcaico di purezza e semplicità emotiva, nella rappresentazione di sentimento e azione.
Oltre al (necessario) svuotamento contenutistico, il film ambisce ad un linguaggio onesto, non manipolatorio, semanticamente semplice: immagini come “segni” univoci, capaci di lasciare intatta l’evidenza del mito e di rispettare la nostra percezione.

E’ un percorso difficile e non sempre le aspirazioni di Rovere trovano la forma migliore: ad esempio, al film manca il senso della dimensione uomo/natura – il paesaggio è piatto, bidimensionale, nulla a che vedere coi panorami stratificati a più livelli di Valhalla Rising di Refn, l’archetipo cui Rovere fa riferimento; il regista inoltre sembra fallire nella rappresentazione del “movimento”, tanto fisico quanto esperienziale dei personaggi, statici all’interno di uno spazio approssimativo (la foresta, il villaggio) e della propria anima (soggetta a mutamenti arbitrari).
Ma restano le grandi pulsioni forti e silenziose, i muscoli guizzanti, le asce e le spade pronte a calare sui corpi per estrarne le viscere; mentre Daniele Ciprì fotografa tutto sfiorando la trascendenza, immortalando la tragedia umana in una densità atmosferica e luminosa che, da sola, è il segno di una irraggiungibile divinità.