Ci sono molti primi piani di Kristen Stewart in Café Society: il suo volto appare soffuso da un’aura luminosa, le linee sono leggermente sfocate, come se emergesse da un sogno. Proprio come il volto di Barbara Stanwyck, l’attrice preferita di Vonnie (il personaggio della Stewart), o Jean Harlow, splendenti attraverso il filtro velato tipico della golden age di Hollywood.
Café Society è il primo di film di Woody Allen girato in digitale, ma la transizione sembra avvenuta in modo dolce: anzi, il regista si serve delle possibilità che esso offre, soprattutto in termini di luce e definizione, utilizzandolo per esaltare la sua visione degli anni ’30 cinematografici, i veri protagonisti del suo film. Una decade che Allen ci mostra a colori – perchè il sogno e la memoria sono sempre a colori, mentre il presente (vedi Manhattan) è in bianco e nero.
Café Society è da molti punti di vista un film di fantasmi: produttori, stars, lo studio system, e una rivisitazione di generi classici (commedie screwball, gangster movies, musicals) che riprendono vita attraverso l’amore ed il ricordo. Un cinema frontale, dai codici linguistici rigidi e ben definiti, che Allen libera attraverso la memoria: i suoi anni ’30 si sciolgono in riprese ampie e circolari, inquadrature instabili e leggermente oblique, e un’attenzione luministica che si fa cifra stilistica (grazie all’apporto di Vittorio Storaro). Alla Los Angeles perennemente tagliata dalla luce solare, costretta ad una esposizione dorata che la delinea e definisce, si contrappone la New York dolce, dalle luci autunnali, dai toni che trascolorano nei grigi e nel conforto delle penombre notturne.
Café Society ci riporta alle storie d’amore malinconiche che hanno costellato l’immaginario alleniano, di ascendenza classica: passioni in cui lo scarto tra sogno e realtà diviene la ferita insanabile, la sofferenza che accompagna un’esistenza, e di cui l’essere umano sembra non poter fare a meno (si pensi alla Cecilia di The Purple Rose of Cairo).
In particolare, Allen sembra essersi ispirato a The Apartment di Billy Wilder: il Phil di Steve Carell ci ricorda lo Sheldrake di Fred MacMurray, e i suoi rendez-vous con la Stewart sono letteralmente modellati, per inquadrature e dialoghi, sugli incontri tra Sheldrake e Miss Kubelik. Anche la “lettera di Rodolfo Valentino” diventa un elemento di sceneggiatura del tutto riconducibile allo specchio rotto in The Apartment, ma in definitiva è l’anima del film ad essere wilderiana: per il senso di impossibilità amorosa che lo percorre, per il sentimento percepito come esaltazione e prostrazione.
Café Society ci viene raccontato attraverso la voce narrante di Woody Allen – una voce antica, passata, essa stessa portatrice di un romanticismo sofferente. E’ un Woody Allen che non riesce più a raggiungere il treno di Tracy (Manhattan), e che nonostante le passeggiate in carrozza a Central Park, e l’alba sull’East River, non può più credere alla forza salvifica dell’amore.
Allen è un regista straordinario e racconta la sua storia attraverso un linguaggio raffinatissimo, fatto di dettagli talora impercettibili, di sfumature appena accennate – composizioni significanti, o scivolamenti della mdp là dove il cuore trema. Nessuno come lui sa raccontare, in immagini, l’esaltazione sentimentale – fatta di spostamenti dello sguardo, di particolari quanto di aperture improvvise, o paesaggi in cui si specchia l’emozione soggettiva (e New York è la “stanza” prediletta da Allen per l’amore); il suo uso delle dissolvenze incrociate è commovente, il poter riunire in un’unica immagine due personaggi separati, lontani, che però “conservano” l’altro fino a sovrapporsi ad esso.
Eppure lo specifico di Café Society è anche la sua debolezza: ovvero la qualità fantasmatica, il ritorno di una percezione delle cose – cinematografica e personale – che si fa immagine già vista, memoria sognata ancora una volta, secondo una prospettiva leggermente differente ma sempre all’interno di uno spazio ormai noto. Si può rimproverare ad Allen di aver circoscritto un perimetro confortevole attorno alla propria autorialità; ma forse, a 80 anni, può permetterselo.