CAFÉ SOCIETY di Woody Allen

cafesocietyCi sono molti primi piani di Kristen Stewart in Café Society: il suo volto appare soffuso da un’aura luminosa, le linee sono leggermente sfocate, come se emergesse da un sogno. Proprio come il volto di Barbara Stanwyck, l’attrice preferita di Vonnie (il personaggio della Stewart), o Jean Harlow, splendenti attraverso il filtro velato tipico della golden age di Hollywood.
Café Society è il primo di film di Woody Allen girato in digitale, ma la transizione sembra avvenuta in modo dolce: anzi, il regista si serve delle possibilità che esso offre, soprattutto in termini di luce e definizione, utilizzandolo per esaltare la sua visione degli anni ’30 cinematografici, i veri protagonisti del suo film. Una decade che Allen ci mostra a colori – perchè il sogno e la memoria sono sempre a colori, mentre il presente (vedi Manhattan) è in bianco e nero.

Café Society è da molti punti di vista un film di fantasmi: produttori, stars, lo studio system, e una rivisitazione di generi classici (commedie screwball, gangster movies, musicals) che riprendono vita attraverso l’amore ed il ricordo. Un cinema frontale, dai codici linguistici rigidi e ben definiti, che Allen libera attraverso la memoria: i suoi anni ’30 si sciolgono in riprese ampie e circolari, inquadrature instabili e leggermente oblique, e un’attenzione luministica che si fa cifra stilistica (grazie all’apporto di Vittorio Storaro). Alla Los Angeles perennemente tagliata dalla luce solare, costretta ad una esposizione dorata che la delinea e definisce, si contrappone la New York dolce, dalle luci autunnali, dai toni che trascolorano nei grigi e nel conforto delle penombre notturne.

Café Society ci riporta alle storie d’amore malinconiche che hanno costellato l’immaginario alleniano, di ascendenza classica: passioni in cui lo scarto tra sogno e realtà diviene la ferita insanabile, la sofferenza che accompagna un’esistenza, e di cui l’essere umano sembra non poter fare a meno (si pensi alla Cecilia di The Purple Rose of Cairo).
In particolare, Allen sembra essersi ispirato a The Apartment di Billy Wilder: il Phil di Steve Carell ci ricorda lo Sheldrake di Fred MacMurray, e i suoi rendez-vous con la Stewart sono letteralmente modellati, per inquadrature e dialoghi, sugli incontri tra Sheldrake e Miss Kubelik. Anche la “lettera di Rodolfo Valentino” diventa un elemento di sceneggiatura del tutto riconducibile allo specchio rotto in The Apartment, ma in definitiva è l’anima del film ad essere wilderiana: per il senso di impossibilità amorosa che lo percorre, per il sentimento percepito come esaltazione e prostrazione.

Café Society ci viene raccontato attraverso la voce narrante di Woody Allen – una voce antica, passata, essa stessa portatrice di un romanticismo sofferente. E’ un Woody Allen che non riesce più a raggiungere il treno di Tracy (Manhattan), e che nonostante le passeggiate in carrozza a Central Park, e l’alba sull’East River, non può più credere alla forza salvifica dell’amore.
Allen è un regista straordinario e racconta la sua storia attraverso un linguaggio raffinatissimo, fatto di dettagli talora impercettibili, di sfumature appena accennate – composizioni significanti, o scivolamenti della mdp là dove il cuore trema. Nessuno come lui sa raccontare, in immagini, l’esaltazione sentimentale – fatta di spostamenti dello sguardo, di particolari quanto di aperture improvvise, o paesaggi in cui si specchia l’emozione soggettiva (e New York è la “stanza” prediletta da Allen per l’amore); il suo uso delle dissolvenze incrociate è commovente, il poter riunire in un’unica immagine due personaggi separati, lontani, che però “conservano” l’altro fino a sovrapporsi ad esso.

Eppure lo specifico di Café Society è anche la sua debolezza: ovvero la qualità fantasmatica, il ritorno di una percezione delle cose – cinematografica e personale – che si fa immagine già vista, memoria sognata ancora una volta, secondo una prospettiva leggermente differente ma sempre all’interno di uno spazio ormai noto. Si può rimproverare ad Allen di aver circoscritto un perimetro confortevole attorno alla propria autorialità; ma forse, a 80 anni, può permetterselo.

FRANTZ di François Ozon

frantzHo avuto la fortuna di vedere, anni fa, Broken Lullaby (1932), l’opera bellissima e dimenticata di Lubitsch che è il materiale d’ispirazione per Frantz; ed è un peccato che oggi sia così introvabile, perchè un raffronto tra i due film consente di comprendere fino in fondo quanto per Ozon la cinefilia sia la fiamma che accende un immaginario  –  ed un cinema – vivo e personale.
In Frantz il movimento indietro diviene libera reinterpretazione. Se Broken Lullaby era un film moderno e rigoroso, strutturalmente disciplinato per distillare emozioni insostenibili (la pulsione di morte, il trauma, la scoperta), Frantz si fa carico di queste emozioni liberandole in una forma nuova. Il  cinema di Ozon è, sotto molti aspetti, opposto a quello di Lubitsch: la sua gestione del tempo e dello spazio è più ondivaga, incontrollata. Lubitsch fondava il suo cinema su una perfetta costruzione per sottrazione, in cui la progressione si realizzava attraverso reticenze e allusioni, mentre Ozon sceglie di mostrare. La sua mdp ci porta dentro il “non visto” lubitschiano: ci apre la porta dei pensieri del protagonista Adrien, ce li visualizza dall’interno, in un sogno cromatico che contrasta con la brutalità in bianco e nero del reale.

Il colore, in Frantz, è il dato dell’irrealtà (secondo la tradizione hitchcockiana) e del sogno, irriducibili esperienze umane: Adrien si inventa un passato colorato in cui ricomporre i propri dissidi interiori. La speranza, l’illusione, un’altra realtà possibile in senso poetico lo salvano dal grigio della morte; ed è il suo legame con Anna a riaccendere il paesaggio in modo indistinto, impressionistico, come un risveglio dello spirito nei corpi disseccati dalla guerra.
Ozon ha il coraggio della sperimentazione: si serve delle possibilità del digitale come linguaggio, usandolo per esprimere una visione del mondo – se vogliamo anche ingenua – in cui l’effetto coloristico si fa segno umanistico. Ma è proprio l’innocenza del suo cinema a renderci particolarmente caro questo autore, fedele ai propri ideali ed immaginazioni senza temere il ridicolo (basti pensare alle ali di Ricky, o alle derive favolistiche di Una nuova amica).

Frantz è un affresco che affonda la propria anima in un senso novecentesco del racconto, capillare, interiorizzato, una messa in scena di un flusso di coscienza in cui i personaggi traducono soggettivamente il reale contaminandolo con l’illusione e la memoria; ed è allo stesso tempo l’opera contemporanea di un autore aperto a suggestioni artistiche differenti, pronto ad assorbirle nella propria sensibilità e appropriarsene.
Estraneo ad una fredda filologia, Frantz trasforma storia e ricordo in passione presente e prismatica, che moltiplica mondi attraverso percezioni contraddittorie delle cose. Ozon fa il cinema che vuole; il suo amore del passato lo ha reso libero.

DEMOLITION di Jean-Marc Vallée

demolitionUn film curioso, Demolition: in quanto irrimediabilmente datato. Già visto e superato, tanto è un prodotto che attinge al secolo scorso: non sul piano formale quanto su quello delle tematiche – più che cinematografiche, letterarie.
Demolition è la versione in immagini, e estremamente banalizzata, delle problematiche sull’identità, sull’io scisso, sull’emergere di una latenza inconscia che hanno contraddistinto il romanzo del ‘900.

Un evento improvviso determina lo scatenamento di un’urgenza identitaria fino a quel momento rimasta sul piano pulsionale, repressa ed indistinta: è questa la storia di Davis, impersonato diligentemente da Jake Gyllenhaal, ma senza l’elettricità di un’interpretazione in grado di celare, nasconde o rivelare. La trasformazione di Davis, i suoi pensieri, l’insoddisfazione, la maschera pirandelliana, il suo “uno, nessuno centomila” esploso sotto il peso di un evento drammatico, sono semplificati e offerti dal regista Jean-Marc Vallée in tutta la loro evidenza; e di certo la confessione diaristica, l’espediente epistolare non hanno risonanza densa e poetica (la lezione di un Proust o di uno Svevo sono lontanissime), ma sono semplici strumenti per rendere il pubblico partecipe – in modo chiaro, senza agitarlo troppo dalla comodità della poltrona – della rivolta interiore del suo protagonista.

Le lettere al customer service sono una forzatura di sceneggiatura e non una porta spalancata sull’inconscio, sulla potenza del ricordo o sugli alibi esistenziali che si incrinano. La crisi di Davis è una crisi ormai ben nota a lettori e spettatori, e Jean-Marc Vallée ce ne offre l’ennesima versione, con uno stile di ripresa indeciso tra l’immediatezza del vissuto e l’astrazione spirituale. Quella di Davis è la cronaca della “demolizione” del suo essere, su cui erigere una nuova libertà; Vallée sceglie la presa diretta del quotidiano, mobile, aerea, estremamente vitale, ma la spezza con intromissioni oniriche che offrono a chi guarda una semplice suggestione estetica, interrompendo il processo brutale e realistico di scarnificazione del personaggio. L’apparizione del “fantasma della moglie” è un’inutile simbologia, un ritorno del rimosso tra la colpa e la commozione.
Tutto è metafora, ma banalizzata, a partire dal titolo. Demolition è un film con velleità autoriali, ma troppo preoccupato che al suo pubblico giunga correttamente il messaggio.

THE BEATLES: EIGHT DAYS A WEEK di Ron Howard

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Ron Howard non è un documentarista; è “semplicemente” un regista, e tra i migliori del cinema americano. Eight Days a Week è profondamente differente, ad esempio, da Amy di Asif Kapadia: se Kapadia realizza un biopic in cui la figura della Winehouse è osservata dall’esterno, e ricostruita attraverso brandelli di materiale di repertorio, documenti e foto private che allestiscono senza pudore una deriva esistenziale, lo sguardo di Howard è sempre quello di chi narra una storia dal suo interno.

I Beatles del bellissimo Eight Days a Week non sono analizzati ma vissuti con un tuffo all’indietro che ci trasporta in un’altra era e un altro mondo. E’ uno sguardo non estraneo, quello di Howard, ma complice: la peculiarità del film è proprio la sua visione “vergine”, pura, priva di una lettura critica o del peso dell’interpretazione a posteriori. E’ un film innocente, volutamente incompleto e parziale, che narra quattro anni di vita dei Beatles riportando intatta tutta l’incandescenza del fenomeno, l’incapacità dei quattro di percepirla simultaneamente in tutta la sua immensità, l’entusiasmo con cui si gettarono, ignari, in una Storia che avrebbe cambiato il panorama musicale e segnato le dinamiche sociali.

Howard dispone di un incredibile tesoro di materiali: fotografie, riprese video e show televisivi, reportage di concerti e viaggi, registrazioni audio delle prove in studio, interviste. Un passato che il regista, col suo talento di narratore, riporta in vita: le fotografie sembrano animarsi; gli strumenti suonano un brano per la prima volta; e ascoltiamo le voci nel preciso istante in cui nasce un’idea, un confronto, o semplicemente uno scherzo.

Howard alterna i livelli temporali, incastrandoli con una sapienza tecnica e artistica che lascia sbalorditi. E’ nella complessità strutturale di Eight Days a Week che nasce il piacere assoluto della sua fruizione. I 95 minuti di documentario scorrono con la stessa rapidità che travolse il destino dei quattro: siamo trascinati dal più piccolo locale inglese alle 56.500 persone dello Shea Stadium in un crescendo di eventi talmente intenso da confondere la nostra percezione. Eppure Howard dirige senza mai perdere controllo sulle parti più infinitesimali del suo racconto, conservandone intatti l’emozione e lo stordimento.

Un singolo ogni tre mesi, un album ogni sei: non solo i Beatles riuscirono a rispettare questo schiacciante obbligo creativo contrattuale, realizzando un’infinità di capolavori, ma furono al centro di una immane, mostruosa macchina spettacolare che prevedeva concerti, spostamenti, interviste, spettacoli a ritmi disumani. Il tutto mentre il mondo diveniva teatro di un fanatismo esploso al di là di ogni immaginazione. L’amore per la musica dei Beatles, in un periodo di grazia miracolosa, sembrava annullare ogni frontiera, ogni diversità, ceto sociale, colore della pelle: l’umanità appariva stretta all’unisono, unita in una sola voce pronta a cantare le canzoni più belle del mondo.

Howard riesce soprattutto a mettere a nudo la purezza, l’entusiasmo giovanile, lo sguardo pulito di questi ragazzi pieni di talento e di verità: il loro sorriso sincero e colmo di meraviglia muta in amarezza quando “ciò che era nato come la cosa più semplice del mondo, divenne la più complicata”. I Beatles furono la musica; Howard ha l’amore, il rispetto e il desiderio necessari per trasformare la loro storia in cinema.

MAN IN THE DARK di Fede Alvarez

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Man in the Dark è in sé una piccola rivoluzione perchè rappresenta la resistenza di un altro modo di fare thriller/horror che non sia l’opprimente enciclopedismo di James Wan, ma nemmeno l’aristocratica autorialità di It Follows. Si tratta di un film allo stesso tempo “popolare” e raffinato, che riesuma un’idea archetipica, da cinema muto: si fonda infatti sull’assunto che l’azione debba progredire per immagini. E se questa sembra un’ovvietà, bisogna ricordare quanti registi oggi non sappiano più maneggiare lo spazio e il tempo, incapaci di narrare se non tramite la parola. Gran parte del cinema contemporaneo è pigra illustrazione a sostegno di dialoghi.

Alvarez restituisce supremazia all’immagine (ma anche al rumore in tutto il suo valore informativo/espressivo), e non solo: emancipa lo spettatore. Il suo cinema è disseminato di indizi che sta al pubblico cogliere e rielaborare. Rifiutando l’idea di film come “percorso guidato” in cui chi guarda è fruitore passivo, il regista pone lo spettatore al centro del suo labirinto narrativo e visivo: gli occhi della macchina da presa sono i suoi stessi occhi. Una macchina da presa, quella di Alvarez, che riscopre lo spazio in ogni senso: orizzontale, verticale, obliquo. La verticalità è profonda (tanto da osare la carrellata indietro/zoom di Vertigo), ma non solo come caduta nell’abisso: Alvarez ci porta anche con lo sguardo in alto, tra travi e soffitti.

Il suo Man in The Dark, che sceglie l’unità di tempo, luogo e azione, opera una vera e propria liberazione dello schermo: abbandona la comoda, piatta frontalità, e riscopre i margini, la parte alta, gli angoli. Ad Alvarez interessa sfruttare ogni parte del visibile per annidarvi la paura. I suoi 88 minuti non contengono alcuna immagine superflua e questo, nel cinema ipertrofico contemporaneo, è un atto rivoluzionario. Man in the Dark riscopre il cinema come linguaggio in senso puro: indietro, sino a Griffith (ci fa pensare a An Unseen Enemy, 1912), attraverso piani sequenza esplorativi, piani ravvicinati per isolare gli oggetti significanti, montaggi essenziali, di assoluta concentrazione narrativa.

Sam Raimi produce, e il suo spirito pionieristico sembra rinascere tra le pieghe del film: in certi punti, Man in The Dark replica le tecniche di Evil Dead, però senza quell’accelerazione che ne era il tratto distintivo, scomponendole in tutta la loro essenzialità linguistica. Man in the Dark dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che il cinema di genere è cinema puro.

LA FAMIGLIA FANG di Jason Bateman

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Ci sono film in cerca di un’identità non raggiunta, opere che restano in potenza e falliscono nella ricerca di una visione. Un film è sempre un viaggio, ma nel caso di La Famiglia Fang si ha l’impressione di non partire mai, di restare in attesa di fronte ad una serie di eventi che, per quanto il regista Bateman si affanni, rimangono statici, buttati di fronte al nostro sguardo e abbandonati tristemente. Una storia come quella dei Fang, con la sua peculiarità, il suo carattere schizofrenico riguardante le sfasature del rapporto genitori/figli, qui condotte a conseguenze violente e paradossali, aveva bisogno di un correlativo oggettivo stilistico: Bateman invece si serve di un linguaggio che non corrisponde mai alla materia narrata.

La Famiglia Fang è antitetico rispetto all’iconoclastia (seppur mediocre) dei suoi protagonisti. Allo sberleffo rozzo e contaminato dai dettami di una società televisiva, ai rovesciamenti del senso comune perseguiti dai genitori Fang (un ideale mai raggiunto, ma inseguito con fede tenace) Bateman oppone una narrazione di un devastante anonimato: non c’è immagine, nel film, che non sia funzionale. Se nella propria narcisistica follia i Fang esaltano il valore del gesto, folle e squilibrato, Bateman invece non conosce il valore dell’immagine per se stessa. Il suo fraintendimento cinematografico lo porta a realizzare un film in cui il linguaggio visivo non ha alcuna autonomia né bellezza intrinseca, ma vale solo se supportato da un discorso (l’invadente colonna dialogica).

E non solo: il regista crede di conferire al film un valore estetico inserendo brani finto-documentaristici allo scopo di movimentare la narrazione, renderla viva tramite un vezzo autoriale; ma non si accorge che così facendo si allontana ancora di più dai suoi protagonisti. La sua mdp non mette a fuoco i personaggi ma è soggetta a costanti distrazioni; le scelte stilistiche non sono dettate dall’interno, ovvero dalla necessità di mettere in scena i caratteri, ma è vero il contrario: i suoi caratteri sono vittima di espedienti narrativi.

Il prodotto finale, cui assiste lo spettatore, è un film estremamente rassegnato alla propria mancanza di autonomia: un’opera compromissoria in cui la preoccupazione di compiacere lo spettatore, fornirgli strumenti per la comprensione della storia schiacciano il piacere del cinema. Il dato più evidente di questo modus operandi è l’uso della colonna sonora: creata da Carter Burwell, compositore dai peculiari toni romantici/fantastici, risulta fortemente in contrasto con l’ordinarietà delle immagini. Bateman chiede alla colonna sonora di permeare scene prive di peso emotivo: quasi si affidasse a Burwell per scavarle e rivelarle. Ma il film resta sullo schermo in tutta la sua opacità. Come fissare uno schermo grigio a luci accese.

IL CLUB di Pablo Larrain

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Il cinema è sempre politico, ha dichiarato Pablo Larrain. E Il Club è la dimostrazione immediata e naturale di questo assunto: è un film in cui ogni immagine è una visione del mondo, in cui ogni inquadratura è metaforica, significante, espressione di un dato esistenziale tradotto in esperienza visiva.
Il Club è un limbo: indistinto, addolorato, segnato da un male ineluttabile che abbraccia gli esseri umani indipendentemente dalla propria natura oscura o luminosa, dal proprio farsi carnefici o vittime. Una dicotomia che Larrain mostra nella sua interezza, in un trascolorare da un limite all’altro: ecco perchè Il Club è fotografato in un grigio velato, privo di contorni netti, spesso invaso dalla luce diretta che sfalda i contorni e trasforma i chiaroscuri in scale di grigi, su cui brilla il riflesso della lente – un’illusione di vita e di perdono universale su un’umanità affranta.

Si tratta di un’opera profondamente religiosa: pervasa di una religiosità non conforme, non istituzionale, ma che è compassione verso gli ultimi, i peccatori, le anime nere seviziatrici degli innocenti, uniti dal medesimo dolore. Un film pasoliniano, Il Club: non solo per la religiosità che lo pervade e lo trasforma in cinema spirituale; ma anche nello stile, nella predilezione per immagini “staccate” dal racconto e solitarie, di grande forza iconica, nella cui cura compositiva si rinvengono temi e figure della pittura sacra – scene apostoliche, immagini di martirio, la mano che tocca la ferita di cristo, la lavanda dei piedi.

Larrain apre il film con con la scena, onirica e separata dal tempo e dallo spazio, dei quattro sacerdoti (il club su cui pesa il segreto e la vergogna) che giocano in spiaggia: una visione che allude a un eden rincorso e perduto, girata in una luce livida e lontana.
Uno stacco ci fa ritrovare i sacerdoti all’interno della casa in cui sono obbligati a vivere seclusi: e qui l’immagine si fa distorta, l’illusoria serenità è scomparsa, una leggera deformazione dell’obiettivo imprime alle inquadrature un senso di sopraffazione innaturale.

La figura umana, inquadrata al centro come nel caso di Padre Garcia, inviato ad investigare sul piccolo gruppo, si impone come autorità giudicante e castrante, volta a imporre una sorta di morte spirituale ai quattro peccatori; i quali mostrano, ognuno in modo diverso, una sorta di irriducibilità del male che li abita: una “vita” interiore che si rifiuta di sparire dal mondo.

Di tutti, Padre Vidal è l’emblema più forte del legame indissolubile tra bene e male: la tenerezza che lo lega al cane Fulmine è profonda quanto la sua incapacità di assecondare regole morali. Egli è vittima tanto quanto lo è Sandokan, la figura cristologica del film: un disgraziato vittima di abusi sessuali, il cui volto sembra dipinto da Antonello da Messina, e che diviene l’ultimo anello di una catena di soprusi; un agnello sacrificale in cui si sublima la scala gerarchica del potere, un Gesù privato della speranza e della fede.

Alle scene più violente del film Larrain oppone paesaggi naturali silenziosi, l’infinito del mare, o la commozione di albe e tramonti: finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane.
Larrain è difatti il regista dell’”irresposabilità”, come egli stesso si è definito: i suoi film assestano colpi e non chiedono perdono. L’umanità di Il Club è inchiodata alla disperazione: frutto del proprio sentire interiore e imposta dalla crudeltà del potere. Il sangue versato chiede un’assoluzione, un perdono che la macchina da presa di Larrain nega, preferendo il crudo simbolismo di un “ritorno all’ordine” che è invece schiavitù, prevaricazione e resa della volontà. La scena finale possiede la luce evocativa di una messa: l’ostia condivisa come ritualità in cui si annebbia la realtà e si addormentano le coscienze.

BASKIN di Can Evrenol

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Baskin, film horror turco, è tra i più fecondi tentativi di resistenza nei confronti di un genere sempre più serializzato dai modi produttivi statunitensi. Il regista Can Evrenol, al suo debutto, fa di tutto per slegarsi dai codici dell’horror di consumo e crea un prodotto che si distingue per cura stilistica, influenze classiche, uso consapevole del tempo e dello spazio; una ricerca minata da un soggetto, purtroppo, scadente, che Evrenol in parte riesce a valorizzare sviluppandolo attraverso una sceneggiatura circolare e non priva di sorprese.

Pur nella sua discontinuità, Baskin è comunque un film di notevole interesse soprattutto nella prima ora, in cui Evrenol mette in atto un grande studio compositivo, coloristico e simmetrico. La freschezza di Baskin risiede innanzitutto nella sua attenzione all’immagine esaltata nella sua singolarità: l’immagine “bella e strana” in accezione surrealista, ricca di suggestioni ed echi, stagliata nel suo valore per se, cui Evrenol rifiuta di attribuire alcuna funzionalità. Se l’horror americano mainstream si affanna a spiegare e a offrire percorsi sicuri allo spettatore, Baskin sceglie invece l’ellisse narrativa, alla ricerca di una purezza non ascrivibile alla trama. E non è un caso se il referente principale di Baskin, riconoscibile in ogni inquadratura, è Mario Bava, di cui Evrenol riprende i rossi e i blu e il gusto per l’effetto artigianale.

Baskin osa inquadrature insolite, primissimi piani, movimenti lenti e di scoperta, animato da un puro piacere per il bizzarro. Il suo “aggiornamento” stilistico passa inevitabilmente per Refn, ma Bava è la vera aspirazione del regista (che riproduce persino, in modo filologicamente perfetto, la famosa sequenza della mano de La frusta e il corpo). L’archetipo baviano, cui Evrenol anela, viene mescolato ad altre influenze eterogenee: dall’onirismo di Cocteau, all’attenzione per il dettaglio e per la vertigine di origine hitchockiana, all’enfasi visionaria di Rob Zombie e al simbolismo di Hellraiser, passando per la pessimistica violenza fulciana (sintetizzata dalla scena dell’occhio).

Peccato, quindi, che un film realizzato con tanta ambizione si perda in un eccesso teatrale e grottesco, che sembra cedere alle esigenze del mercato: dopo meno di un’ora, difatti, il rigoroso formalismo lascia il posto a effetto grossolani, tradendo lo spirito colto ed elitario della prima parte. Una caduta dall’astrazione al grandguignolesco che il regista tenta maldestramente di motivare con risibili dialoghi filosofici.

Se film come Martyrs o A Serbian Film, sicuramente tra gli horror più importanti e fondamentali della contemporaneità, riescono a gestire la violenza spiritualizzandola, Baskin non riesce ad elevarsi da una esaltazione drammatica che lo sbilancia e ne destabilizza struttura e coerenza stilistica. Un’occasione perduta, quindi; ma piena di idee, di coraggio, di passione e di cinema, che fanno di Evrenol un esordiente da ammirare.