Dopo sette film, Tarantino presenta la sua opera più radicale. Con The Hateful Eight il regista americano realizza il progetto più personale, un film scomodo che vive ai margini sia dell’industria, che dei gusti dello spettatore medio. The Hateful Eight fa letteralmente a meno dello spettatore, e si pone contro il cinema contemporaneo: la struttura dell’opera, irregolare e spesso incoerente, crea le proprie regole e incrocia spettri (non solo) cinematografici arbitrari ed affascinanti.
In un certo senso, è un film-fantasma in quanto si nutre di un “già morto”: l’aura fantasmatica è presente e palpabile, a partire dal supporto – questa pellicola sporca di segni, calda e vissuta, che per Tarantino è l’essenza stessa del cinema. Già morti sono i personaggi, morto è il paesaggio, i cavalli, la neve. La diligenza, che appare piccola e lontana, è la carrozza ectoplasmatica di Sjöström.
Quello che Tarantino mette in scena è un ricordo, o meglio il film dei ricordi: e per il passato occorre uno spazio grandioso. Per slargare la memoria occorrono 70 mm, e non importa se poi questo scavo continuo del passato finisca con l’esercitarsi in un interno limitato: l’emporio di Minnie è un’estensione orizzontale cui Tarantino dà una profondità tridimensionale, con un’accuratezza che ricorda il Wyler di The best years of our life.
Altrettanto significativo del trattamento che egli fa dello spazio, è sicuramente quello che egli fa del tempo: contro qualsiasi convenzione contemporanea, che tritura sia la durata dell’azione che l’attenzione dello spettatore, proiettando il tempo in una accelerazione schizofrenica (che depotenzia i sensi), Tarantino dilata la durata. In The Hateful Eight è come se l’unità temporale fosse raddoppiata nel suo valore: il regista estende il tempo, lo espande. Infine, oltre all’azione presente all’interno dell’immagine, ne crea altre servendosi della parola. I dialoghi di The Hateful Eight creano quasi un film ulteriore che va a sovrapporsi a quanto già vediamo: Tarantino, nella sua ambizione, moltiplica il film cui assistiamo.
Tra i film cui più curiosamente assomiglia c’è sicuramente Bus Stop (1956) di Joshua Logan: non solo per alcune similarità di trama (in Bus Stop è un autobus a fermarsi a causa della tormenta di neve, costringendo i personaggi all’interno dell’isolato diner di Grace), ma soprattutto per l’uso “interno” del Cinemascope e per le mutazioni (quasi fosse una modulazione della luce) da commedia a dramma, da piece teatrale a film sperimentale, in cui la figura umana occupa lo spazio in forme simboliche. Si pensi a Daisy Domergue, l’unico personaggio femminile di The Hateful Eight, che in una rapidissima inquadratura appare addirittura come un angelo alato: un’immagine crudele, deviata e bellissima, che dovrebbe anche servire per tutti quei detrattori che hanno parlato di “maschilismo” del film. Un’assurdità, dal momento che Daisy è l’unica a piangere, e anche l’unica a suonare una canzone struggente.
Un film imperfetto, The Hateful Eight, dall’energia sia comica che disturbante, e in cui confluiscono, in una contaminazione che ha del profano, la drammaticità di Kazan, lo slapstick di Frank Tashlin, il sovrannaturale di Carpenter, lo splatter di Peter Jackson, la violenza di Peckinpah ma anche dei Looney Tunes. Imperfetto in quanto non compiuto, come accadeva nell’epoca del muto con i film di Stroheim, artista totale e anticonvenzionale, la cui visione era troppo grande per il proprio tempo. Tarantino non ha la statura e l’originalità artistica di Stroheim, ma ha la sua caparbietà: come lui, è un uomo-cinema.
Magnifica analisi. Film sicuramente affascinante.