The Green Inferno è tra i film più interessanti di questo inizio di stagione. Il regista Eli Roth è una voce unica e personale; nel corso della carriera è maturato ed ha definito un proprio inconfondibile stile, a costo di studi, errori, rielaborazione del passato, sperimentazione, ma senza mai perdere il gusto profondo e la passione per il cinema. Perchè quello che distingue Roth da molti, asettici “fabbricanti” di horror (parliamo soprattutto di horror americano mainstream) è l’autentica voglia di creare e giocare con il genere; un gioco che, ovviamente, il regista prende molto sul serio, non smettendo mai di riflettere sull’evoluzione storica del genere stesso, sulle sue ramificazioni e le implicazioni con il sottotesto sociale.
Rispetto, ad esempio, alla perfezione glaciale del tecnico James Wan, o alle innumerevoli filiazioni dell’ormai esausto found footage portato al successo da Oren Peli, Roth si distingue per la verità che mette nel suo lavoro; tra tutti, è il regista più audace, pronto a sporcarsi, a mandare al diavolo l’igienica professionalità industriale per realizzare film pulsanti, imperfetti, corpi vivi e sanguinanti e non cadaveri da dissezionare in sala operatoria. Da troppo tempo siamo abituati ad un “new horror” che vive di repliche, riproduzione tecnica del già visto, citazione scolastica, coazione a ripetere, facilitato dall’uso di un digitale che toglie calore e sangue e va a “pixelare” le emozioni degli spettatori.
Eli Roth invece è alla ricerca del “suo” cinema, e per conquistarlo evita sia le mummificazioni nostalgiche, sia i facili compiacimenti nei confronti di un pubblico sempre più giovane e sempre più malato di deficit dell’attenzione.
Artisticamente resta un idealista e per questo motivo rischia di scontentare molti. I puristi del filone cannibalico anni 70, incapaci di aprire le gabbie del passato, faticheranno ad apprezzare tutta la contemporaneità di cui si nutre The Green Inferno, sia strutturale che sociologica/antropologica; mentre i ragazzini non si sentiranno appagati da un film che nega il piacere facile dell’accumulo: quello che rende “confortevolmente insensibili”.
La chiave estetica di The Green Inferno è la sua capacità di portare i segni della passata lezione di Deodato, Lenzi, Martino, su un corpo filmico che è completamente aderente al tempo presente. E’ un film necessario: Roth ha una chiara comprensione dei deragliamenti contemporanei – ignoranza, balordi estremismi, isteria politica e sociale, vuoto ideale, pornografia della comunicazione, crisi dell’io – e li mette in scena in un luna-park rovesciato. Divorato dalla propria stupidità, l’Occidente finisce nella gabbia dei maiali, tra fango e deiezioni corporali; mentre Roth lo fa a pezzi sullo sfondo di una natura che si ostina a sopravvivere, splendida e atemporale, nonostante la nostra antropologica regressione, che ci ha reso incapaci di esistere al di fuori della produzione/trasmissione di immagini.
Il tempo ha fatto di Eli Roth un regista linguisticamente sempre più raffinato; in equilibrio tra creazione e memoria, in grado di gestire i tempi del racconto e di esplorare lo spazio in forme vertiginose. E di spargere, su tutto, un’ironia brillante: quella che tramuta l’umanità in polvere e scorie dell’universo.