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Spider-Man – Un nuovo universo restituisce allo spettatore tutto ciò che il grande cinema mainstream americano gli ha sottratto: la stratificazione dell’immaginario, la libertà di muoversi all’interno dello spazio dell’inquadratura, e soprattutto un’ambizione sperimentale che fa del film di Peter Ramsey, Robert Persichetti Jr. e Rodney Rothman una vera e propria opera d’arte contemporanea. Un’opera che rispetta fino alle lacrime lo spirito e la specificità dell’arte di Stan Lee e che è protesa a rendere le due forme espressive – cinema e fumetto – due dimensioni comunicanti, interlacciate ma mai annullate l’una nell’altra.
Into the Spiderverse diventerà, siamo certi, seminale nel rapporto tra animazione e fumetto; non solo è un film che finalmente libera l’animazione americana da uno standard sempre più ripetitivo, stanco e autoreferenziale, sorta di coazione a ripetere di stili e codici avvinghiati in una stretta isterica sempre più accelerata; ma nel suo rapporto con il fumetto trova una nuova ispirazione, un desiderio di rinnovamento che lo trasforma in un grande paesaggio contemporaneo.
Ramsey, Persichetti e Rothman sono fedeli a Stan Lee sia nella riproposizione della mitologia del personaggio che nella sua rappresentazione grafica. In Spider-Man – Un nuovo universo troviamo tanto la divisione in “vignette” che un uso dello spazio cinematografico in prospettive infinite: lo spazio è totalmente reinventato, con la potenza del cinema messa a servizio dell’immaginario fumettistico. La vignetta in realtà non è mai un quadrato rigido, ma una forma che può essere spezzata, allargata, esplorata in ogni sua dimensione: anche se visto in 2D, il film possiede una straordinaria profondità. Solamente il modo in cui viene ricreato il “fuoco” cinematografico (con un tratto di indefinitezza a riprodurre la sfocatura) ci parla della cura e consapevolezza linguistica di quest’opera.
Spider-Man – Un nuovo universo è infatti straordinariamente raffinato: porta su di sè i “segni” dell’animazione mondiale – non è un caso se spesso si bagna nella palette cromatica di Akira (1988), di cui riproduce anche una metropoli immersa nella malinconia tecnologica – e possiede la follia e l’abisso estetico/filosofico dei film di Satoshi Kon; ma il film è soprattutto immerso nelle sue radici americane, non soltanto quelle dei Looney Tunes – “that’s all, folks”, commenta con ironica nostalgia Spider-Ham – ma anche del cinema noir con uno Spider-Man Noir perennemente chiaroscurale, solitario come i Nighthawks (1942) di Edward Hopper e disilluso come il Bogart del Mistero del Falco (1941).
Spider-Man – Un nuovo universo prende i vari universi sematici e segnici significativi del ‘900 e li fa “reagire” con la contemporaneità: da questa collisione nasce lo straordinario (dis)ordine di Into the Spiderverse, inteso come creazione di visioni nuove, al cui interno sono reperibili tracce culturali e artistiche storiche sino ad una compresenza con il futuro, esplosiva e sinestetica per lo spettatore.
In tutto ciò, lo Spider-Man di Lee risulta soprendentemente rispettato a livello filologico; i registi riconoscono l’antecedente di Raimi, cui pagano commoventi tributi, ma il film è autenticamente devoto e teso alla corretta ricostruzione/interpretazione dell’originale, tuffato in un presente sperimentale in cui tutto il mondo – o meglio, tutti i mondi – sono “figli” dell’immaginario di Lee; e questo lo rende il film definitivo, il più innamorato, colto e straziante.
Spider-Man – Un nuovo universo bagna di pianto e nostalgia un presente orfano di Lee; ma allo stesso tempo dona al suo fantastico un potere immortale, facendone un’arma artistica con cui attraversare estetiche e sogni.