Mia madre è un film tanto imperfetto quanto bello. Inizia con un omaggio esplicito a Woody Allen – quella fila fuori del cinema Capranichetta, con Margherita che rivede e interroga se stessa giovane, in coda, sembra venuta fuori da Io e Annie. Il tempo e lo spazio filmico si interrompono e i personaggi, pirandellianamente, parlano tra loro: è un tipico procedimento alleniano, attraverso cui il regista “ferma” il cinema e lo trasporta sul piano dei sogni, delle domande, dei ricordi. Mia madre è un oggetto strano, il più “cinematografico” tra le opere italiane degli ultimi anni: proprio perchè la realtà non è mai obiettiva, è totalmente filtrata attraverso lo sguardo di Margherita da indurci a dubitare se ciò che vediamo sia oggettivo o illusorio, tralucente attraverso le sensazioni della protagonista. Come Margherita stessa afferma con forza, “è il mio film, e questa è la mia realtà”. La morte della madre assume contorni poetici proprio perchè Moretti allestisce la sua realtà: quella del ricordo e dell’amore. Ed il film è come una nave impazzita che solca un mare emozionale: tra la necessaria lucidità che impone il cinema come “mestiere”, e lo smarrimento umano di fronte alla tragedia. Mia madre orchestra i due piani, quello professionale e quello personale di Margherita, con stacchi bruschi: Moretti sceglie un montaggio privo di transizioni per passare dal tono grottesco, felliniano (ed affettuoso) delle scene sul set alla poesia dei momenti privati, straziati dalla perdita. Le due dimensioni si avvicendano lasciando fratture, aperture: è lì, in quegli spazi vuoti, che il film si libra e “continua” in infinite diramazioni nella mente dello spettatore. E Margherita Buy è bravissima ad attraversare gli spazi tra la realtà e l’illusione, tra il desiderio e la brutalità del presente. Il suo silenzio, gli scoramenti, le rabbie, l’amore, sono tutti nella verità del suo volto.
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