ROBOT DREAMS di Pablo Berger

Conoscevo Pablo Berger per il bellissimo Blancanieves, film muto e in bianco e nero del 2012. Il regista resta affascinato dall’immagine pura, priva di dialoghi, anche in Robot Dreams, in Italia tradotto pedestremente Il mio amico robot; ma questo titolo tradisce la ragion d’essere del film, ovvero il sogno di natura surrealista, materia inconscia che si stringe indissolubilmente al reale tanto da confondersi con esso, in un unico magma di vissuto pulsante e allucinatorio.
Ambientato in una Manhattan paradossalmente “più vera del vero” nonostante i suoi abitanti antropomorfi, Robot Dreams insegue le tensioni della vita, il desiderio, l’amore, le disillusioni. Aderendo fedelmente ai disegni di Sara Varon, autrice della graphic novel originale, Berger crea un film cinefilo e struggente che sarebbe piaciuto a Satoshi Kon (l’artista assoluto di quella “dreaming machine” cinematografica in cui sogno e realtà sono indissolubili). Con una passione debordante per la settima arte, Berger intesse l’animazione di citazioni: da Il mago di Oz a The Shining, dal dolly zoom di Hitchcock alle squisitezze astratte di Busby Berkeley, dal romanticismo di Woody Allen alla follia anarchica di Duck Amuck, celebre cartone metacinematografico di Chuck Jones. Similmente a Duffy Duck, il robot protagonista si “stacca” ed esce dalla scenografia, rivelando la natura della finzione in visioni di sfrenata immaginazione.

Con una regia di puro movimento, Berger segue i personaggi affiancandoli nei piani sequenza, spalanca vertigini con improvvisi zoom, attraversa lo spazio e il tempo in un susseguirsi di panoramiche, dolly, inquadrature dall’alto. Il suo cinema onirico e profondamente umano si affida esclusivamente alle immagini, alle quali consegna l’emozione. Ogni sentimento, percezione e ricordo ha un corrispettivo visivo: Robot Dreams è una dolce dimostrazione di come la mente elabori il vissuto alla maniera di un film. Particolarmente bello “l’intermezzo degli uccellini”, parentesi autonoma e memore della delicatezza romantica de “Il principe felice” di Oscar Wilde; mentre il finale ci offre uno degli split screen più toccanti del cinema recente. Così come altri registi prima di lui (ad esempio Stanley Donen con il suo Indiscreto) Berger ci mostra la possibilità di essere “insieme” anche separati, in una dimensione dove passato, presente e futuro coincidono. Si esce dal cinema in lacrime, commossi e con l’anima più luminosa.

100 anni di Takamine Hideko

27 marzo 1924 – 27 marzo 2024

Takamine Hideko possiede la bellezza dell’amore e il mistero dei fenomeni naturali. Guardarla sullo schermo significa non solo vivere un universo di sentimenti ed emozioni espressi con delicatezza spontanea e leggera, ma diventare parte di un’esistenza parallela, di mondi che prendono vita solo per la sua stupefacente presenza. Al suo passaggio, la finzione cessa d’essere mera finzione: le mille vite di Takamine Hideko sono nostre.
Antidiva e vera, scelse intenzionalmente di ritrarre donne comuni, sentimenti quotidiani e reali ma non per questo meno avvincenti o tempestosi. Nella sua lunga e ininterrotta carriera durata cinquant’anni lavorò con tutti i più grandi registi del Giappone ( tra cui Gosho Heinosuke, Toyoda Shirō, Kobayashi Masaki). Ozu Yasujirō la scelse come attrice bambina per Tokyo Chorus (1931), e successivamente le affidò il ruolo dell’irruente e anticonformista Mariko ne Le sorelle Munekata (1950), che la giovane Takamine interpretò con fremente vitalità e spirito da grande commediante. Ma furono Kinoshita Keisuke (con cui girò 12 film) e ancor di più Naruse Mikio (che la volle come protagonista in 17 film) a lasciarsi abbagliare dalla sua luce e metterla al centro dello schermo per incarnare “tutte le donne”: personaggi comuni – autiste di bus, insegnanti, ballerine, mogli, madri, amanti appassionate, giovani indipendenti alla ricerca di riscatto, figure idealiste colme di speranze e futuro o ferite violentemente dal destino.

Takamine fu in grado di calarsi naturalisticamente in ciascuna di loro, portando una intensa sensibilità e la verità di un sorriso pulito e autentico. La sua recitazione fresca, immediata, talora bollente, reca il mistero del vivere e un’ostinata irriducibilità che non arretra nemmeno di fronte alle onde travolgenti del destino. Tra i film girati con Naruse troviamo grandi capolavori come Lightning (1951), racconto di formazione di straordinaria modernità; Floating Clouds (1955), tragica vicenda amorosa che anticipa la Nouvelle Vague sia per sensibilità che struttura formale, opera ipnotica e immersa in un dolore esistenzialista, in cui Takamine appare luminosa come un sogno; When a woman ascends the stairs (1960) sulla difficile vita delle donne che lavorano nei bar dell’elegante e urbano distretto di Ginza.

Nel 1954, sul set di Twenty-four Eyes, si innamora di Zenzō Matsuyama, giovane sceneggiatore: il matrimonio tra la diva e l’anonimo scrittore suscita scalpore, ma i due restano insieme tutta la vita, formando un duo artistico indissolubile, fatto di corrispondenza di amorosi sensi e affinità artistiche elettive. Spiriti poetici e appassionati, moderni e irrequieti, realizzano film anticonformisti e lacerati da impeti progressisti e tensioni di futuro, come Happiness of us alone (1961) incentrato su una coppia di sordomuti, e Mother Country (1962) che ritrae la triste esistenza degli immigrati giapponesi alle Hawaii alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.
Takamine, nonostante le convenzioni dell’epoca, continuerà a lavorare anche dopo il matrimonio, dimostrando fortissima libertà e indipendenza a dispetto dei più veti tradizionalismi: “As a wife, as a woman”.
Fu anche attiva come scrittrice e saggista, pubblicando molti libri di successo sin dal suo periodo di massimo splendore come attrice. Inoltre fu pittrice e collezionista d’arte: alcuni dei suoi quadri sono esposti al Museo d’arte di Setagaya.

A seguire, alcune recensioni brevi e link alle recensioni disponibili.

Alcune recensioni brevi

LE SORELLE MUNEKATA (1950), Ozu Yasujirō
Questo è un film di emozioni profonde, ancora una volta veicolate da due personaggi femminili: Mariko, giovanissima, vestita all’occidentale, indipendente, pronta ad irridere la tradizione; e sua sorella Setsuko, più “vecchia”, in kimono, aderente agli ideali del passato al punto da accettare un marito abusivo: ma in lei qualcosa freme, e si nota nei dettagli. Bisognerebbe aprire un capitolo a parte per i sorrisi di tante protagoniste dei film di Ozu: così misteriosi, sorrisi che rispondono ad una cultura di gentilezza, ma che celano i misteri di una musa arcana. Setsuko sorride ma in lei avviene la rivoluzione, anche grazie alla vitalità di Mariko, la cui propensione alla commedia e all’equivoco ricorda l’incanto di una giovane Carole Lombard. Ed il finale è tra i più sottilmente enigmatici, inafferrabili: Setsuko sceglie la libertà, con un gesto intensamente moderno e antiromantico. E’ meraviglioso vedere un personaggio femminile affrancarsi dalle aspettative sociali e scegliere, nelle sue parole, “la propria strada” – soprattutto negli anni ’50.
E’ un film splendido, complesso, dalle sfumature noir, attraversato da momenti di angoscia insostenibile – come nei confronti tra Setsuko e il marito. L’atmosfera è intrisa di violenza anche se Ozu non mostra quasi nulla: ma noi temiamo per Setsuko. Quando il marito infila una mano in tasca ho creduto fosse per estrarre un’arma, un oggetto per colpire Setsuko. Ozu in pochi secondi gira una scena d’orrore nel nostro immaginario.

Le Sorelle Munekata

CARMEN COMES HOME (1951), Kinoshita Keisuke
Una spogliarellista dal cuore d’oro, dopo aver ottenuto un grande successo a Tokyo con i propri spettacoli, torna nel villaggio rurale natio assieme ad un’amica-collega. Qui dà scandalo improvvisando uno strip tease per gli abitanti del paese; il padre si imbarazza, il preside si indigna, i paesani, prevedibilmente, ne vanno pazzi. Tra Billy Wilder e Frank Tashlin, CARMEN TORNA A CASA è il primo film a colori del Giappone, girato da quel genio di Keisuke Kinoshita. La meravigliosa Hideko Takamine (“Carmen la Dolce”) danza in reggiseno tra colline, cieli azzurri e mucche che pascolano: una visione squisita e surreale, enfatizzata dai campi lunghi in cui brillano macchie di colore. Tra canzoni, scherzi, equivoci, le gonne delle ragazze scivolano giù, rivelando gambe fantastiche. Un film davvero fenomenale.

Carmen Comes Home

INAZUMA (Lightning, 1952), Mikio Naruse
Si tratta di uno dei più bei film che abbia mai visto sulla vita di una donna ed è talmente “reale” da farti percepire il flusso di coscienza della protagonista. La ventitreenne Kiyoko si guadagna da vivere lavorando come guida su un bus turistico ed è la più giovane dei quattro figli che la madre ha avuto da quattro uomini diversi. Vittima della propria famiglia disfunzionale, che la vorrebbe sposata al volgare fornaio Tsunachiki, Kiyoko decide di andare a vivere da sola; ma non è facile liberarsi del tutto dalla dolorosa morsa dei legami familiari. I “lampi” del titolo sono i profondi turbamenti che scuotono la ragazza di fronte al disfacimento morale della famiglia: le sorelle diventano amanti del laido Tsunachiki, il fratello bighellona in perenne stato di ubriachezza, la madre si trincera nella rassegnazione. Film sensoriale, tattile, materico: le emozioni di Kiyoko diventano nostre senza filtri, se non quello invisibile della mano del regista, così delicata e rispettosa. Nei film di Naruse si vedono le donne pensare, vivere, cercare nuove possibilità: è un cinema vero, e fa impallidire tutti i proclami che vengono fatti al giorno d’oggi sul “cinema femminile”. Senza sensazionalismi, ma assorto, discreto, concentrato fino a cogliere ogni sfumatura, Naruse realizzava ritratti femminili d’una bellezza simile a quella dei film di Ophuls: e sarà forse un caso, ma a un certo punto Kiyoko scrive una lettera e si invaghisce di un pianista…

Inazuma (Lightning)

CARMEN FALLS IN LOVE (1952), Kinoshita Keisuke
Il film viene realizzato dal regista Kinoshita dopo “Carmen comes home” (1950), primo film a colori del Giappone, in cui Takamine Hideko danzava svestita tra verdi colline, mucche al pascolo e contadini stupefatti. Il regista torna al bianco e nero in questo sequel tutt’altro che realista: girato quasi completamente con “dutch angles”, ovvero inquadrature inclinate (tipiche dell’espressionismo), il film è una satira pungente e a tratti spaventosa, priva della dolcezza del suo antecedente. Carmen, attrice di varietà ispirati a Bizet, viene maltrattata sia fisicamente che psicologicamente; la povertà incattivisce la società, le classi sociali sono rigorosamente divise (si veda la casa della ricca e viziata famiglia Sudō) e soprattutto aleggia ancora la presenza della bomba atomica: oggetto di numerose battute di dialogo, temuta, evocata, protagonista di incubi e ossessioni. Kinoshita ama la sua pura, ingenua Carmen, schernita da tutti per la sua candida semplicità, soprattutto dal velleitario artista di cui si innamora. La nostra eroina canta “per non pensare alla sofferenza”, mentre intorno si agita un mondo che comprende narcisisti patologici, nostalgici del riarmo, violenti. Kinoshita allestisce scenografie surrealiste assai francesi, scrive rapidissimi e allusivi dialoghi screwball e infonde un profondo senso di disagio con una colonna sonora che alla musica sostituisce il rumore delle bombe. L’opera di un genio assoluto.

Carmen Falls in Love

THE GARDEN OF WOMEN (1954) Kinoshita Keisuke
Questo è, in un certo senso, il film “horror” di Kinoshita Keisuke. Nel raccontare la durissima vita quotidiana delle studentesse in un college di Kyoto, il regista mette in risalto l’assoluta mancanza di gioia, libertà spirituale e amore cui vengono costrette le ragazze, ancora sottoposte a una spietata disciplina patriarcale. Tra loro, l’idealista e fragile Yoshie (Takamine Hideko) insegue l’amore (con un ragazzo vietatole dal padre) e confida in un futuro di realizzazione personale; ma la famiglia e l’istituzione scolastica la schiacciano senza pietà. In ogni immagine brucia l’angoscia, mentre il regista illumina la bellezza delle giovani e un cupo bianco e nero ci mostra le loro ali spezzate. Un racconto di crudele realismo, saturo di tristezza e morte, che ispirò Oshima Nagisa a diventare regista a sua volta.

The Garden of Women

A WIFE’S HEART (1956), Naruse Mikio
Takamine – Mifune, un temporale d’amore. Il cinema di Naruse ha sempre fatto dei fenomeni naturali una metafora dei tumulti del cuore e della forza devastante del desiderio. In a Wife’s heart (1956), proprio a causa di una pioggia inaspettata, l’infelicemente sposata Kiyoko e l’impiegato di banca Kenkichi trovano riparo in un ristorante. Qui la conversazione scivola inavvertitamente dalla norma: si fa colloquio intimo, parola sorridente, avvicinamento. L’emozione cresce e straripa. Kinkichi pronuncia il suo nome: “…Kiyoko-san!”, come se quel suono racchiudesse la confessione d’un sentimento. Kiyoko trasalisce, spalanca gli occhi, lo ferma con lo sguardo. L’aria è elettrica, ma in pochi secondi i due si ricompongono. Naruse si allontana dai loro visi, rinuncia al primo piano, esattamente come Kiyoko e Kenkichi, nell’imbarazzo, hanno appena rinunciato alla parola. Pesa, su di loro, la materia del non-detto, greve come la pioggia.

A Wife’s Heart

UNTAMED WOMAN (1957), Naruse Mikio
Film anomalo e straordinario nella sua costruzione di un personaggio femminile “non soccombente”. L’umiliata e offesa Shima (Takamine) si rialza cento volte, impara a tener testa a uomini deboli e indegni (dando vita a impagabili scene comiche, come quando innaffia con l’idrante il marito traditore). In una sequenza molto bella, tutta incentrata sulla disillusione, Shima viene baciata dal fascinoso proprietario dell’albergo dove lavora (Mori Masayuki, sempre perfetto nel ruolo di vigliacco), e un grosso mucchio di neve cade dal tetto con un tonfo sordo. Naruse sta dicendo agli spettatori – e alla protagonista – che non si tratta di un bacio romantico, e che quel mucchio di neve caduto a peso morto è il preludio ad una serie di viltà inflitte dall’uomo alla ragazza.

Untamed Woman

QUANDO UNA DONNA SALE E SCALE (1960), Naruse Mikio
Il film di Naruse e L’APPARTAMENTO (Billy Wilder) sono entrambi del 1960 e ci dipingono la stessa tipologia maschile: l’uomo “distinto e affascinante”, apparentemente passionale, in realtà vile seduttore. Nel celebre film di Wilder, Mr. Sheldrake (Fred MacMurray) lascia alla povera Kubelik, sua amante, una banconota con cui comprarsi un regalo di Natale e se ne va dichiarando di non poter divorziare dalla moglie. Nel film di Naruse, l’elegante Mr.Fujisaki (Mori Masayuki) seduce Keiko (Takamine Hideko) e passa la notte con lei (quasi costringendola), per poi abbandonarla il mattino seguente, lasciandole azioni di poco valore come risarcimento. Come Sheldrake, Fujisaki ammette di non avere il fegato di rompere con la moglie e usa il “pagamento” come forma di chiusura di un rapporto indecoroso per la propria posizione. Anche nella rappresentazione ci sono similarità: in entrambi i film li vediamo seduti al bar/ristorante, in raffinati completi scuri, assorti in conversazioni eleganti e urbane.

Quando una donna sale le scale

IMMORTAL LOVE (1961), Kinoshita Keisuke
(Satako (Takamine) e Heibei (Nakadai) si detestano da 30 anni. Il regista Kinoshita attraversa la storia collettiva a partire dall’interno di un mortifero rapporto matrimoniale, dove per circa tre decenni le dinamiche sentimentali restano le stesse: il titolo “Immortal Love” (riferito a un terzo personaggio, vero amore di Satako) potrebbe essere benissimo rovesciato in “Immortal Hate”. Nonostante la trama da feuilleton, le “scene da un matrimonio” interpretate da Nakadai Tatsuya e Takamine Hideko sono stupende, taglienti, un gioco di continua crudeltà in cui i due personaggi cercano costantemente di superarsi. Una coppia elettrica che si “uccide” fino ad addolcirsi nella parte finale. Negli ultimi minuti Kinoshita si diverte a mostrarci Satako e Heibei ormai “addomesticati” e pone tra loro la presenza ingombrante di un moderno frigorifero, quasi un terzo personaggio nella scena.

Immortal Love

AS A WIFE, AS A WOMAN (1961), Naruse Mikio
Due donne: una moglie (Awashima Chikago), un’amante (Takamine Hideko), si contendono lo stesso uomo da più di dieci anni (Mori Masayuki nel suo ruolo più sgradevole). “As a Wife, as a woman”, è una presa diretta sui costumi e la società dell’epoca. Se la presenza di un’amante era comunemente accettata, al punto da essere ufficiosamente regolata da codici di comportamento che definivano il suo ruolo in rapporto alla famiglia dell’uomo, non di rado il protrarsi negli anni della relazione aveva conseguenze drammatiche. Naruse studia le vite parallele della moglie e dell’amante, accomunate da un destino di infelicità, sopportazione, creazione di maschere sociali, con in più l’umiliazione di un accordo economico. Il regista è straordinariamente bravo nell’interlacciare due esistenze nel breve spazio della durata del film. Percepiamo il peso degli anni, la fatica, l’involontaria “convivenza”, la paura reciproca. Due esistenze-ombra. Il montaggio è particolarmente ellittico: Naruse sperimenta più del solito con tagli e giunzioni, compie un editing “emotivo” concentrando anni in passaggi di pochi secondi. Come spesso accade, il regista è interessato al sentire, al tempo interiore, alla percezione soggettiva delle sue protagoniste. In una scena che lascia senza fiato, Ayako, la moglie, vede i bambini piccoli uscire dalla stanza. Un taglio impercettibile, e dalla stessa porta rientrano i due ragazzi ormai grandi. Sono passati anni, ma lei, di spalle, sembra non essersi mossa: immobile nelle abitudini e nello spazio circoscritto degli obblighi sociali. È il 1961, e ancora la vita delle donne è completamente subordinata ad inerti ed egoiste figure maschili. Naruse è particolarmente critico nei confronti dei suoi personaggi: gli adulti ci appaiono deludenti e privi di luce interiore, insoddisfatti per conformismo e viltà. La rinascita ideale è affidata al sorriso dei due ragazzi, che gettandosi alle spalle il melodramma familiare cercano l’indipendenza e vanno a sognare al cinema.

As a Wife, as a Woman

Hideko Takamine, ragazza in bicicletta
Le ragazze in bicicletta del cinema giapponese cercano l’indipendenza, sono autonome e proiettate verso il futuro, anche se la società fa di tutto per reprimere il loro slancio. Takamine Hideko in Ventiquattro occhi (1954, Kinoshita Keisuke) è l’idealista, appassionata insegnante Hisako. La giovane sfreccia lungo le strade di un’isola remota, suscitando lo stupore degli abitanti e l’ammirazione dei suoi giovanissimi studenti: è la rappresentazione di una libertà giovane, leggera, su cui ancora non pesa l’amarezza dell’esperienza e la perdita delle illusioni.
La bicicletta come simbolo di emancipazione anche in Untamed Woman (1957, Naruse Mikio). Umiliata, offesa, battuta, Shima si rialza cento volte e tiene testa ai miserabili uomini che incontra sul suo cammino. Dopo un’esistenza di ingiustizie e privazioni, impara a usare la bicicletta e crea una propria attività, diventando un emblema di quel coraggio femminile che spesso troviamo nel cinema di Naruse: le sue celebri figure femminili che “sembra stiano per soccombere, ma poi non lo fanno”

Link ad alcuni miei articoli:

CARMEN COMES HOME (1951), Kinoshita Keisuke

FLOATING CLOUDS (1955), Naruse Mikio

HAPPINESS OF US ALONE (1961) e MOTHER COUNTRY (1962), Zenzō Matsuyama

YEARNING (1964), Naruse Mikio

HIT AND RUN (1966), Naruse Mikio

Naruse Mikio, La Tempesta del Vivere

The Pornographers (Introduzione all’antropologia) di Imamura Shōhei, 1966

Appunti su THE PORNOGRAPHERS ( Jinruigaku nyūmon, Introduzione all’antropologia, 1966). Il primo film che Imamura realizza da indipendente, senza avere alle spalle la Nikkatsu, porta alle estreme conseguenze la sua visione del Giappone post bellico – corrotto, smarrito, privo di etica e sedotto dal capitalismo di matrice statunitense – e intensifica lo sperimentalismo linguistico.
The Pornographers mette in scena le vicende di Subu, uno sgangherato produttore di film pornografici nei bassifondi di Osaka. L’uomo vive con una vedova, Haru, e i suoi due figli: il viziato Koichi e la quindicenne Keiko, nei confronti della quale prova una morbosa attrazione. Assistiamo a situazioni e contesti di estremo degrado spirituale e morale (incesto, pedofilia, prostituzione, sfruttamento) che Imamura rappresenta attraverso soluzioni formali di grande rigore e originalità. Più va in scena l’indicibile, più Imamura formalizza con un’arte grafica astratta, chiudendo il caos tra le sezioni verticali/orizzontali di palazzi, le pareti di una camera, le cornici di un effetto mascherino prodotto dal profilmico (travi, porte, grate alle finestre).
Lo stile accoglie il deragliamento della società giapponese e lo imprigiona in astrazioni geometriche per intensificare il distacco dell’osservatore rispetto alla materia osservata. Solo la distanza può infatti permettere a Imamura un’analisi tanto capillare e distillata, capace di addentrarsi nelle dinamiche più intime e perverse di una famiglia che è una grottesca metamorfosi della famiglia tradizionale. Questa “alterazione dell’armonia” è resa da Imamura attraverso l’uso di particolari prospettive e profondità di campo, indicative delle dinamiche tra i personaggi: i volti in avampiano ci appaiono enormi, i corpi sullo sfondo sono rimpiccioliti, creature di scarto. Non c’è equilibrio nei consorzi umani, dominati da sopraffazione, istinti, avidità.

Imamura tavolta registra con occhio glaciale, altre volte ci coglie di sorpresa, lasciando che le emozioni facciano irruzione con l’intensità di una lama: l’apparizione di una lacrima che taglia a metà l’inquadratura; un camera car all’indietro che parte dal primissimo piano di un volto per poi allontanarsi, lasciandolo solo nella vastità della sua follia; e ancora espressioni contorte nella disperazione o mella schizofrenia, in preda a dolori, impulsi, bizzarre superstizioni. Come in Unagi (1997), un pesce (in questo caso una carpa, che Haru crede sia lo spirito del defunto marito) osserva la degenerazione dell’umanità, testimone impotente e osservatore magico, cui forse è dato comprendere ciò che l’umano non sa più discernere.
Inquadrature dall’alto, attraverso la trasparenza dell’acqua, o sghembe, crepe nel visibile, ci svelano una società giapponese che ha perso il senso del tabù, del sacro, persino il rispetto dell’innocenza e della malattia mentale. Imamura lascia colare il suo humor nero rendendo il film un’esperienza tanto sgradevole quanto voyeuristica e pulsionale: spinti a nostra volta da una curiosità privi di scrupoli, vogliamo sapere quanto ancora il limite del rappresentabile possa spingersi oltre. Ombre di Kinugasa, di Mizoguchi e di Ozu sembrano presenti come fantasmi in un mondo degenerato.

BLACK RAIN di Imamura Shōhei

Appunti su BLACK RAIN (1989) di Imamura Shōhei. Film del 1989, ma così accurato nella ricostruzione storica e nella cura filologica dell’immagine – dal particolare e denso bianco e nero, alla disposizione degli oggetti del profilmico, all’attenzione antropologica (volti, corpi) da sembrare girato tra i ’40 e i ’50.

Il film documenta l’esplosione della bomba atomica a Hiroshima e gli anni successivi attraverso lo sguardo di una famiglia di sopravvissuti: la giovane Yasuko, lo zio Shigematsu e sua moglie Shigeko. L’esperienza è sconvolgente, e il turbamento diventa ancor più intenso perché preceduto da scene di vita quotidiana, montate in successione con asciuttezza, senza alcuna nota di pathos: alcune donne sono intente in una cerimonia; lavoratori si accalcano in un treno; un cane attraversa veloce la strada. Tutto è quiete e silenzio, finché una stanza viene illuminata da un bianco irreale e accecante. È allora che l’esplosione diventa anche suono e le cose precipitano nell’orrore. I corpi prendono fuoco, si liquefanno, si polverizzano. La pelle scivola via dalle ossa, i cadaveri sono irrigiditi come statue nere, gli arti contorti. Madri piangono bambini morti in braccio; i sopravvissuti vagano urlando. Imamura filma tutto con occhio documentario, senza la minima sbavatura emotiva: ma proprio per questo le immagini sono uno shock senza fine. Bellissimo il volto di Yasuko, la giovane protagonista: pioggia nera cade sul suo volto facendo di lei una madonna sofferente. Ad accrescere la visione di molte scene spirituali e oniriche contribuisce la colonna sonora inquientante e dissonante di Takemitsu Tōru, fatta di archi vibranti e discese profondissime nelle emozioni umane.

Il film testimonia la vita immediatamente successiva: il tentativo di ritorno a una impossibile normalità, la stigmatizzazione subìta, il male che riemerge come tumore e follia. La stupenda regia di Imamura fa di questo film un intenso omaggio alla classicità, quella stessa classicità da lui combattuta in giovinezza: ci sono le inquadrature con camera bassa, il rigore della composizione degli interni, ma soprattutto i caratteri dei protagonisti a ricordarci il cinema di Ozu: Yasuko, abbigliata e pettinata come Hara Setsuko, non vuole sposarsi né allontanarsi dai suoi zii; Shigematsu ha un carattere stoico e quieto come tanti personaggi interpretati da Ryū Chishū. È come se, nonostante tutto, un sentimento per il cinema classico si facesse strada in Imamura: le spighe mosse dolcemente dal vento, i piani sequenza e i lenti carrelli di Mizoguchi; ma anche i campi lunghissimi e la vita contadina di Naruse (Summer Clouds) e le sue passeggiate nel bosco; fino alla poesia di Kinoshita e alla sua nostalgia per un passato perduto.

Imamura orchestra l’epica quotidiana alternando scene d’orrore e momenti intimi, quieti, d’illusione: la narrazione si intesse di flashback a ricordarci che passato e presente coesistono, e quel “bagliore” maligno è materia quotidiana, presenza viva e letale nella mente e nel corpo dei protagonisti. Yasuko lentamente si spegne: il corpo si macchia di tumori, i capelli cadono. Non c’è enfasi, ma si esce dalla visione provati, con la sensazione di aver avuto accesso a una visione d’inferno in cui i semplici si piegano al martirio, e di aver attraversato un paesaggio alla William Blake in cui “l’anima della dolce gioia non si potrà mai insozzare”.

VOICES IN THE WIND di Nobuhiro Suwa

Presentato alla Berlinale del 2021, Voices in the wind (2020) è un’opera di grande bellezza e che certamente meritava una distribuzione italiana. Diretto da Nobuhiro Suwa, il film (in originale “Il telefono del vento”) segue il peregrinare di Haru, adolescente sopravvissuta allo tsunami del 2011 e sofferente per la perdita della sua famiglia: madre, padre e fratellino. Senza più riferimenti né affetti, Haru inizia un viaggio accidentale attraverso il Giappone: guidata non da volontà, ma da un senso di abbandono che la precipita lungo le strade o in compagnia di sconosciuti. Priva di un soffio vitale, anche lei “già morta”, presenza fantasmatica e segnata in viso dal dolore, Haru è una Madonna dal volto rigato dalle lacrime. L’interpretazione di Motola Serena è sconvolgente: la sua Haru esprime una sofferenza spirituale e mistica, che la distacca dalle cose del mondo. Il corpo cade, c’è quasi un’impossibilità di stare in posizione verticale: come scriveva Sylvia Plath, la ragazza cerca naturalmente il cedimento orizzontale, il contatto con il suolo, la terra, una conversazione finale coi fiori.

Il regista Suwa muove la macchina da presa in grande libertà: tra strade e paesaggi naturali, tra chioschi e bar dove Haru viene sospinta per inerzia dallo scorrere delle cose. Volti, incontri: chi si cura di lei, chi cerca di violarla. Suwa ama l’improvvisazione e filma dialoghi interrotti, cerca l’emozione che si annida nella parola e la spezza. Talvolta, in interni, blocca Haru nel carcere del suo dolore, inquadrandola come cosa tra le cose, imprigionata tra le geometrie di una parete, marginalmente come una presenza invisibile. Ma più spesso segue il suo girovagare documentando, macchina a mano, la condizione di erranza della ragazza, il suo essere corpo estraneo in una terra che assomiglia a un limbo. La condizione umana è quella del desiderio mancato, di una tensione struggente che possa cancellare la sofferenza: raggiungere i propri cari, superare la separazione dall’amore, toccare la morte per abbattere il confine tra le dimensioni. Dopo aver conosciuto altri sopravvissuti, dormito su treni e sedili di auto, Haru giunge al “telefono del vento”, situato a Ōtsuchi, nella regione di Tōhoku: lì, ogni anno, migliaia di persone vanno a cercare una conversazione con chi non c’è più, per sentire la voce che gli è cara. Nel soffiare del vento, chi può dire che non siano proprio i morti a sussurrare parole di conforto?

PERFECT DAYS di Wim Wenders

Wim Wenders trasferisce in Perfect Days tutto il suo amore per una cultura – e un cinema – osservati lungamente nel corso del tempo. Ed è significativo che anni di studio, riflessioni e uno sguardo meticoloso – in parte incantato, in parte entomologico – confluiscano in un’opera semplice e apparentemente fatta di nulla. Mu, identificato dall’ideogramma 無, quel niente cui aspirava Ozu (al punto da sceglierlo come epigrafe finale della sua esistenza) è anche il centro di Perfect Days, un film che fa del suo protagonista l’emblema di una vita in comunione con il tutto, vivente tra le cose viventi del mondo, devoto al proprio quotidiano naturalmente ripetitivo. Così come il sole sorge ogni giorno, Hirayama leva lo sguardo al cielo e sorride. Dopo i riti preparatori – la cura personale, la predisposizione di divisa e attrezzi – Hirayama inizia la propria giornata, ascoltando Lou Reed, Patti Smith, Van Morrison. Wenders posa l’occhio della macchina da presa sul volto di Yakusho Kōji, tra i pochissimi attori in grado di portare sulle spalle questo “nulla” e farne pieno cinema: un viso che esprime ogni sfumatura emozionale e si fa paesaggio, manifestazione di pensiero e sentimenti nella loro fuggevolezza trasformativa.

Così come la strada scorre, mentre Tokyo mostra i suoi volti più differenti – dai grandi palazzi che si tagliano silenti, agli angoli brulicanti, tra luci e scorci ripresi in campi lunghi o dettagli – le percezioni si affastellano rapide in Hirayama, scintillando negli occhi in movimento o manifestandosi nella piega delle labbra. Yakusho, questo attore straordinario che, come notò Kurosawa Kiyoshi, mantiene sempre un’aura di mistero indecifrabile (caratteristica, questa, anche del volto pensoso di Hara Setsuko), è l’uomo comune che nella sua riservatezza cela un mondo infinito e imperscrutabile. Nella cura dei suoi gesti vi è un senso d’orgoglio e dignità muti, e i suoi ritorni a casa, sempre uguali, sempre scanditi da tappe prestabilite (il bagno pubblico, la cena nel ristorante) lo conducono nel rifugio di una casa-anima, illuminata da un’abat-jour, dove il silenzio si accende di immaginazione (nella lettura di Faulkner o Patricia Highsmith). La vita di Hirayama è pura e immaginifica: e un’esistenza così interiore e luminosa non può che essere ricompensata da notti senza fine, in cui prendono vita i fantasmi dell’ombra. I sogni di Hirayama sono tra le cose più belle che ci è dato vedere in Perfect Days, una sorta di accesso all’inconscio, allo spirito denso e fluttuante dell’uomo. Wenders filma le ombre cogliendone la filigrana evanescente, il movimento tremulo: sembra quasi di rivedere certe inquadrature di Mizoguchi e Ozu, registi altrettanto attenti al movimento di ombre e riflessi in cui condensare una vita più profonda e spirituale.

Perfect Days ci consegna la sua esperienza più vera in questo cinema notturno, fantasmatico, velato di ricordo e desiderio. Meno interessante, invece, è l’attitudine innegabilmente occidentale con cui il regista guarda al Giappone e alle sue abitudini, romanticizzandole – o, in altri casi, riprendendole con l’indole del fotografo avvezzo alle diversità e pronto a coglierle. Nel mostrarci Hirayama, il regista non si discosta mai da una visione ideale: il suo protagonista è privato del diritto alla contraddizione, o all’errore, o all’impulso, ed è solo grazie all’interpretazione complessa di Yakusho che il personaggio evita di diventare cliché. Nell’abnegazione a un lavoro umile di cui Wenders ci risparmia gli elementi principali – gli escrementi – Hirayama compie un rito assolutorio, terminando la giornata in un sorriso finale di comprensione, perdono, distanza dal tutto. Nei bagni lungamente strofinati non c’è traccia di odori o sporcizia: Hirayama arriva ad utilizzare le mani nude per raccogliere piccoli rifiuti dal pavimento.

In questi dettagli è difficile non ravvisare la condiscendenza del regista e la sua romanticizzazione di un lavoro “basso” al punto da scartarne gli elementi che potrebbero infastidire lo spettatore. Se nel rappresentare le classi più umili il Kaurismaki di Foglie al vento mostrava, con grande naturalezza, tutto ciò che piega e umilia gli esseri umani (come il sangue, la polvere, la fatica, la pericolosità di un cantiere), al protagonista di Perfect Days è negato l’escremento, il sudore, la macchia sulla tuta da lavoro.
Con le stesse mani e con la stessa uniforme, Hirayama consuma il suo pasto quotidianamente. Wenders lo inquadra mentre fotografa alberi e natura con un apparecchio analogico; e se nello spirito giapponese è autentica la comunanza con le cose e lo stupore di fronte a un fiore che sboccia, si avverte la sottile banalizzazione wendersiana, il suo sguardo inevitabilmente occidentale.
La divisione in brevi capitoli, la poetica della semplicità, sebbene affrontati da Wenders con passione sincera, a tratti si offrono come un “compendio giapponese”, un manuale per occidentali alla ricerca dell’ “experience” a misura delle proprie aspettative. Resta, però, la grande interpretazione di Yakusho, capace di offrirci uno dei finali più belli del cinema mondiale degli ultimi anni, reggendo un close-up in cui rivelarsi fino alle lacrime e mettersi a nudo nella verità.

FOGLIE AL VENTO di Aki Kaurismäki

I miei film possono sembrare tutti uguali, ma io cerco di creare qualcosa di nuovo ogni volta: come fa il pittore che dipinge la stessa rosa, sempre la stessa, e ogni volta arricchisce la propria visione.” Come Ozu, che rilasciò questa dichiarazione a proposito del suo cinema, Kaurismäki ferma i suoi “universali” nell’incessante trasformazione delle cose. La sua filmografia ci consegna un universo dai tratti definiti e un sistema di relazioni governate da silenzi, intensità, emozioni trattenute e un profondo, sotterraneo romanticismo. In Foglie al vento lo spettatore ritrova, come in sogno, uno spazio perduto e familiare: ci sono ancora i bar, le stanze spoglie, le panchine fredde e circondate dagli alberi autunnali. E ci sono personaggi dai volti conosciuti, su cui cade la luce della Grazia – ma anche il raggio del proiettore di una sala cinematografica, a magnificare il “breve incontro” che cambia una vita.

Foglie al vento è un ritorno: ai proletari dagli occhi velati di tristezza, alle sigarette, all’alcol in cui dimenticare la propria condizione; e alle figure femminili colme di dignità, piegate dallo sfruttamento eppure luminose e irriducibili. In più di una scena Ansa mi ha ricordato Takamine Hideko nei film di Naruse, silenziosa e consumata dal lavoro, ma con lo sguardo rivolto al futuro. I viaggi in bus o in treno di Ansa sono gli stessi di tante eroine pensose del cinema giapponese classico: su tutte, la Reiko di Yearning (1964).
Kaurismäki racconta “la stessa storia” così come Shakespeare, in un sonetto, “sempre dice ciò che è stato detto”. I suoi personaggi cercano amore o una seconda possibilità, un’alternativa alle “nuvole” dell’esistenza, a quei supermercati alienanti o fabbriche in cui la polvere inghiotte gli esseri umani e le loro fatiche. In particolare, la fabbrica di Foglie al vento – con i suoi ganci minacciosi, presenze inquietanti che incombono sull’anonimato della manovalanza – viene introdotta da alcuni “pillow shots” (inquadrature di transizione) di silos e cisterne, esplicito omaggio a quel “cinema delle baracche” tanto caro a Ozu.

Su tutto ciò il regista stende il suo sguardo fatto d’amore e compassione profonda. Le mani si sfiorano, i corpi, pur impacciati, cercano un contatto. Chi ritiene che Kaurismäki sia freddo o, come mi è capitato di leggere, “poco empatico”, si è mantenuto ben distante dalle scie d’amore che attraversano i suoi film: i sentimenti scorrono e lasciano un segno di malinconia, come il bellissimo movimento di macchina che allontana Ansa da Holappa, lasciandola svanire.
Kaurismaki compone le sue inquadrature in modo meticoloso: interni scarni, un divano, un letto, una lampada dalla luce fioca e una radio d’altri tempi. In questa composizione così devota al cinema di Ozu (ma anche a Sirk, come dimostra la finestra rubata a Secondo amore, 1955), i personaggi si pongono ai margini, cose tra le cose, mentre il colore ne esalta la purezza dei sentimenti. C’è uno studio profondo di blu, rossi, gialli: ogni cromatismo è una nota emotiva. La musica, spesso diegetica, si sostituisce ai dialoghi e diviene discorso interiore.

Questa stilizzazione sublima l’avventura esistenziale e trasforma ogni più umile protagonista in “eroe” del proprio transitorio quotidiano: i destini si incrociano (e non di rado i personaggi si muovono all’unisono), i corpi fragili si feriscono (in ogni film del regista troviamo bende, lividi, sangue) e il cuore si affida all’amore di un cane. Nel cinema di Kaurismäki i cani hanno la stessa dignità degli altri personaggi, e lo dimostra il fatto che siano oggetto della medesima tecnica fotografica (del fedele Timo Salminen): la luce li colpisce da un lato, lasciandoli parzialmente in ombra, ma vi è una sorta di “aura” a circondarli, segno di laica santità. Del resto, anche il cinema di Chaplin è fatto di umanissimi angeli, smarriti tra le macerie della terra.

IL MALE NON ESISTE di Hamaguchi Ryūsuke

Parlando del suo film Ponyo sulla scogliera (2009), Miyazaki dichiarò in un’intervista che in natura “il male non esiste”. Da sempre proteso verso una nuova armonia tra uomo e ambiente, il grande animatore giapponese sottolineava l’esistenza di cicli naturali da assecondare e rispettare. Forse, anche per Hamaguchi la natura intesa come entità è priva di “male” e dotata di una sensibilità altra.

Il regista di Drive my car si allontana dai suoi caratteristici quadri urbani per inoltrarsi nel mistero delle cose naturali: una scelta nata grazie alla collaborazione con la compositrice Eiko Ishibashi, che vive in una zona rurale. Dalle differenti esperienze dei due artisti, Il male non esiste prende vita come progetto comune, riflessione sul contrasto tra l’artificialità della metropoli – con i suoi interni asettici e climatizzati, i ritmi innaturali e la progressiva “povertà” sensoriale – e la vita rurale scandita dal freddo, da delicati equilibri e dalla presenza di creature silenziose (alberi, animali). Nello script vengono trascritti episodi vissuti in prima persona dal regista (come quello dell’assemblea) e affiora, in crescendo, un grumo di violenza.

“Felice… chi comprende senza sforzo/ il linguaggio dei fiori e delle cose mute”, scrisse Baudelaire nella celebre poesia Elevazione, del 1857. In realtà nel film di Hamaguchi non esiste una “felicità” per chi abita nella natura, ma la tensione a un’armonia, una quotidiana operosità all’interno di una natura-cosmo dai tratti alieni e dai propri codici. Uno degli elementi più affascinanti del film è senz’altro il carattere animistico e inquieto del paesaggio naturale, che ci appare di per sé un “corpo” che respira, sibila, e talora pare emettere un sinistro movimento musicale di disappunto nei confronti della presenza umana.
Il piccolo nucleo familiare composto da Takumi e sua figlia Hana – segnati dall’assenza della figura materna e affettivamente trattenuti, afasici – ogni giorno è impegnato in un “viaggio conoscitivo” tra rami invernali, coltri di ghiaccio e specchi lacustri circolari e silenziosi. La luce e il gelo del paesaggio lo rendono parte di quell’universo astratto e sconosciuto che ci ospita. Il bellissimo incipit del film crea qualcosa di raro – una perfetta corrispondenza tra immagine e suono, tanto che sembra di assistere a un’inquietante sinfonia prodotta dalla foresta stessa. Hamaguchi lavora per confondere lo spettatore, mosso dall’intenzione di intensificare le sue capacità percettive ed emozionali: per molti aspetti il film ha carattere iniziatico.

Il piano sequenza iniziale, così come altri movimenti misteriosi – il camera car lungo il sentiero, o altre immagini di cui ci viene rivelato il carattere “soggettivo”, servono a sovvertire il nostro senso comune e ad aprirci all’esperienza della natura. Pervasi dal bianco della neve, dal cristallo dei ghiacci e dall’intrico dei rami (che sembra quasi comporre un linguaggio grafico, un alfabeto) procediamo lungo il film con un senso di stordimento, talora inebriante, altre volte colmo d’angoscia.

La natura di Hamaguchi, profondamente espressiva e dotata di una presenza arcana, ha molto in comune con la foresta minacciosa di Charisma (1999) di Kurosawa Kiyoshi: anche in quel caso ci trovavamo di fronte a un mondo naturale “inaccessibile” agli inesperti, eppure di grande e rovinoso magnetismo. Nel film di Hamaguchi, come in quello di Kurosawa, lo spazio ambientale lascia emergere scontri, caratteri: la sensazione è quella di un mondo dalla purezza intangibile e severa, eppure estremamente fragile e turbato dalla presenza umana. Mentre sullo schermo appare volto di un cervo, o scorre il reticolato dei rami contro il cielo, ci chiediamo: chi davvero guarda, chi viene guardato? Il male non esiste ci dà la sensazione di essere giudicati dagli alberi, osservati da un universo cui l’essere umano non riesce ad aderire se non portando un cumulo pulsionale irrisolto.

LA MUSICA DI GION – GION BAYASHI (1953) di Kenji Mizoguchi

Gion Bayashi (La musica di Gion, 1953) di Mizoguchi Kenji è un film bellissimo e complesso, che in soli 85 minuti posa il suo sguardo sulla tradizione delle geishe e sulla loro vita, dall’apprendistato alla maturità, nel quadro del Giappone del dopoguerra. La sensibile e raffinata regia di Mizoguchi cala la realtà di queste ragazze in un contesto impalpabile di bellezza e cultura tradizionale, tra canti, danze, ampi interni adornati da tendaggi trasparenti e preziosi; ma allo stesso tempo rivela subito la brutalità del mestiere, che prepara le giovani con la massima severità solamente per farne preziosi trastulli destinati al consumo maschile.

Ancora una volta, come spesso accade nel cinema giapponese, le donne vengono ritratte in tutta la loro profondità e fierezza: Miyoei e Miyoharu (le stupende Wakao Ayako e Kogure Michiyo) sono due protagoniste combattive, duramente messe alla prova dall’esistenza, ma colme di dignità.
In particolare, il personaggio di Wakao Ayako contiene il germe dell’inquietudine e l’anelito alla libertà propri di tutta la gioventù del dopoguerra. Se l’adesione di Miyoei all’apprendistato è condotta con totale rigore, il rifiuto di ridurre il proprio ruolo a semplice prostituzione è altrettanto fermo. Assalita da un cliente che vuole possederla, Miyoei lo combatte fino a mordergli le labbra; e l’immagine che segue la collutazione – con Miyoei bellissima e sconvolta, i capelli ornati dai fiori e la bocca sanguinante – contiene tutta la natura “ossimorica” della vita della geisha, educata alla raffinatezza e costretta a subire gli impulsi maschili più turpi.
Altrettanto bello, ma meno “ferino” del ruolo di Wakao (che per tutta la sua carriera incarnerà la duplice natura femminile, innocenza e selvatichezza), il personaggio di Kogure: una geisha più esperta e amareggiata, segnata dalla malinconia e con un istinto materno che la porta a proteggere il destino della giovane Miyoei. “La parte più nera di questo mestiere mi ha avviluppata”, dice Miyoharu, consapevole della propria “caduta”.

Mizoguchi filma con grande delicatezza, inquadrando le figure umane dietro la trasparenza di una tenda o incorniciate in interni-prigione in cui si consuma un destino segnato: la scrittura filmica del regista è invisibile, eppure segue, accompagna, scruta o ci allarma con grida fuori campo. Secondo alcuni critici si tratta di una regia impassibile e anti-sentimentale: ma a mio parere i volti delle due interpreti, ripresi da una “distanza”, recano un dolore profondo che lo spettatore vive per tutto il film. Tra le due donne c’è una profondissima solidarietà, un amore che le lega in un silenzioso patto di reciproca protezione e comprensione; mentre il mondo maschile è rappresentato egoista e ottuso, incline alla ricerca immediata del piacere e cosumato dall’avidità.

UN COLPO DI FORTUNA – COUP DE CHANCE di Woody Allen

Un piccolo trionfo di decoupage classico; una sceneggiatura modellata sulle strutture compiute e perfette della vecchia Hollywood, con dialoghi taglienti alla Billy Wilder e un amore nei confronti dei thriller “di mestiere” alla Anthony Mann. L’ambientazione è una Parigi “ideale” (secondo la lezione di Lubitsch), tra strade, bistrot, piazze e negozi dalle insegne caratteristiche, ma anche in quei parchi di cui Allen non può fare a meno: è tra panchine e déjeuner sur l’herbe che si consumano tante romances alleniane.
In Coup de chance torna, in forme nuove e vive, il cinema del passato – non solo Hollywood, ma la nouvelle vague, le passeggiate rohmeriane, le figure femminili che si interrogano e riflettono sulla propria identità, come la Cléo dell’omonimo film di Agnès Varda. Allen ripercorre ancora una volta gli elementi tipici della sua poetica: l’amore, il tradimento, le bassezze della natura umana e soprattutto l’irrazionalità dei sentimenti. Se la città è il contenitore ordinato e lussuoso, il consorzio umano che lo abita vive di turbolenze interiori, impulsi irrazionali, raffinate crudeltà (come la caccia al cervo o le cene a base di foie gras).

Su questo panorama cupo, interpretato da piani sequenza leggeri, immagini allo specchio e profondità di campo, Allen stende la sua ironia: ecco allora l’umorismo irresistibile di caratteri e situazioni (come i grotteschi investigatori), i vizi infantili (il trenino elettrico) e soprattutto l’intelligenza di un personaggio “comune” che si affida solo alla propria intuizione (come accade in tanto “cinema del sospetto” alla Hitchcock).
Coup de chance sorprende per affilata precisione e per lo sguardo ormai disincantato su un’umanità che ricalca miti e tragedie shakespeariane (meravigliosa l’interpretazione “nera” di Melvil Poupaud), mentre il caso si fa beffe di ogni illusoria volontà di controllo. Un esercizio di stile, un conte moraux dove moraliste, secondo la definzione rohmeriana, “è qualcuno interessato alla descrizione di ciò che accade dentro l’essere umano.”