BABADOOK di Jennifer Kent

baba2Curato nei dettagli, pulito nell’immagine, The Babadook è un involucro di dichiarata propedeutica al genere horror, un film manifestamente citazionista la cui chiave risiede nella diligente riproduzione tecnica di classici del passato. La confezione smagliante e rarefatta cela un vuoto interiore, un talento da tecnica pubblicitaria. Nel film si riconoscono molteplici influenze, dal Tim Burton di Beetlejuice, a Ghostbusters di Reitman (una inquadratura in particolare), al gotico dei disegni di Edward Gorey, a svariati topoi artistici di Mario Bava fino al fulciano Quella villa accanto al cimitero.
Bava, su tutti, è la fonte d’ispirazione più scoperta: il film Shock (1977) viene riprodotto nelle atmosfere, inquadrature, parti della trama e moltissime tecniche.
Il montaggio di Babadook, inattaccabile professionalmente, procede per convenzioni nella costituzione di un collage che evolve, prevedibilmente, nel raggiungimento di un climax lucidamente esteriore. Si ha la sensazione, guardando Babadook, di assistere ad un film in cui il linguaggio divora il cuore stesso del genere, invece di metterlo a nudo: una furba pianificazione stilistica e produttiva in cui non serpeggia quell’unheimlich che è il vero turbamento degli incubi baviani.
Non bastano i sotterranei, gli armadi, le crepe nei muri, e un direttore della fotografia colto e preparato per riportare in vita il fantasma strisciante, inafferrabile, osceno degli horror italiani del passato. Al controllatissimo Babadook manca proprio l’oscenità, il gusto libero e perverso di una paura che sfugge ad ogni direzione: quell’aura d’inferno che brilla impalpabile.