PETERLOO di Mike Leigh

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E’ facile individuare i difetti di Peterloo: si tratta di un film lungo, povero d’azione e estremamente fondato sulla parola; inoltre presenta una divisione manichea tra la purezza delle classi lavoratrici e la disumana crudeltà dei potenti. Ma il film di Leigh possiede una vitalità, vibrante di cinema e di impegno civile, nella quale i difetti del film si sciolgono per trasformarsi in stile.
Leigh è uno dei veri, grandi artisti in grado di mutare il proprio risonante messaggio politico in arte; per questo motivo Peterloo è una gioia per gli occhi, mentre la sceneggiatura del film, con i suoi lunghi flussi verbali, sembra ispirarsi al poema di Percy Bysshe Shelley “La maschera dell’anarchia” (1819), scritto dal poeta subito dopo il sanguinoso evento.

Così come Shelley, Mike Leigh realizza, con Peterloo, un visionario e magnifico poema volto a scuotere le coscienze e dipingere, in forme quasi fiabesche e allegoriche, i protagonisti di quel periodo contrastato, conclusosi nella violenza pià atroce e ingiustificata. Da “poeta e letterato”, oltre che regista, Leigh sente l’esigenza di forgiare figure archetipiche nella messa in scena del suo popolo innocente e sfruttato: e in Peterloo troviamo uomini, donne, eroi; madri e padri luminosi di innocenza, giovani vittime, agitatori idealisti, pacifici o incendiari.

Il linguaggio utilizzato è spesso “alto”: anche nei comizi più poveri, l’oratoria tende ad un’aulica fluidità. Leigh sottolinea la funzione della parola come strumento politico di educazione, presa di coscienza, vento che spazza le ombre dall’anima: la parola unisce, illumina e conduce alla liberazione. Il regista quindi si prende tutto il tempo necessario e la libertà di schiuderci quasi in tempo reale l’effetto del “verbo” su un popolo piegato; ci mostra la “parola in azione” perdendo sicuramente il pubblico più impaziente, ma restando fedele alla sua visione.
Contemporaneamente, il suo innato sguardo d’artista trasfigura figurativamente ogni scena, creando tanto tableaux frementi di vita e d’aria, dai colori e dalla composizione di ispirazione pittorica (grazie soprattutto alla fotografia di Dick Pope), quanto sequenze in movimento di straordinaria bellezza e produttrici di senso sia storico che simbolico: si veda la claustrofobica sequenza della cattura dei “radicali” Bagguley e Johnston, con una fuga all’interno di un budello chiaroscurale e il seguente pestaggio da parte delle autorità.

Il film di Leigh è sì un affresco storico, ma arde di presente e ogni immagine, ogni dialogo estendono la propria forza alla contemporaneità. Peterloo è allo stesso tempo racconto elevato a mito, parabola dalla radice storica e visione artistica in cui passato e presente si compenetrano.
La bontà della classe lavoratrice, i volti femminili ora deturpati dall’abbruttimento della povertà, ora affisi in una muta speranza, concorrono nella creazione di un immaginario religioso; Leigh li vela in una nebbia atemporale che ne immortala il beatifico martirio. Sul versante opposto, la crudeltà grottesca dei vari esponenti del governo si traduce in corpi curvi e caricaturali, deformazione espressioniste del viso, comportamenti regressivi sino ad una perdita quasi comica del dato umano: non c’è dubbio che la scelta di Leigh sia quella di un profondo, radicale antirealismo in grado di suscitare una reazione emotiva e intellettuale nello spettatore. Cinema come visione esortativa: ma sempre grandissimo cinema.

ESCAPE ROOM di Adam Robitel

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Una trama appena accennata, già vista in tante produzioni similari: eppure Escape Room riesce, partendo da una scrittura debole, a distinguersi per carattere e cura formale. Il pregio del film sta nel suo volersi ostinatamente elevare dalla mediocrità dei teen horror mediante una studiata elaborazione dei materiali a disposizione, organizzati sulla base di un’idea, una visione; ed è molto di più di quanto il genere, serializzato da anni in una produzione sciatta e passivizzante, ci abbia offerto di recente.

Il regista Adam Robitel, innanzitutto, opta per una successione cronologica non lineare che gli permette di economizzare il tempo e sfruttarlo a fini tanto strutturali quanto emotivi. Escape Room funziona secondo una struttura circolare aperta: Robitel mantiene il dominio sul racconto, eppure allo spettatore è lasciata la possibilità di muoversi liberamente all’interno dello sviluppo narrativo. Il regista non inchioda il suo pubblico alla poltrona della mera ricezione degli eventi, ma lascia crepe, ipotesi in un sistema che consente interazioni.
A questa gestione del tempo si unisce un’affascinante fluidità spaziale: Escape Room organizza le sue “stanze” con una soluzione di continuità orizzontale – i passaggi sono “porte”, aperture nelle pareti – ma il regista tratta lo spazio nella sua interezza; lo sguardo piomba in cadute verticali, verso l’alto o verso il basso; si apre ad una pluralità di direzioni, si muove attraverso entrate, varchi, vie di fuga.

Lo specifico di Escape Room – se vogliamo, anche il suo limite – è quello di essere cinema illusionistico: il film di Robitel è l’ultimo epigono di tutto quel cinema che nasceva dai luna park, dal meraviglioso che da esso sprigionava e che aveva nel “mago” Melies il suo più illustre rappresentante.
Escape Room è dunque cinema-casa degli orrori, brillante e divertito; ma anche una cosciente osservazione sul potere del cinema, sulle sue responsabilità nella perversione dello sguardo. Nel film è palpabile una freschezza, l’entusiasmo di un regista che vuole offrire ai suoi spettatori un’esperienza emozionale “immersiva” (parallela a quella dei soggetti della narrazione); ma allo stesso tempo ci troviamo di fronte ad un’opera che riflette sul valore della finzione nella contemporaneità e sulla labile linea che, a livello percettivo, la separa dal reale.

BEETLEJUICE (1988) di Tim Burton

Il viso di Keaton/Beetlejuice ha un make up sporco, offensivo: una faccia di fango e gesso complementare al suo abbigliamento avanguardistico a righe bianche e nere. Beetlejuice è un segno grafico inconfondibile, è anarchia emersa dalla terra per uccidere il chiaro di luna e rivoluzionare immaginativamente il mondo circostante; e poco importa che Beetlejuice sia un perdente, un outsider scomodo ai vivi quanto ai morti: il personaggio racchiude l’essenza borderline del cinema di Burton, un cinema che fa piazza pulita della mediocrità del contesto sociale in cui prende forma, trascendendola con un forte impulso creativo.beetle2Il film è tra le opere migliori di Burton e dispiega in poche inquadrature lo scheletro gotico/espressionista su cui si articola il suo cinema, rovesciato sullo spettatore con una spinta gioiosa e blasfema che raramente si riscontrerà nelle opere successive. Con Beetlejuice, Burton porta una visione di purezza iconoclasta derivata dallo spirito della Hammer films, che aveva studiato e amato. Di quell’innocenza Burton si faceva portavoce in quest’opera senza coerenza strutturale, episodica, disobbediente quanto l’antieroe del titolo; una sorta di riscatto artistico al suo disagio giovanile, in forma di sberleffo irriverente.
Il film ebbe una lunga gestazione. Lo script iniziale, firmato Michael McDowell (scrittore e sceneggiatore horror molto apprezzato da Stephen King) era molto più violento della versione definitiva. Nel trattamento di McDowell il tono generale del racconto era cupo ed escludeva la commedia; la morte dei Maitland era descritta graficamente, Beetlejuice veniva presentato come uno spietato omicida intenzionato ad uccidere i Deedz e stuprare Lydia, e persino il “limbo” al di fuori della casa era differente – un angoscioso vuoto in cui giganteschi ingranaggi di orologio divoravano le coordinate dello spazio e del tempo.
Burton dapprima chiamò Larry Wilson a collaborare con McDowell; poi fece riscrivere l’intero testo a Warren Skaaren, citando “differenze creative”. E’ indubbio però che la scrittura nera di McDowell, capace di una grazia gentile anche nei momenti più efferati, fosse ammirata dal regista, che ne mantenne l’atmosfera di stupore innocente soprattutto nella descrizione dei Maitland e del pudore di Lydia, fortemente contrastanti con lo humour carnevalesco e fuori controllo di Beetlejuice.
beetle1Curato, colto, citazionista, un’esplosione fertile di contrasti, specchi, fantasie alle Escher e mostri in stop motion, il film raggruma in un nucleo di attrazione quelle linee che diventeranno “classiche” dell’universo burtoniano, nel momento antecedente alla loro formalizzazione. Ed è anche l’opera in cui la malinconia dell’autore si dispiega senza soluzione né facili consolazioni disneyane. Nell’apparente composizione finale dei dissidi, la rottura io/mondo espressa in Beetlejuice è insanabile ed il disadattamento totale, per i morti quanto per i vivi. In questa fase delicata ed iniziale del suo sviluppo come autore, Burton cercava di ancorare e far convivere la sua sensibilità all’interno della realtà; prima di arrivare all’inoffensivo Mad Hatter abbiamo le incazzature di Beetlejuice. Michael Keaton, suggerito da David Geffen (Burton avrebbe voluto Sammy Davis jr.) in soli 17 minuti sullo schermo dà vita al ruolo più difficile e definitivo della sua carriera. Gran parte delle battute di Beetlejuice furono filmate in presa diretta: Keaton è perfetto nella sua incarnazione contemporanea della malvagità: orribilmente mediocre, seriale, pubblicitario. Come “Bio-esorcista”, non è differente da un venditore di automobili. La sua ipocrisia strisciante, il suo mercanteggiare impediscono l’idea di serietà persino nel male – Beetlejuice è un buffone, ed in questo persino amabile, e umanamente frustrato: conscio della sua insufficienza, nei suoi monologhi si lascia andare ad elettriche esplosioni di rabbia.
La pagliacciata di Keaton è l’aspetto più tragico del film: nell’ America dei sobborghi nemmeno il male ha più una sua dignità.
Beetlejuice è il lato demoniaco e “umano” del cinema di Burton, il suo distillato lunatico e scorretto, generoso di emozioni in rivolta, prima della rarefazione estetica del suo immaginario.

LA CASA DI JACK di Lars von Trier

Matt-Dillon*****
Questa non sarà che una prima e rapida riflessione su un film che, a mio parere, è tra le opere più importanti del decennio; La Casa di Jack si staglia immediatamente come corpo estraneo nella produzione cinematografica blanda e condiscendente dell’anno, il cui comune denominatore è stato il riparo in una “medietà” etica che soddisfacesse il passivo desiderio di serenità dello spettatore (cinema-comfort, allo stesso modo in cui esiste il comfort food).
Il film di Lars von Trier è un vero sturm und drang, condotto però con la disciplina della matematica, della filosofia, della musica (la presenza intermittente di Glenn Gould è emblematica) e in forma di dialogo platonico. Se per alcune opere l’uso della voce fuori campo costituisce un problema (troppo didascalica, oppure invasiva), ne La Casa di Jack si realizza una perfetta fusione di immagine e colonna verbale; in tal senso, Von Trier ambisce a realizzare un nuovo tipo di film, in cui gli elementi concorrono a creare una sorta di “quarta dimensione” (del pensiero) nell’esperienza dello spettatore. È richiesto un pubblico attivo e pensante, pronto ad elaborare la quantità di informazioni fornite dal regista.

Von Trier intesse il suo lucido “discorso” in una forma che è allo stesso tempo passata e presente: il dialogo classico si lega ad un flusso visivo fatto di pulsazioni digitali – montaggi di fotografie, dipinti celebri, paesaggi, disegni preparatori, studi architettonici, cattedrali; immagini come “corporee illustrazioni” (direbbe Emily Dickinson) del pensiero; frammenti di discorso che accompagnano i “cinque incidenti” del film e vedono Jack e Verge/Virgilio impegnati in un confronto sul Male che ha carattere etico quanto estetico.
La visione di Jack è quella del Male in forma di Arte ultima: l’omicidio come Forma perfetta, sorta di riposo finale in cui trovano un fine tutte le cose. In realtà il film ci mostra la sua frustrazione al fallimento dell’obiettivo e le sue riflessioni sul mondo come atomo opaco di cui, con le sue azioni, egli cerca di ripristinare una valenza artistica.
Von Trier sottolinea anche, in modalità ferocemente umoristiche, la stupidità dell’umanità, quasi da volerci far riflettere sulla “responsabilità morale” della vittima.

William Blake, poeta e pittore mistico e rivoluzionario, le cui tavole vengono proposte in vari momenti del film, scrisse: “Sarebbe meglio per te uccidere un bimbo nella culla che cullare desideri inattuati” (Il Matrimonio del Cielo e dell’Inferno, 1793). Questo principio, che nella visione di Blake si inserisce nella sua fede nell’Immaginazione come strumento di liberazione dai limiti umani, viene vissuto in senso letterale da Jack; la sua vita è protesa al perseguimento di un perverso ideale di azione, in nome del trionfo dell’io e della sua energia dionisiaca.

Ne La Casa di Jack viene reiterato il discorso dell’importanza della materia: contemporaneamente, Von Trier interlaccia materia cinematografica “alta” e “bassa”. Sono presenti scene ispirate al cinema di genere – da Maniac di William Lustig ad una variazione su The Human Centipede nel prefinale; ma c’è anche L’Uomo che ride di Paul Leni, che sembra trasparire dall’agghiacciante ricomposizione del volto del bambino; fino all’architettura finale dei corpi ammassati (un’immagine che produce memoria storica), eretti a costruire una “casa perfettamente abitabile” secondo le parole di Verge.

Colpisce, nella rappresentazione del male, la voluta scelta anti-cinematografica: esattamente sulle orme dell’hitchcockiano Frenzy, Von Trier sceglie di mostrare gli omicidi nel loro macabro realismo, privo di lussureggiante glamour: le vene rigonfie sulla fronte delle vittime strangolate, la deformazione dei visi, la pesantezza dei corpi, la lentezza del processo di rimozione del cadavere.
Il finale è un’apertura in una cavità che diventa inevitabile precipitare: c’è uno struggimento in questa fine, uno sguardo di disperata commozione di fronte all’impossibilità dei Campi Elisi, la dichiarazione della qualità infernale del mondo. Ed il frame negativo, quell’evidenza demoniaca che ci viene offerta dalla fotografia, non lascia scampo.