TENET di Christopher Nolan

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Nolan ha ideato Tenet nel corso di dieci anni e ne ha impiegati cinque per trasformare il suo libero immaginario nella sceneggiatura definitiva. Questa dedizione alle creazione di un mondo personale e complesso, volto ad ampliare i confini del visibile, pone Nolan sul piano dei grandi registi cui dobbiamo la resistenza del cinema.
Mentre Nolan concepiva e scriveva Tenet, trionfavano la serialità televisiva, la creazione di epos e mitologie dalle trame capillari e tortuose, però razionalmente ricomponibili in una struttura finita e non frustrante per lo spettatore televisivo.

Nolan, al contrario, ribadisce ancora una volta il suo essere radicalmente autore di cinema: Tenet, a detta di molti, delude in quanto offre al pubblico solo l’illusione di un controllo, di una possibilità di connessione delle parti, mentre disattende totalmente quella pienezza di comprensione che ormai rappresenta il climax dell’esperienza dello spettatore. In Tenet c’è sempre un anello che non tiene, un buco di trama (o abisso) in cui precipitare. Nolan sottrae certezze e riferimenti: nel suo immaginario siamo solo degli ospiti, la sua fisica ci sfugge. Restiamo aggrappati alla storia come James Stewart alla vertigine.

Assecondando la lezione di “Morfologia della fiaba”, il celebre testo dell’antropologo russo Vladimir Propp, Nolan individua un Protagonista (Washington), un aiutante (Pattinson; Propp direbbe “generalmente un mago, la persona che aiuta l’eroe nella sua ricerca”), un villain (Branagh), una Principessa in difficoltà (Debicki); inserisce i personaggi in una serie di peripezie – la “rottura dell’equilibrio” – sino a giungere al ristabilimento finale. Nel suo percorso, il Protagonista è impegnato nella ricerca di un “oggetto magico” che ha valore salvifico per la collettività.

Ma in questa ubbidienza agli schemi narrativi proppiani, Nolan immette la sua volontà artistica renitente alla norma, alla narrazione classica ormai degenerata in convenzionale, all’ovvietà di sequenze intuibili dallo spettatore. Nolan è un uomo del futuro romanticamente legato al passato, cui torna per contaminarlo. William Blake scrisse: “L’eternità è innamorata delle opere del Tempo”, e questo è ciò che fa Nolan con il suo cinema. Questo regista, troppo facilmente e troppo superficialmente tacciato di freddezza, è in realtà profondamente ed emotivamente legato al proprio tempo. Il suo pensiero è tanto vasto da contenere un passato ed un futuro che egli trasforma in estetica applicata alla contemporaneità.

Jean Cocteau negli anni ’30 teorizzò la bellezza poetica della reverse-motion e ne Il Testamento d’Orfeo (1960) lo vediamo incedere all’indietro utilizzando la tecnica della sequenza invertita, riportando fiori morti alla vita, petalo dopo petalo. Il cinema surrealista aveva già investigato i temi centrali nell’opera di Nolan – il valore del sogno, la presenza di una realtà multidimensionale, la rottura romantica delle barriere del tempo.
Nolan è un homme-cinema, secondo la terminologia cara alla nouvelle vague, e contiene all’interno della sua visione la poetica surrealista della reverse-motion. La sua grande intuizione è applicarla alle sequenze d’azione, reinventando un cinema action nei confronti del quale egli si dimostra profondamente affascinato; e non parliamo solo delle raffinatezze di 007, di cui Nolan conserva l’eleganza (Washington e Pattinson sono perfetti, luminosi, d’una bellezza patinata e irraggiugibile); Nolan è soprattutto attratto dall’action di serie B più sfrenato e inventivo degli ultimi anni.

Osservando le scene d’azione di Tenet, è impossibile non ritrovare l’eccesso e la visionarietà di titoli quali John Wick di Chad Stahelski (per gli stunt perfettamente coreografati), Hardcore! di Ilya Naishuller (per le sequenze in cui la mdp esplora lo spazio in POV, per un’esperienza di grande urgenza e immediatezza), Upgrade di Leigh Whannel (per l’alterazione di qualunque movimento “naturale” a favore di un nuovo movimento perturbante e alieno).

Ma non solo: ancora una volta Nolan manifesta la sua gratitudine nei confronti del cinema di Satoshi Kon. Dopo aver omaggiato Paprika (2006) in Inception (2010) – con riprese shot-by-shot o libere riproduzioni delle sue immagini – Nolan si colloca nuovamente all’interno dell’immaginario di Kon, attraverso viaggi nel tempo cinematografici (e sentimentali) come avveniva in Millennium Actress (2001).
Il corpo in movimento, secondo Nolan, possiede una leggerezza “danzata” in cui è possibile rinvenire il dinamismo artistico dei corpi nelle animazioni di Kon: la loro presenza concreta non viene ostacolata dalle leggi spazio-temporali ma entra in un flusso armonico con esse, di conseguenza non temendole, ma instaurando un rapporto ludico.

I film sono uno strumento surrealista per eccellenza: lo aveva compreso Zemeckis, che in Ritorno al Futuro (1985) scrisse i codici universali del cinema della pluridimensionalità temporale, cui Nolan attinge per creare la sua personale realtà. Nolan, in Tenet, fa danzare i corpi in differenti dimensioni temporali all’interno della stessa inquadratura. E’ il sogno più bello del cinema: annullare le coordinate in cui l’essere umano è ingabbiato, lasciare che il nostro io presente possa toccare il nostro io passato e futuro.

INCONTRO CON OLIVER STONE

stone_young“Proietteremo i vecchi film come fantasmi su un muro.”

Quella di Oliver Stone alla 56a edizione del Pesaro Film Festival non è che un’apparizione fuggevole (il regista è impegnato in una serie di incontri nelle Marche), ma comunque straordinaria. Poter parlare con un artista del suo calibro è un’occasione rara; Stone è una parte importante della storia del cinema del ‘900 e ha continuato, negli anni 2000, a sperimentare, mettendo in discussione se stesso e i propri codici (si veda il sommesso, intimo Snowden, 2016).

E’ il regista che prima di Spielberg ha rivoluzionato il cinema di guerra (a partire da Salvador e Platoon); è l’autore che ha mescolato materiali, generi e stili appropriandosi dei modi aggressivi delle news – per poter esercitare una feroce critica dall’interno – nell’iconoclasta Natural Born Killers; ha ridato forma al biopic trasformandolo in un laboratorio estetico e ideologico, anticipando il cinema spurio di Adam McKay. Ma Stone ha anche dimostrato un innato classicismo (Tra Cielo e Terra) e senso dell’entertainment puro (Ogni maledetta domenica); ha lavorato dentro Hollywood e contro Hollywood, fino a scarnificarsi e disilludersi, per tornare in tempi recenti a un cinema più autentico, spoglio, desideroso di realtà attraverso il documentario.

Nel suo percorso artistico ed esistenziale Stone non ha mai smesso di “inseguire la luce”: e Chasing the Light: Writing, Directing, and Surviving Platoon, Midnight Express, Scarface, Salvador, and the Movie Game è il titolo della sua autobiografia in uscita in questi giorni, edita da La Nave di Teseo.
“L’italiano è una lingua bella e sonora: infatti il mio libro di 320 pagine, nella vostra traduzione, è diventato di 500; però lo hanno intitolato Cercando la luce e non inseguendo. Ma non fa niente, è sempre una questione di luce.”
Il suo spirito di sfida non risparmia nemmeno il covid: Covid sucks, non sappiamo nemmeno cosa sia; è come The Blob, il vecchio film horror; ma è anche come trovarsi in un film di Lars Von Trier, dove tutti si muovono sentendosi minacciati e aleggia la morte; ma hey, tutti moriremo prima o poi, quindi vediamo di farci l’abitudine.”

Più amare, invece, le sue riflessioni sullo stato attuale del cinema: “In questo momento il movie business è morto – dead, dead, dead – ma possiamo sempre proiettare i vecchi film, come fantasmi su un muro. E qualche volta anche film nuovi, ce n’è qualcuno davvero buono: mi è piaciuto Joker, ma anche Uncut Gems e The Irishman. E’ sempre più difficile lavorare, per via delle corporazioni, del marketing…”

Chasing the light è un libro scritto dalla necessità di tornare sul passato per ripensarlo e soprattutto rivivere il sogno. “Non è forse il miglior momento per far uscire un libro, ma avevo bisogno di essere sincero con me stesso, esattamente come cerco di realizzare film onesti. Dovevo fermarmi, tornare indietro e ripensare la mia vita più consapevolmente. I primi quarant’anni sono stati importanti, fondativi: la giovinezza è il momento in cui si costituisce il sé. Da ragazzo problematico, dalla vita difficile, turbato prima dalle esperienze familiari e poi dal Vietnam, sono diventato un uomo che ha potuto concretizzare il suo sogno di fare cinema; in un solo anno, il 1987, ho realizzato ben due film di guerra, Salvador e Platoon.

Le parole più appassionate le riserva alla sua fede nel cinema come espressione di protesta: Il cinema è una forma d’arte e ha il dovere di esprimere un dissenso – politico, sociale, culturale; di protestare contro una realtà che non sente propria. Non posso fare a meno di manifestare la mia aperta critica nei confronti di una vita contemporanea così segnata dal conformismo. Sono sempre stato un ribelle, ho sempre lottato, lottato, lottato… In questo momento il governo del mio paese è molto duro, nazionalista, non vuole essere criticato; si trova in una posizione molto pericolosa. Io ho sempre espresso le mie idee senza compromessi; ho sempre sostenuto che la guerra nel Vietnam fosse una guerra stupida, e ho cercato di dirlo attraverso il cinema. Ma gli Stati Uniti hanno successivamente ingaggiato altre guerre, quindi non è servito. Si sono ripetuti gli errori del passato, ma io continuo a pensare che quel racconto andasse fatto.
Recentemente, nel 2016, ho realizzato Snowden, un’opera cui sono molto legato e che ritengo estremamente importante: ho cercato di esporre un caso reale, verità che molte persone non vogliono conoscere. Il cinema che vorrei vedere è questo: un cinema della realtà, mentre adesso siamo oberati dal fantasy: il pubblico viene rassicurato, si sente al sicuro. E’ un cinema che nasconde la verità di un’America la cui situazione è estremamente precaria.”

IN RICORDO DI WES CRAVEN

cravenChe cos’è un autore? I critici dei Cahiers, in un tempo (ormai lontano anni luce) in cui si rifletteva sull’essenza del cinema e sullo specifico del suo linguaggio, elaborarono la celebre “politique des auteurs”: trascendendo il mero approccio imitativo della realtà, l’autore è colui che trasferisce nelle immagini una visione del mondo e una poetica.
Forte di questa prospettiva, la critica francese fu così intensamente rivoluzionaria e avanguardistica da individuare l“autorialità” di registi fino allora considerati semplici prodotti del processo industriale cinematografico: Hawks e Hitchcock, ma anche Jerry Lewis e Nicholas Ray (tra gli altri) furono finalmente riscoperti e celebrati per la definizione delle rispettive estetiche, per l’impronta di uno sguardo riconoscibile e una messa in scena etico/estetica capace estrarre luce dal reale.

Oggi la critica è arenata su livelli elementari opinionistici e divulgativi; terminata la ricerca, non ci si domanda più “Che cosa è il cinema” (per dirla con Bazin) se non in un’ottica completamente autoreferenziale. Scuole e scuolette critiche si spartiscono feudi e litigano sulla presunta supremazia di un regista sull’altro; e intanto il cinema va avanti senza di loro.
E accade che un artista come Wes Craven sparisca lasciando dietro di sé una scia di commenti distratti e inadeguati, un brulicare di impressionismi che si sorregge su un’unica arma, quella del paragone: “E’ morto Wes Craven, mai grande quanto (un nome a caso tra Carpenter, Friedkin, Argento, ecc)”. Oppure: “E’ morto Wes Craven: tecnicamente bravo, ma di certo non un autore”.
angelaAllora chiediamoci nuovamente cosa significhi essere un autore.
Un regista come Craven ha letteralmente scavato il deserto per imporre un’idea di cinema horror; ha ridefinito le coordinate del genere avendo il coraggio di sovvertire persino se stesso, reinventandole ogni volta.
Dopo un inizio (rimosso dalla critica) in un altro genere esplosivo e radicale quanto l’horror, ovvero l’hard di Angela – The Fireworks woman (1975), che rappresentò per Craven uno strumento antirepressivo in senso primigenio – soprattutto dopo l’educazione nel celebre college cristiano fondamentalista di Wheaton – il suo cinema si trasformò attraverso il tempo per seguire le mutazioni del mondo: dalla brutalità postbellica di Le colline hanno gli occhi (1977), agli incubi di Nightmare – dal profondo della notte (1984), che disegnano crepe nella stabilità della struttura americana stato/famiglia, fino al sottile gioco intellettuale di Scream (1996), il cinema di Craven smaschera i paradigmi del genere horror e parallelamente mette a nudo riti, fobie e ipocrisie collettive.

Lo stesso vale per i cosiddetti film “minori” (ma Godard e Truffaut ci avevano insegnato che il “film minore” non esiste): Il serpente e l’arcobaleno (1988), Sotto Shock (1989), La casa nera (1991) o Red Eye (2005) mescolano esigenze spettacolari e bagliori filosofici, incubi antropologici e allucinazioni, tratteggiando spettri politici e l’orrore per ogni forma di repressione: psichica, sociale e dell’immaginario.
redeyeCraven se n’è andato e con lui tutto l’amore che aveva per il suo pubblico: un pubblico da coinvolgere, provocare, scioccare, trascinare in uno spazio emozionale e stilistico fatto di paura, sadismo, riflessione estetica ed estasi. Vedere un film di Craven significa ancora entrare in un mondo di cui si diventa parte attiva: si vive, si muore, si uccide.
I personaggi di Craven hanno fatto irruzione nel nostro inconscio, ma allo stesso tempo anche noi siamo entrati nel loro.

(scritto nel settembre 2015)