Saggio e intervista realizzati in occasione della retrospettiva sulla regista belga, Pesaro 1997
“Le donne sono delle maghe?” Si chiede sconcertato Alphonse/Jean Pierre Leàud ne La nuit americaine di Truffaut. Ed è certo che guardando i film di Chantal Akerman, regista belga di origine ebraica cui il festival di Pesaro ha dedicato un’ampia retrospettiva, ci si può smarrire al ritmo magico ed estatico che scaturisce dalle immagini, sature di pulsioni, in un abbraccio sensuale, corporeo, con lo spettatore.
Più di tutte le teorizzazioni critiche che hanno appesantito l’originaria istintività dei film della Akerman, valgono le parole del regista Boris Lehman: “Tutto quello che fa Chantal mi incanta e mi commuove”.
Il cinema di Chantal Akerman non è – lei stessa ci tiene a distanziarsi da interpretazioni fasulle – un cinema “intellettuale”: Chantal è una donna impulsiva, impaziente, appassionata. Dal suo esordio, nel 1968, con Saute ma ville, sino all’esperienza negativa di Un divano a New York, ogni film ha rappresentato una battaglia, una ricerca affannosa, un tentativo di mostrare le proprie esperienza ed emozioni disciplinandole in forme ordinate, geometriche, talvolta fredde: un “altro da sè” da guardare con distacco, per poi rinnovarsi. Ecco perché a film narrativi seguono saggi, documentari, film più liberi e poi ancora fiction. “Devo cercare di non ripetermi. Con i miei film, ogni volta è una lotta per non ripetere la stessa cosa… Ma non credo di riuscirvi”.
Chantal Akerman commuove ed incanta perché ha sempre realizzato film innocentemente: partendo da una frase, da un luogo, da appunti disordinati e sparpagliati per casa, come in Je, tu, il, elle; il suo desiderio di comunicare è forte, vitale e violento. Solo in un secondo tempo la scrittura muta in immagine dalla forma armonica e musicale.
Continuando a lavorare con puntiglio artigianale, Chantal Akerman è passata dall’autoaffermazione aggressiva e autodistruttiva delle prime opere “adolescenziali” (e pur sempre bellissime, cariche di follia, di immaginazione, affamate di volti e corpi) alla “danza della vita” dei film successivi; J’ai faim j’ai froid, Golden Eighties, Histoires d’Amerique sublimano in un balletto leggero, in punta di piedi, gli eventi drammatici dell’esistenza, che si tratti della disillusione della giovinezza, del desiderio amoroso inappagato, o del confronto con la propria identità di ebrea e di emigrante.
Le opere della Akerman racchiudono tutta la sua vita. Nella sua filmografia si snoda un discorso fortemente autobiografico che non ha ancora trovato conclusione; spesso le ultime inquadrature dei suoi film delimitano lo spazio simmetricamente, ma la prospettiva punta all’infinito (come in Portrait d’une jeune fille de la fin des années ’60, à Bruxelles): è come se il desiderio della Akerman di continuare a sperimentare la vita determinasse questa sospensione, preludio a nuove osservazioni e a nuovi racconti. Non a caso nei suoi film ci si sposta in continuazione in metropolitana, in auto, a piedi (qual è il senso delle peregrinazioni di Aurore Clement in Les rendez-vous d’Anna?), e gli spaesamenti sono costellati di incontri. In News from home gli sguardi dei passanti si affacciano per scrutare l’occhio della macchina da presa; la Akerman ospita il caso nelle sue inquadrature, fa irrompere il caos nei piani così rigidamente organizzati, ed è questa compresenza di ordine ed eccessi emozionali a fare del suo cinema un’esperienza unica.
La Akerman “sente” le cose, ascolta i suoi ritmi interiori: “bisogna sentire il tempo, usare il cinema in modo ontologico: con Jeanne Dilman ho voluto comunicare il mio tempo personale, soggettivo; volevo che le persone sperimentassero il film in senso fisico…”.
In Hotel Monterey questa intenzione è portata alle estreme conseguenza: la geometria si fa allucinatoria, compulsiva, il senso di smarrimento è forte. E’ cinema della verticalità e dello spazio prospettico: ogni logica spazio-temporale è annullata.
Chantal Akerman continua ad affermare che avrebbe preferito essere una scrittrice piuttosto che una regista, perchè “la scrittura precede sempre le immagini: ogni mattina mi sveglio presto e cerco di scrivere… procedo per tentativi, non riesco a pianificare tutto… Quello che voglio è avvicinarmi a me stessa attraverso i miei appunti; descrivere quello che vedo e trasformare i miei dialoghi in musica”.
(Articolo apparso in Duel n. 52 – Copyright © 1997, Marcella Leonardi)
L’AMERICA, CON AMORE E RABBIA: INTERVISTA A CHANTAL AKERMAN
Chantal Akerman è bella e irruente, e non nasconde l’amarezza per la sua recente esperienza hollywoodiana. Si infiamma mentre le chiediamo di parlarci dei problemi legati alla realizzazione di Un divano a new York.
Bisogna avere un certo carattere per lavorare in quel modo… essere molto freddi e distaccati, ed avere una grandissima ambizione, che non sia artistica ma direi sociale. Io so di non averne a sufficienza, e di non essere in grado di difendermi da queste cose. Si era creata un’atmosfera molto difficile con i produttori, una vera lotta… mi sono ritrovata a lavorare sopportando una pressione spaventosa, e non riuscivo più a capire cosa stessi facendo. C’è stata una tale violenza di relazioni che ora non so più quali siano i miei sentimenti per il film. I produttori avevano pensato di trasformarmi in una nuova Akerman, quindi quando le riprese sono terminate e si sono trovati di fronte ad un film che mescolava generi diversi, si sono sentiti traditi. Hanno detto che non avevo onorato il contratto, e che il montaggio andava completamente rivisto. Naturalmente mi sono opposta, io lavoro in un certo modo e non si può cambiare una persona… In ogni caso tutta questa tensione ha influito negativamente sul film e sul mio rapporto con gli attori. Dovevo astrarmi da tutto questo, ma era veramente difficile.
Quali sono i suoi progetti dopo Un divano a New York?
Ho girato dei corti per Locarno, sull’avvenire del cinema… Anche se non vedo nessun avvenire per il cinema, ora… Mi piacerebbe comunque fare qualcosa di completamente nuovo. Ad esempio quando ho girato D’est, ho fatto delle riprese in campagna, ed era la prima volta! Forse è l’età… Riscopro emozioni per un albero, che prima non avevo!
Torniamo a parlare dell’America: la sua prima esperienza americana era stata ben diversa.
E’ vero, gli anni a New York sono stati decisivi. Ero giovanissima, avevo ventun anni. Avevo già vissuto da sola, ma lì mi sentivo davvero libera. Dovevo cavarmela da sola e ho fatto tanti lavori. Per mangiare e per vivere… ma era esaltante. Grazie ad un’amica (Babette Mangolte, futura operatrice dei suoi film) ho scoperto il cinema sperimentale americano, che mi ha dato una grandissima libertà: ho scoperto che c’era un altro modo di fare film, e questo mi ha spinto a provare nuovi criteri. Mi ha dato una forza, un’energia da spiccare il volo! E’ grazie a ciò che ho visto e vissuto a New York che ho potuto realizzare i miei lavori. In quegli anni ho frequentato l’Anthology Film Archive, ho scoperto il teatro di Bob Wilson… E il bello è che non vi era separazione tra teatro, danza, pittura, cinema… New York era un microcosmo, ed è stato formidabile aver vissuto tutto questo quando ero ancora molto giovane. Non era Hollywood, era esattamente il contrario!
Prima dell’impatto con il cinema sperimentale di Snow e Brakhage, è stato però Pierrot le Fou di Godard ad averla folgorata, appena quindicenne. Quali sono oggi i suoi rapporti con Godard?
Godard? Non lo conosco veramente bene. L’ho incontrato tre volte nella vita, l’ultima è stata un anno fa (1996), abbiamo preso un caffè assieme e parlato per un’ora. Per me è stato emozionante…
Forse è solo la mia immaginazione, ma quando ho visto il suo Autoritratto – JLG par JLG mi è sembrato spaventosamente triste… come se avesse un rapporto autistico col mondo. Gli dissi che per me quel film era una richiesta d’aiuto, lui ha accennato un sorriso e non mi ha detto nulla.
Ancora una domanda: come mai non ama parlare dei suoi film? Ieri, durante l’incontro con i giornalisti, è stata persino aggressiva con chi la intervistava…
Ma perché è già un lavoro così grosso riuscire a fare cinema, ed io non sono brava a concettualizzare, devo continuamente ricorrere a degli esempi…
Io non so perché, ma sin dal mio primo film, nel 1968, i critici hanno pensato che stessi colmando dei “vuoti teorici”: hanno parlato di strutturalismo, di esistenzialismo… ma non è così che io lavoro, non era mia intenzione. Quando la gente non mi conosce pensa che io sia terribilmente intellettuale. Non che abbia nulla contro gli intellettuali, ma io non ho mai esercitato così il mio pensiero, non ho studiato filosofia… I miei film sono stati usati come esempio per le teorie di quel periodo; ma penso sia stata solo una questione di coincidenze storiche.
(Articolo apparso in Duel n. 52 – Copyright © 1997, Marcella Leonardi)