CRIMSON PEAK di Guillermo del Toro

crimson-peak2Crimson Peak, magnifico ritorno al gotico da parte di Guillermo del Toro, ha suscitato numerose (sebbene non prevalenti) voci negative all’interno della critica; un coro riprovevole nei confronti della sceneggiatura “debole” cui è affidato il compito di sorreggere il delirio visivo. Questo atteggiamento ricorda l’ostilità di cui fu oggetto, in passato, il nostro maestro dell’horror gotico: Mario Bava. Un parallelismo significativo, che mette in luce le corrispondenze “d’amorosi sensi” tra il regista messicano e il grande artista italiano.
Sin dalle primissime inquadrature, difatti, Crimson Peak si tinge dei rossi e dei blu de La frusta e il corpo, o mette in scena la brutalità evocativa dei paesaggi baviani immersi nelle nebbie. E come molti film di Bava, Crimson Peak è di una bellezza da togliere il fiato: cinema di vertigine.
La macchina da presa si muove sinuosa e circolare, con l’intenzione di disorientare lo spettatore, avvolgerlo in uno spazio tattile, denso. Del Toro è il cineasta contemporaneo del sogno e del romanticismo, stordisce i nostri sensi col colore, la densità stratificata delle inquadrature, la bellezza malata della morte: le farfalle, la polvere e le ragnatele sembrano uscite dalle opere surrealiste di Max Ernst. Una varietà di suggestioni visive ed artistiche si moltiplica nelle immagini, in cui si respira l’onirismo di Cocteau, la follia di Corman, il sublime della Hammer.

Contrariamente alle direttive dell’horror contemporaneo (found-footage e simultaneità), il regista messicano torna al passato, al dolore dei fantasmi, ai castelli malati di perversione, alle mura che urlano d’angoscia. Un ritorno che si fa cinema puro, di straziante bellezza scenografica: il maniero al centro della storia è tra i protagonisti più vivi mai apparsi in questa stagione cinematografica, dotato di un’anima messa a nudo nel suo pianto, nella sofferenza, nelle deformità della colpa e del ricordo.
Del Toro predilige una scarna emblematicità dei personaggi, tanto più riusciti perchè essenziali nell’incarnare un sentimento, e li pone all’interno del classicismo circolare del suo racconto. Una classicismo che molta critica ha liquidato, appunto, come “povertà di trama”: a distanza di decenni, non muta la miopia accademica di tanti recensori, che si limitano ad assensi stiracchiati di fronte ad una genialità troppo grande e sregolata per i loro occhi.
Per Guillermo del Toro la trama è un respiro abbozzato da cui far fiorire lo stupore e l’audacia visiva: è un cinema che vive di spazio, luce e colore, esaltati sino al parossismo per innalzare l’emozione alla sua massima intensità.
Crimson Peak è un film di visioni e sentimenti, cui si perdona qualche compromesso produttivo (una cgi che toglie fascino), e di cui si ammira la libertà d’approccio ai materiali d’ispirazione, da Poe a Baudelaire, da Henry James a Edith Wharton.
Del Toro, come tanti grandi incompresi (non solo Bava, ma anche Fulci, sino a Carpenter) possiede il segreto delle lacrime e del sangue.

IO SONO INGRID di Stig Björkman

ingridMia madre prendeva il cinema più seriamente della vita”, dichiara Isabella Rossellini in Io sono Ingrid, affastellata biografia dell’attrice svedese. Un motto che stride con il movente del regista Stig Björkman, che invece si dedica ad una messa a fuoco del privato.
Se della Bergman viene tracciata nei minimi dettagli la parabola esistenziale – una vita colma di eventi, meraviglie, viaggi, amori, scelte difficili compiute in nome di una irriducibile libertà – viene però trascurata la sua specifica connotazione d’attrice, l’imprinting di una professione che dilaga all’interno del privato, lo informa e lo determina. Per questo motivo Io sono Ingrid appassionerà il grande pubblico, rivelandosi deludente per i cinefili.

Nelle due ore di documentario, la Bergman appare spesso – attraverso le lettere, o le testimonianze dei familiari – come una donna che anela ad uscire da se stessa e diventare “altro” attraverso la recitazione. I ruoli interpretati le consentono di fuggire da un senso di indefinitezza personale, dai disagi della timidezza, e soprattutto dallo spleen del quotidiano. Un quotidiano che invece viene reiterato da Stig Björkman in ogni aspetto: dai filmini del matrimonio, a quelli di vacanze, momenti di relax in piscina, viaggi, intimità affettiva o cura dei bambini. Filmati, per molti aspetti, banali e comuni a qualsiasi esistenza. Una vastità di materiale biografico che nulla aggiunge ad “Ingrid”, anzi forse sottrae, nel mostrarcela come farebbe un settimanale di cronaca rosa.

Certo, in questo scavo nel privato emergono aspetti interessanti: in primo luogo l’aspirazione ad una libertà totale ed egoista, in piena contraddizione con l’idea di subalternità femminile che trionfava nell’America dei ’40 e ’50 (e che le costerà la condanna non solo dei media, ma anche politica). La Bergman ama, abbandona, diventa madre; poi sfugge, parte, lascia ai figli l’eredità di lunghissime e sofferte assenze, incapace di dedicarsi agli affetti. Il ritratto è quello di una donna dal carattere maschile (Robert Capa, il fotografo viaggiatore di cui si innamora, è troppo simile a lei), inadatta ad una vita pacificata e stabile, e pronta a mutare amori e contesti per divenire le mille personalità che conteneva nell’anima.

In tutto questo racconto, il cinema è il grande assente; o meglio, si concede brevissime apparizioni, diviene sfondo. La carriera svedese, l’arrivo a Hollywood, il rapporto con il celeberrimo produttore Selznick, l’incanto della trasformazione in star e i retroscena dello Studio System vengono quasi completamente a mancare. Poche inquadrature da Intermezzo, una scena da Dr Jekyll, una manciata di secondi di Casablanca, qualche manifesto passato in rassegna (Angoscia). Alfred Hitchcock fa una comparsata, assieme a Cary Grant o Victor Fleming.
La sensazione è quella di tantissimo materiale di repertorio che ci viene negato, per stuzzicarci solo con poche inquadrature allusive. Anche l’Italia diventa una cartolina, e del lavoro con Rossellini ci vengono offerti pochi indizi (che riguardano il “metodo” rosselliniano basato sull’improvvisazione e la sua scelta di attori non professionisti).

L’incontro con Ingmar Bergman, con cui l’attrice gira Sinfonia d’autunno, convince infine il regista Stig Björkman a soffermarsi sul “fare cinema”: le prove estenuanti, gli scontri, il confronto tra le due personalità e due differenti visioni. La chiusa è sul bellissimo primo piano dell’attrice, senza trucco e col viso segnato dal tempo: un close-up su una Bergman finalmente arrendevole, affidata alle mani del grande regista svedese. Ma si lascia la sala insoddisfatti, desiderosi di recuperare l’altra storia che non ci è stata raccontata.
“Le scelte private di un’attrice non dovrebbero riguardare nessuno; la si giudica dalla sua professione, può piacere o non piacere, si può lasciare la sala”, sono le parole pronunciate dalla Bergman riguardo alle sue vicissitudini personali, e ai rimorsi per tutto ciò che non è riuscita a fare. Io sono Ingrid invece ci inchioda al privato, lasciando a margine proprio quel cinema “più serio della vita stessa”.

HOTEL TRANSYLVANIA 2 di Genndy Tartakovsky

hotel-transylvania-2Che il cinema americano venga sistematicamente distrutto dagli executives è ormai cosa nota. E Hotel Transylvania 2, prodotto dalla Sony Pictures, è l’emblema chirurgicamente esatto dello stato di Hollywood: in un’ora e trenta, questa commedia animata mette in bella mostra le disgrazie di un cinema del tutto capitalisticamente svenduto. Difficile anche definirlo un film “sui mostri”: Hotel Transylvania 2 è un film sul product placement.
Riducendo il bambino-spettatore a mero futuro consumatore, i dirigenti Sony hanno trasformato la già mediocre sceneggiatura di Adam Sandler in un gigantesco commercial sui telefoni cellulari e sulla loro onnipresenza nella vita quotidiana. Vedere Dracula alle prese con il touchscreen, con il concetto di selfie, con la cablatura dell’intero hotel è uno spettacolo deprimente. Una modernizzazione che introduce i bambini più piccoli, cui si rivolge il film, ad un concetto ormai devastante di esistenza asservita ai mezzi di comunicazione.

Ma questo è solo il primo, e più evidente, dei problemi. C’è poi il fattore ideologico che informa tutta la storia, ed ha a che fare con un fascismo sociale che destruttura qualsiasi tentativo di diversità. Spacciandosi per film che invita all’accettazione delle differenze, Hotel Transylvania 2 invece le depotenzia tutte, riducendole ad una passiva marmellata di buoni sentimenti e imponendo una perfetta integrazione nel sistema. Se il “mostro” è la deviazione dalla norma, il lato inafferrabile della natura umana, Hotel Transylvania 2 lo priva di ogni carica eversiva e lo traduce in elemento familiare. Frankenstein o La Mummia sono marionette addomesticate, i licantropi ridotti a cani da riporto (del resto questo accadeva già in Twilight). E non esiste un “cattivo” del film: persino il temibile, ancestrale Vlad si piega alla comunità e alla famiglia. E intanto il piccolo protagonista, Dennis, è circondato esclusivamente da un nucleo parentale/familiare del tutto devoto ai suoi bisogni: al futuro consumatore si offrono cose, oggetti, feste. L’ambiente viene bonificato in modo da diventare una colonia infantile, ed il bambino cresce senza divieti né disciplina, in un immenso parco giochi che prelude alle sue necessità di adulto americano.

L’unica nota positiva di Hotel Transylvania 2 è l’animazione di Genndy Tartakovsky, immenso professionista che già nella direzione degli show di cartoon network aveva dimostrato un talento artistico originale, in grado di rivoluzionare l’animazione. Con un senso quasi futurista del movimento (dinamico sino all’isteria), e la capacità di conferire espressività persino all’uomo invisibile, Tartakovsky si dimostra in grado di creare personaggi dotati di un carattere ed un’anima che mancano del tutto alle immobili porcellane dei visi Disney (si veda Frozen). Uno straordinario artista sprecato dall’incapacità della produzione.

LA VITA E’ FACILE AD OCCHI CHIUSI di David Trueba

vitafacileNonostante si tratti di film diversissimi, La vita è facile ad occhi chiusi e Le streghe son tornate, trionfatori indiscussi ai Premi Goya 2014, sono accomunati da un sottile fil rouge che si insinua nelle trame. Entrambi i film sono declinazioni del road movie: i personaggi si ritrovano all’interno dell’abitacolo di un’automobile, e da lì cominciano a rivelarsi. Il viaggio li trasporta verso un evento eccezionale, ovvero l’incontro con una o più figure “sovrannaturali”, incarnazioni dell’immaginario: John Lennon per il timidamente sovversivo professore del film di Trueba, e le streghe nel caso degli sgangherati criminali di Alex de la Iglesia. Ma se il film di de la Iglesia è dinamite cinematica, ironia corrosiva e sguardo sociale affilato e sanguinario, che usa il fantastico per affondare nelle debolezze umane, Trueba fa un movimento opposto: trasporta il realismo e le sue creature umane nel regno (languidamente inerte) del sogno, conferendo loro un’aura di dolcezza angelicata.
I primi minuti di La vita è facile ad occhi chiusi rendono con chiarezza lo stato d’animo della Spagna franchista sintetizzandolo in tre schiaffi, cui assistono, in situazioni diverse, i protagonisti. Tre schiaffi in ambito professionale, sociale, privato; violenze che fanno esplodere il desiderio di sogno e di evasione, e accendono una scintilla di fuga, di cambiamento.
Per molti aspetti l’opera di Trueba è ancor più “irreale” – oltre che molto più debole – del trionfo meraviglioso di de la Iglesia: proprio perchè il viaggio diventa un percorso anestetico/ideale, in cui i sogni si realizzano, le difficoltà vengono superate e si verifica un “ritorno” ad uno stato idilliaco, privo di traumi. Un registro fiabesco che circoscrive il film in un ambito di pura nostalgia, cullando dolcemente sia gli spettatori che i suoi protagonisti e privandoli di un “divenire” drammatico.

Il fluire incessante delle riflessioni del professore, che raccoglie sulla strada la ragazza ventunenne incinta ed il sedicenne educatamente ribelle, avvolge in una nuvola protettiva e separata dal mondo le incertezze dei due giovani. Almeria, antica e selvaggia, è un rifugio in cui “chiudere gli occhi”, brevemente, e dimenticare lo stato repressivo della dittatura. Il vento, il mare, la forza del discorso e gli improvvisi spiragli aperti nel cuore diventano modulazioni dello spirito.
Il regista osserva silenzioso, rifiuta invadenti movimenti di macchina, si sofferma su volti e corpi o scopre sguardi improvvisi sul paesaggio. Talvolta, tra parole e natura, sembra quasi di trovarsi in un ricordo rohmeriano. Un film, di certo, eccessivamente sognato, colmo di ottimistica fiducia nell’ingenuità dei suoi protagonisti; ma capace, in momenti di rara grazia, di fermare l’emozione di una carezza tra cielo e mare, o di fotografare un corpo nel sole, nell’attimo della sua nuda, assoluta verità.

LE DONNE SONO DELLE MAGHE? – IL CINEMA DI CHANTAL AKERMAN

Saggio e intervista realizzati in occasione della retrospettiva sulla regista belga, Pesaro 1997
akerman1Le donne sono delle maghe?” Si chiede sconcertato Alphonse/Jean Pierre Leàud ne La nuit americaine di Truffaut. Ed è certo che guardando i film di Chantal Akerman, regista belga di origine ebraica cui il festival di Pesaro ha dedicato un’ampia retrospettiva, ci si può smarrire al ritmo magico ed estatico che scaturisce dalle immagini, sature di pulsioni, in un abbraccio sensuale, corporeo, con lo spettatore.
Più di tutte le teorizzazioni critiche che hanno appesantito l’originaria istintività dei film della Akerman, valgono le parole del regista Boris Lehman: “Tutto quello che fa Chantal mi incanta e mi commuove”.
Il cinema di Chantal Akerman non è – lei stessa ci tiene a distanziarsi da interpretazioni fasulle – un cinema “intellettuale”: Chantal è una donna impulsiva, impaziente, appassionata. Dal suo esordio, nel 1968, con Saute ma ville, sino all’esperienza negativa di Un divano a New York, ogni film ha rappresentato una battaglia, una ricerca affannosa, un tentativo di mostrare le proprie esperienza ed emozioni disciplinandole in forme ordinate, geometriche, talvolta fredde: un “altro da sè” da guardare con distacco, per poi rinnovarsi. Ecco perché a film narrativi seguono saggi, documentari, film più liberi e poi ancora fiction. “Devo cercare di non ripetermi. Con i miei film, ogni volta è una lotta per non ripetere la stessa cosa… Ma non credo di riuscirvi”.
chantal-akerman-je-tu-i-elleChantal Akerman commuove ed incanta perché ha sempre realizzato film innocentemente: partendo da una frase, da un luogo, da appunti disordinati e sparpagliati per casa, come in Je, tu, il, elle; il suo desiderio di comunicare è forte, vitale e violento. Solo in un secondo tempo la scrittura muta in immagine dalla forma armonica e musicale.
Continuando a lavorare con puntiglio artigianale, Chantal Akerman è passata dall’autoaffermazione aggressiva e autodistruttiva delle prime opere “adolescenziali” (e pur sempre bellissime, cariche di follia, di immaginazione, affamate di volti e corpi) alla “danza della vita” dei film successivi; J’ai faim j’ai froid, Golden Eighties, Histoires d’Amerique sublimano in un balletto leggero, in punta di piedi, gli eventi drammatici dell’esistenza, che si tratti della disillusione della giovinezza, del desiderio amoroso inappagato, o del confronto con la propria identità di ebrea e di emigrante.
Le opere della Akerman racchiudono tutta la sua vita. Nella sua filmografia si snoda un discorso fortemente autobiografico che non ha ancora trovato conclusione; spesso le ultime inquadrature dei suoi film delimitano lo spazio simmetricamente, ma la prospettiva punta all’infinito (come in Portrait d’une jeune fille de la fin des années ’60, à Bruxelles): è come se il desiderio della Akerman di continuare a sperimentare la vita determinasse questa sospensione, preludio a nuove osservazioni e a nuovi racconti. Non a caso nei suoi film ci si sposta in continuazione in metropolitana, in auto, a piedi (qual è il senso delle peregrinazioni di Aurore Clement in Les rendez-vous d’Anna?), e gli spaesamenti sono costellati di incontri. In News from home gli sguardi dei passanti si affacciano per scrutare l’occhio della macchina da presa; la Akerman ospita il caso nelle sue inquadrature, fa irrompere il caos nei piani così rigidamente organizzati, ed è questa compresenza di ordine ed eccessi emozionali a fare del suo cinema un’esperienza unica.
jeannedielLa Akerman “sente” le cose, ascolta i suoi ritmi interiori: “bisogna sentire il tempo, usare il cinema in modo ontologico: con Jeanne Dilman ho voluto comunicare il mio tempo personale, soggettivo; volevo che le persone sperimentassero il film in senso fisico…”.
In Hotel Monterey questa intenzione è portata alle estreme conseguenza: la geometria si fa allucinatoria, compulsiva, il senso di smarrimento è forte. E’ cinema della verticalità e dello spazio prospettico: ogni logica spazio-temporale è annullata.
Chantal Akerman continua ad affermare che avrebbe preferito essere una scrittrice piuttosto che una regista, perchè “la scrittura precede sempre le immagini: ogni mattina mi sveglio presto e cerco di scrivere… procedo per tentativi, non riesco a pianificare tutto… Quello che voglio è avvicinarmi a me stessa attraverso i miei appunti; descrivere quello che vedo e trasformare i miei dialoghi in musica”.
(Articolo apparso in Duel n. 52 – Copyright © 1997, Marcella Leonardi)

L’AMERICA, CON AMORE E RABBIA: INTERVISTA A CHANTAL AKERMAN

Chantal_AkermanChantal Akerman è bella e irruente, e non nasconde l’amarezza per la sua recente esperienza hollywoodiana. Si infiamma mentre le chiediamo di parlarci dei problemi legati alla realizzazione di Un divano a new York.
Bisogna avere un certo carattere per lavorare in quel modo… essere molto freddi e distaccati, ed avere una grandissima ambizione, che non sia artistica ma direi sociale. Io so di non averne a sufficienza, e di non essere in grado di difendermi da queste cose. Si era creata un’atmosfera molto difficile con i produttori, una vera lotta… mi sono ritrovata a lavorare sopportando una pressione spaventosa, e non riuscivo più a capire cosa stessi facendo. C’è stata una tale violenza di relazioni che ora non so più quali siano i miei sentimenti per il film. I produttori avevano pensato di trasformarmi in una nuova Akerman, quindi quando le riprese sono terminate e si sono trovati di fronte ad un film che mescolava generi diversi, si sono sentiti traditi. Hanno detto che non avevo onorato il contratto, e che il montaggio andava completamente rivisto. Naturalmente mi sono opposta, io lavoro in un certo modo e non si può cambiare una persona… In ogni caso tutta questa tensione ha influito negativamente sul film e sul mio rapporto con gli attori. Dovevo astrarmi da tutto questo, ma era veramente difficile.

Quali sono i suoi progetti dopo Un divano a New York?
Ho girato dei corti per Locarno, sull’avvenire del cinema… Anche se non vedo nessun avvenire per il cinema, ora… Mi piacerebbe comunque fare qualcosa di completamente nuovo. Ad esempio quando ho girato D’est, ho fatto delle riprese in campagna, ed era la prima volta! Forse è l’età… Riscopro emozioni per un albero, che prima non avevo!

Torniamo a parlare dell’America: la sua prima esperienza americana era stata ben diversa.
E’ vero, gli anni a New York sono stati decisivi. Ero giovanissima, avevo ventun anni. Avevo già vissuto da sola, ma lì mi sentivo davvero libera. Dovevo cavarmela da sola e ho fatto tanti lavori. Per mangiare e per vivere… ma era esaltante. Grazie ad un’amica (Babette Mangolte, futura operatrice dei suoi film) ho scoperto il cinema sperimentale americano, che mi ha dato una grandissima libertà: ho scoperto che c’era un altro modo di fare film, e questo mi ha spinto a provare nuovi criteri. Mi ha dato una forza, un’energia da spiccare il volo! E’ grazie a ciò che ho visto e vissuto a New York che ho potuto realizzare i miei lavori. In quegli anni ho frequentato l’Anthology Film Archive, ho scoperto il teatro di Bob Wilson… E il bello è che non vi era separazione tra teatro, danza, pittura, cinema… New York era un microcosmo, ed è stato formidabile aver vissuto tutto questo quando ero ancora molto giovane. Non era Hollywood, era esattamente il contrario!

Prima dell’impatto con il cinema sperimentale di Snow e Brakhage, è stato però Pierrot le Fou di Godard ad averla folgorata, appena quindicenne. Quali sono oggi i suoi rapporti con Godard?
Godard? Non lo conosco veramente bene. L’ho incontrato tre volte nella vita, l’ultima è stata un anno fa (1996), abbiamo preso un caffè assieme e parlato per un’ora. Per me è stato emozionante…
Forse è solo la mia immaginazione, ma quando ho visto il suo Autoritratto – JLG par JLG mi è sembrato spaventosamente triste… come se avesse un rapporto autistico col mondo. Gli dissi che per me quel film era una richiesta d’aiuto, lui ha accennato un sorriso e non mi ha detto nulla.

Ancora una domanda: come mai non ama parlare dei suoi film? Ieri, durante l’incontro con i giornalisti, è stata persino aggressiva con chi la intervistava…
Ma perché è già un lavoro così grosso riuscire a fare cinema, ed io non sono brava a concettualizzare, devo continuamente ricorrere a degli esempi…
Io non so perché, ma sin dal mio primo film, nel 1968, i critici hanno pensato che stessi colmando dei “vuoti teorici”: hanno parlato di strutturalismo, di esistenzialismo… ma non è così che io lavoro, non era mia intenzione. Quando la gente non mi conosce pensa che io sia terribilmente intellettuale. Non che abbia nulla contro gli intellettuali, ma io non ho mai esercitato così il mio pensiero, non ho studiato filosofia… I miei film sono stati usati come esempio per le teorie di quel periodo; ma penso sia stata solo una questione di coincidenze storiche.

(Articolo apparso in Duel n. 52 – Copyright © 1997, Marcella Leonardi)

RITORNO ALLA VITA di Wim Wenders

ritornovitaRitorno alla vita è un manifesto di cinema formale, proteso pericolosamente verso un compiacimento borghese ed educato. Nonostante il tragico della materia affrontata, il film esprime uno strazio contenuto: una scelta che nasce dall’esigenza di non sciupare l’estetica della porzione di reale inquadrata, più che da una cifra emotiva. Un cinema già antico e già morto perchè inerte, fermo. Wenders pare più interessanto alla propria maniera che non all’umanità del personaggi; impressione confermata dalla reificazione che i personaggi stessi subiscono nel film: cose tra le cose, oggetti del paesaggio, figure che si staccano dallo sfondo o si mescolano anonimamente alle varie parti del quadro. Un approdo, questo, che fa di Wenders un fotografo di istanti raggelati, un collezionista di inquadrature morte, ottenute da uno studio estetico rigoroso ma al cui interno è del tutto assente il movimento. E non si può fare a meno di notare il contrasto con la musica densa e audace di Alexandre Desplat, che ansima per cercare un respiro emozionale, un’angoscia, là dove la regia di Wenders cristallizza ogni affanno.

E’ un film che formalizza appieno il concetto barthesiano di fotografia come immagine del “già morto”: un’opera di celebrazione funebre, di pianto per il tempo che trascorre. Forse, un’alta forma di cinema “religioso” che nell’intento del regista contiene una spiritualità che va ben oltre il particolarismo della vicenda narrata; ma è indubbio che questo sguardo trascendente devitalizzi del tutto la dimensione drammatica. E’ come se Wenders non volesse aver nulla a che fare con il dolore dei personaggi: se ne distacca, li confonde con gli elementi dell’ambiente, li separa attraverso lo schermo di una finestra, li inghiotte nel tempo. Cinema-nostalgia che contiene il passato nell’istante della sua realizzazione, e che si serve del 3D esclusivamente come mezzo raffinato di disposizione spaziale, per creare gerarchie all’interno dell’immagine e mai come vertigine.
In definitiva, il film palesa quella mania estetizzante che accomuna il regista a Salgado – il celebre fotografo oggetto del suo precendete documentario – anche se i due “scrittori di luce” si servono di differenti chiavi stilistiche.
Wenders anela a proiettare ciò che è terreno in una sfera immateriale, invisibile. Ma è come vedere una tragedia in una palla di vetro, con la neve al suo interno.

IO E LEI di Maria Sole Tognazzi

ioeleiCi sono molti modi per alludere ad una tensione erotica tra due personaggi. Se è vero che La Buy e la Ferilli hanno ripetutamente dichiarato, a proposito di Io e lei, di non essere interessate a scene esplicite, questo non giustifica la scelta della regista Maria Sole Tognazzi: ovvero l’assenza di qualsivoglia respiro sensuale, o eccitata complicità, tra le protagoniste Marina e Federica. Io e lei è una terribile occasione sprecata, un film completamente compromesso con una rispettabilità da prima serata televisiva.

Io e lei mette sì in scena la convivenza amorosa tra due donne, ma la riduce a siparietto da casa Vianello, ad un susseguirsi di gag fondate su clichè abusati e rispolverati in chiave apparentemente ironica e disinvolta. Un film conservatore, che incarna lo spirito deteriore di tanta nuova sinistra: un’apertura mentale camuffata, un’accettazione di diversità che si realizza solo nel momento in cui questa viene disinnescata, addomesticata, depurata delle sue componenti “pericolose” e difficili da accettare. Marina e Federica, donne belle e indipendenti, ci vengono presentate in umilianti quadretti infarciti di banalità sul femminile: tante scene in cui cucinano fischioni, altrettante nelle quali si occupano di giardinaggio o guardano scadenti sceneggiati sentimentali su un canale Sky (un caso di product placement esplicito e trionfante). I momenti che ce le mostrano nel letto matrimoniale, intente a rubarsi gli occhiali da vista o perdersi in innumerevoli, insignificanti battibecchi, non possiedono un brivido, né rubano uno sguardo d’intesa. Vediamo, semmai, una grottesca imitazione di copulazione quando la Ferilli, sotto al piumone, “monta” la Buy in un pudico buio casalingo (immediatamente ingoiato da una dissolvenza).

Maria Sole Tognazzi, che in Viaggio sola ci aveva dato un ritratto nuovo di una generazione, qui riprende e normalizza un soggetto attuale, già affrontato dallo statunitense I ragazzi stanno bene, che pure osava di più, con le sue donne complici e amanti, addirittura consumatrici di pornografia e feticismo (a differenza delle asessuate Marina e Federica).
Purtroppo in Io e lei le uniche connotazioni erotiche dei due caratteri femminili sono rigorosamente etero: Marina col suo abbigliamento da femme fatale, pelle e tacco dodici, boccoli ed una certa volgarità lasciva; e Federica che sembra diventare seducente solo nell’approccio con l’oculista (uomo), celando imbarazzi, sgranando gli occhi luminosi, offrendosi timidamente in un sorriso o attraverso una camicia aperta.

In definitiva un prodotto mediocre nella fattura, chiuso com’è in una soffocante regia di interni, di stanze, di dialoghi (quasi fosse pronto ad essere trasformato in commedia teatrale); e tristemente privo di gioia e di carnalità nella sua rappresentazione di un rapporto d’amore tra donne. L’unico bacio tra le due è goffo e imbarazzato: ci si aspetta che la Ferilli erompa in un “bella de zio”, a sancire un bacio tra sorelle, pronte a tornare tra le pareti di una domesticità priva di pericoli – per loro e per la società.