MIDSOMMAR di Ari Aster

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E’ certamente una vittoria (o semplicemente una svista estiva?) quando un film come Midsommar riesce ad insinuarsi come un germe estraneo nella programmazione culturalmente massificante dei multiplex. Si tratta di un’opera di anarchia incendiaria, figlia devota del cinema degli anni ’70 e della sua volontà di sperimentazione, di oltrepassare i limiti ipocriti imposti dalla decenza, di trasformare l’immagine in esperienza “stupefacente” in senso rivoluzionario. Un cinema, quello di Midsommar, di struggente finezza (la bellezza delle dissolvenze incrociate, lo studio del colore, la ricerca di proporzioni all’interno dell’inquadratura fanno di Ari Aster un regista dalle ambizioni iniziatiche), ma anche di brutale, primordiale violenza.

Il concetto abbracciato dagli abitanti della coumunità di Hårga, secondo i quali la natura è inclusione di opposti e trasformazione – idea che troviamo anche in The Wicker Man (1973) di Robin Hardy, di cui Midsommar è una trionfante riattualizzazione formale e tematica – anima il cinema di Aster: sinestetico, compresenza di emozioni che nascono da sensi differenti, il film contiene vita e morte, fioriture e stagioni morte, profumi e orrore. Dani, la protagonista, ci viene immediatamente presentata come “qui e altrove” (si pensi al montaggio della scena del bagno), lontana da se stessa per via del dolore; ma una volta in Svezia, il suo corpo conosce un contatto con la terra capace di rinnovarla: ella stessa è fiore pulsante, radice, creatura che si scopre all’unisono con i fenomeni naturali e con la follia umana, similmente legati da ferocia/mitezza, amore/crudeltà.
Aster ci mostra il paganesimo come radicato nella natura umana, e Midsommar è un sofferto, traumatico percorso di riscoperta per Dani; mentre il suo compagno Christian (il cui nome rimanda alla celebre battuta del sergente Howie di The Wicker Man: “io sono un cristiano, credo nella resurrezione!”) soccombe di fronte alla forza pànica di una comunità che ha radici nella natura e i suoi morti negli alberi (“noi crediamo nel riciclo”).

Aster ama profondamente il classico di Hardy e ne ripropone, con scrupolo filologico, le immagini di virginale purezza, i canti e le danze, le esplosioni di luce e sole, la selvaggia irrazionalità; il regista percorre la realtà senza lasciarsi limitare da un senso comune dello spazio, ma rovesciando l’inquadratura o esplorandola verticalmente; inoltre alterna inquadrature irregolari, dominate da sfocature e da un senso di delirio imposto dalla perenne luce solare, a numerose altre perfettamente disciplinate da armonia matematica e simmetrie, alla ricerca di un cinema di simboli e rivelazioni che molto ricorda La Montagna Sacra (ancora 1973) di Alejandro Jodorowsky, con il suo precetto dell’ abbandono dell’io individuale a favore di un “essere collettivo”.

Ma Midsommar, nonostante le influenze esplicite, riesce a essere l’opera personale di un regista che sempre più si va definendo come autore complesso e intollerante a facili incasellamenti. Il suo cinema possiede specificità ricorrenti – lo studio dei legami familiari, una visionarietà allo stesso tempo contemporanea e ancestrale, l’attrazione per riti, miti e antropologia – ma è anche cinema avventuroso che riscopre il sacrilego, i simbolismi, le derive esistenziali e spirituali, la forza dello shock, la visione della bruttezza del corpo (col suo decadimento fisico e morale), l'”oscenità” del sesso non conforme alla levigatezza del contemporaneo.
Con il suo desiderio di scuotere lo spettatore e sottrarlo alla lenta morte inflittagli da Men in Black o Annabelle 3, Midsommar è cinema che sporca gli schermi delle anime belle, chiodo piantato sul muro dell’anestesia culturale presente.

ANNABELLE 3 di Gary Dauberman

ANNABELLE 3*
Il new horror di James Wan ha sempre avuto caratteristiche precise: puritano, borghese, impregnato di superstizione religiosa (ovvero non il mistero del sacro, ma la manifestazione più grezza ed esteriore di una “fede” istituzionale). Il suo universo orrorifico si è via via configurato come sistema perfettamente allineato alla società spettacolare statunitense contemporanea: seriale, passivizzante, dall’immaginario rigido e circoscritto, politicamente dittatoriale.

Assieme a La Llorona, Annabelle 3 è tra i punti più bassi dell’ “industria” di Wan: un prodotto sempre più pedestre, sciatto, dalla scrittura debole. Il marketing prende definitivamente il posto del cinema, l’immagine muore e resta il trucco, l’espediente, l’inganno costante ai danni di uno spettatore inchiodato al suo ruolo di “osservatore stupido”. Il pubblico accetta di buon grado questo cibo-spazzatura dagli aromi artificiali: manca del tutto uno sguardo critico e il desiderio di educarsi all’immagine. Schiacciato da miriadi di serie tv che hanno imposto il trionfo del racconto sulla dimensione visionaria del cinema, lo spettatore si accontenta di basici plot in cui l’aspetto visivo è mera illustrazione di eventi, ripresa schematica di porzioni di reale poi manipolati in post-produzione.

Il montaggio, la luce, la continuità, la significanza dell’inquadratura, il cinema come macchina estetico/filosofica: nulla ha più senso. L’immagine è scomparsa.
Nella sua apparente inoffensività, un film come Annabelle 3 è uno strumento di morte artistica: morte del cinema, morte di quell'”eterna illusione” creazione della Hollywood classica; l’addio al cinema/sogno, piacere degli occhi, suggestione di una realtà altra. Annabelle 3 è l’emblema del cinema più brutto che esista, più insultante ed eticamente criminale. Non apre varchi nella mente dello spettatore, ma la imprigiona in una camicia di forza e la svuota del fantastico. Unica nota positiva, la talentuosa Mckenna Grace, già vista, tra gli altri, in Tonya.

LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN di Xavier Dolan

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Xavier Dolan ci consegna, con La mia vita con John F Donovan, il suo film più irrisolto, frutto di una lavorazione problematica e di una ispirazione tanto ambizionsa quanto torrenziale, che il regista non riesce ad arginare. La sceneggiatura, scritta assieme a Jacob Tierney, possiede una densità romanzesca che aspira più alla letteratura che al cinema: sovraffollata di personaggi, ma ancor più di dialoghi, fa continuo appello alla parola per “dare forma” a immagini e sequenze. Ne risulta un cinema che non basta a se stesso, soffocato dall’abuso della voce fuori campo e da estenuanti monologhi, ricordi verbalizzati, emozioni indefinite bloccate nella struttura rigida di una frase.

Eppure Dolan non ha perso la sua attitudine poetica naturale nei confronti del linguaggio cinematografico: le immagini conservano quella natura intensamente personale, anarchica, che rende immediatamente riconoscibile il suo sguardo. In La mia vita con John F Donovan ritroviamo le sfocature, i ralenti, la predilezione per il chiaroscuro e i bagni di colore caldo o freddo pronti a darci la temperatura di ogni scena: Dolan fa il cinema più sincero che esista e punta l’obiettivo sul suo cuore. Inoltre, rispetto a tante opere contemporanee, i primi piani di Dolan estraggono una verità mai messa in posa: il giovane regista è bravissimo nel cogliere la realtà attraverso il volto dei suoi attori, confermandosi un autentico umanista, incantato e rispettoso. Cosa rarissima ormai, Dolan riesce a consegnarci intatta la purezza del suo stupore (bellissime, in particolare, le scene con Thandie Newton, con la quale il regista sembra condividere un’affinità elettiva sensibile).

Come nel caso dei film precedenti, ci troviamo di fronte a un’opera autobiografica, un “confessionale” che si esplicita attraverso la messa in scena di confronti tra i personaggi – dalle rivelazioni, alle momentanee e urlate isterie sino alle successive riconciliazioni. L’attitudine dolaniana è di amore e misericordia nei confronti del genere umano: egli ricompone passioni, impulsi, il sentimento acuto del vivere. Alle immagini affida lo splendore emotivo, lo sguardo soggettivo e interiore sulle esperienze, la “rabbia giovane” e la sublimazione amorosa. “Non l’amore, non i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia, datemi la verità”:  la citazione di Thoreau che apre il film sintetizza la posizione di Dolan in quanto homme-cinema.

Ma a La mia vita con John F Donovan manca l’autodisciplina che ne avrebbe fatto un grande film: parole e immagini vivono una caotica giustapposizione e non trovano la propria intima, sommessa conversazione. Rispetto al precedente E’ solo la fine del mondo manca la musica, l’orchestrazione delle parti, la partitura in cui volti e scioglimento dialogico possano trovare una danza comune. La macchina da presa di Dolan continua la sua ricerca libera, il proprio movimento istintivo, ma è incapace di sostenere la presenza di una pluralità di caratteri; il film procede per accumulo, fino all’implosione in un limbo emotivo quanto narrativo. E’ l’affascinante fallimento di un’architettura impossibile, fragile contenitore di pensieri e vite sfuggenti.

” La forza che attraverso il càlamo sospinge il fiore | E’ quella che sospinge la mia verde età; | quella che spacca le radici agli alberi | E’ la mia distruttrice.” scriveva il poeta Dylan Thomas; e forse questi versi sono la chiave di lettura migliore di questa impasse feconda, opera fremente e viva, ma ancora alla ricerca di un’organizzazione formale e stilistica del sentire del proprio autore.

TOO OLD TO DIE YOUNG di Nicolas Winding Refn

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Che TOTDY sia rivoluzionario è fuori di dubbio: Refn si appropria della serialità per realizzare un’opera che supera i vecchi paradigmi della televisione (“morta più del cinema”, secondo il regista) con l’intenzione di renderla “grande”: make tv great again non è uno slogan parodico ma un manifesto. Refn usa le possibilità offerte dallo streaming, le nuove modalità fruitive basate sull’interattività e la scelta operata dall’utente per applicarle ad un pensiero-cinema: il regista, attualmente, è uno dei più grandi teorici dell’arte cinematografica ma in pochi sembrano accorgersene. Il suo desiderio di uscire da una stasi che è morte, l’ambizione a un futuro che la sua arte sembra già in grado di afferrare, la totale apertura mentale nei confronti del movimento del cinema verso l’ibridazione con nuove esperienze al di là della sala, fanno di lui un artista idealmente sospeso tra passato e futuro e in grado di estrarre un’immagine che è sintesi di entrambi.
dimsTale è TOTDY, film antico e nuovo: come per gli artisti del muto, non esiste il problema della durata; agli albori non vi era uno standard al riguardo e l’opera poteva fluire, contenuta unicamente dall’istinto del suo creatore (“mi sono ispirato a Fritz Lang”, dichiara il regista). La differenza è la fruizione: oggi uno spettatore può entrare all’interno di TOTDY in qualsiasi momento (a metà, all’inizio, vederne solo una parte). L’idea di Refn è sfrenata e ambiziosa: TOTDY è accessibile attraverso differenti punti d'”ingresso” scelti soggettivamente dallo spettatore; quindi indipendente dai lacci dello spazio e del tempo.
Il lavoro del regista al riguardo è minuzioso, ossessivo, indice di una grandeur degna della più alta ammirazione; Refn non lascia nulla al caso: dalla consistenza estetica, alla suddivisione degli episodi in “parti” di storia senza inizio nè fine, flussi joyciani di stati di coscienza, eventi, memorie, traumi, azioni. Il regista danese fa di TOTDY la vera opera aperta del nostro tempo.

Il film nasce contemporaneamente al suo progetto byNWR, sito in cui Refn raccoglie il proprio personale museo di pellicole dimenticate, B-Movies e bizzarrie, gemme svanite dalla memoria e tutta una produzione diseguale in cui però emerge sempre un’immagine, una sequenza, uno sguardo sulle cose inedito, anarchico. In TOTDY Refn fa confluire l’esperienza di queste visioni, in primis per la risultante estetica rigorosissima che sottende i dieci episodi: una smaterializzazione dei canoni del B-Movie, una reinterpretazione spirituale dei generi, ma anche l’idea di arte come violenza, come penetrazione del cervello di chi guarda.
too-old-to-die-young-stoll-aus-teaser-amazon-studiosTOTDY è un film di Ulmer guardato attraverso il filtro del sogno, un Aldrich sporco e disperato, colorato digitalmente e a cui è stato sottratto il calore; ma in molti episodi, TOTDY è anche un western a campo lungo, in cui il duello al sole tra esseri umani è sostituito da un duello tra due auto che Refn fa uscire/entrare di scena con una reinterpretazione del fuori campo sbalorditiva per audacia sperimentale: per lavorare così sul genere bisogna conoscerlo bene. E ancora, Refn riprende il pulp più lurido e lo adatta alla sensibilità (o assenza di essa) del contemporaneo.
Le sue immagini del bordello (episodio 2) sono strazianti, brechtiane; mentre le riprese nell’atroce “fabbrica del porno” (episodio 5) in cui la ragazza diviene un manichino senza vita, sottolineano l’aspetto di “messa in scena” della morte, attraverso il morboso processo di ricerca formale messo in atto dal pornografo. Si tratta di una scena di pura necrofilia: Refn sintetizza la necessità tutta contemporanea della spettacolarizzazione come rito funebre.

Martin, il poliziotto protagonista, è bello come Elvis (episodio 1): egli stesso è un morto che cammina, di inafferrabile classe, che però non esita a macchiare con la sua splendente amoralità, racchiusa in quello sputo sul marciapiede che è suo gesto distintivo. In uno degli episodi più sconvolgenti per la capacità d’analisi del regista, osserviamo l’ambiente in cui egli vive e lavora: intriso di “new american fascism” (episodio 4), imbevuto di idiozia, puritanesimo, religiosità, irrazionalità: è una scena chiave, in cui Refn condensa l’isteria violenta e pericolosa della società americana, di cui Los Angeles rappresenta la sineddoche d’elezione, la parte per il tutto: Los Angeles è l’America sublime, nel bene e nel male (episodio 8).
rodloLo spazio è protagonista principale: le azioni, i comportamenti, gli stati d’animo scaturiscono direttamente dal luogo. Ecco perchè gli episodi più mistici e schizofrenici sono ambientati in Messico (ep. 2, 6) dove lo spazio domina l’animo degli uomini, il calore dissecca le emozioni, la brutalità è senza fine. In Messico, Refn più che mai ferma il tempo alla ricerca del rito: tutto sembra acquisire una profonda, ineluttabile risonanza religiosa, cui sottrarsi è peccato. Magdalena, defunta boss del cartello, è una Madonna nera su cui si riversano devozioni perverse e la cui ombra incestuosa (ep. 6) è la maledizione del figlio Jesus.

Refn gira non un film, ma un universo: e lo squaderna disobbediendo a codici abusati, reinventando prospettive e durate. La sua macchina da presa, spesso apparentemente statica, in realtà slarga la nostra percezione sullo spazio non visibile; l’uso delle sovrimpressioni e dissolvenze fanno del suo stile un procedimento surrealista, un trionfo del sogno sulla realtà; la disciplina geometrica imposta all’inquadratura è il modo del regista di sottrarre incandescenza immediata alla violenza e consegnarla al regno dell’arte. I colori sono la sua visione, l’estrazione di una poesia dal reale: il cinema di Refn dà corpo all’invisibile, con ascetico rigore (sequenza della distruzione, ep.9).priestessIl femminile domina TOTDY: le donne sembrano depositarie di un segreto, laddove l’uomo è puro istinto brutale: che siano dee protettrici quanto vendicative (Diana) o Sacerdotesse della Morte (Yaritza), esse conservano la capacità di veggenza degli antichi, e un legame con dimensioni parallele: la Terra come Villaggio dei Dannati, in cui la donna danza fuori campo (ep.10), spingendo il movimento oltre il visibile, lasciandocelo intuire, immaginare.

La perfetta inquadratura geometrica del regista danese non è che una porzione di un infinito che egli lascia percepire; è presente un oltre dato dalla continuità delle linee, dalla trasformazione interna all’immagine. Che il cinema di Refn sia statico è un’illusione di chi guarda distrattamente. TOTDY è immagine al lavoro, è un viaggio allucinante nel corpo delle perversioni, della crudeltà, dell’abisso in cui l’umanità è precipitata: “Incest, molestation, and paedophilia will all be praised”, secondo la previsione di Diana (episodio 10). Narcisismo, stupri, odio costituranno il nuovo ordine delle cose, fino ad un “seme della distruzione” che darà luce all’alba di un’Innocenza nella vita – come nel cinema.
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“As the world fractures
someone has to be there
to protect innocence”