WHIPLASH di Damien Chazelle

whiplashLa regia di Whiplash ha il movimento irrequieto del jazz: vive di scene molto segmentate, sincopate, che confluiscono in un flusso che ha una coerenza propria. Più statico, quasi teatrale nelle scene di dialogo (confronti fatti di campi/controcampi, spesso con inquadrature dal basso verso l’alto e viceversa, per stabilire le gerarchie), esplode in un ritmo sussultorio nelle parti musicali: è allora che Whiplash diventa musica, montando rapidamente dettagli di strumenti, visi contorti nello sforzo, mani, sangue e sudore. Whiplash è un film diretto, essenziale nel suo farsi linguaggio aderente a ciò che viene mostrato; questa natura didascalica è la sua forza e il suo limite. E’ cinema di “carattere”, e i suoi personaggi, similmente, sono espressione di un carattere. I due protagonisti, governati da una spinta violentissima, sono due strali in moto propulsivo verso l’obiettivo, inarrestabili nella ricerca della perfezione, agitati da sentimenti quali narcisismo, invidia, desiderio di rivalsa. J.K. Simmons è eccitante e tuona con la furia di un fenomeno naturale (Louis Gossett jr. può esser fiero di una rilettura così potente dell’ archetipo da lui creato), ma è Miles Teller, con l’energia grezza e incontrollata della sua giovinezza, a possedere ombre luciferine.

UNA NUOVA AMICA di François Ozon

nuovamicaSono i molti i registi che hanno vissuto o vivono nel sogno di Hitchcock. E Una nuova amica inizia proprio come un Hitchcock interiorizzato, rarefatto, trasformato in ricordo da Ozon, che ne riproduce i movimenti di macchina e l’emotività sofferente. Ma il film si distacca subito da questa passione “necrofila” per un cinema passato, e si anima di vita propria: in pochi minuti ricostruisce un’esistenza, in una sintesi di tempo ed emozione. La giovinezza è un minuetto spezzato (stupenda la scena che mostra le amiche adolescenti al cinema, reminescente di Gli anni in tasca di Truffaut). Da questo intenso prologo, Ozon costruisce un percorso di identità, che riveste d’una luce ideale. Lontano dal pessimismo di Sirk quanto dal grottesco di Almodovar, Ozon compone un melodramma misurato, geometrico, in cui prevale l’atto del guardare/guardarsi. Virginia diventa uno specchio per Claire (sono molte le scene in cui i gesti dell’una sono ripetuti dall’altra). Lo sguardo come scoperta: il montaggio alternato in cui Virginia e Claire si truccano allo specchio nell’ansia di rivelare la propria femminilità è un crescendo emozionale. Qualcuno l’ha definito un film “corretto”, io l’ho trovato un film che, anche in quel finale così sognato e ideale, senza tempo né realtà, aspira al superamento di tutti i limiti dell’esistenza.

LATIN LOVER di Cristina Comencini

latin-lover-virna-lisiUn cinema esausto, quello della Comencini: figlio degli anni ’80 più conformisti, quelli delle baruffe borghesi, del “volemose bene”, delle nevrosi collettive e riconciliatorie. Un cinema che del matriarcato Monicelliano eredita solo i dati esteriori, e tenta un’incursione nelle “crisi di nervi” almodovariane togliendo però il colore, la scorrettezza, l’eccentricità per ridursi a scherzo innocuo e caricaturale. La Paredes e la Lisi sono magnifiche, ma la loro intensità non basta a risollevare una sceneggiatura mediocre. Latin Lover è una farsa con sovrabbondanza di colpi di scena e personaggi; un sovraccarico che supplisce ad un vuoto di verità, tanto nei sentimenti quanto nelle emozioni. E sovraccarica è spesso anche la regia della Comencini, che passa da piattezza didascalica ad eccessi virtuosistici, movimenti traballanti, a sottolineare il clima instabile di isteria tra le protagoniste. Lo spettatore è letteralmente schiacciato: dalle battute imboccate, dalle risate, dalle entrate in scena, dai monologhi che suonano come immensi “spiegoni”. E l’omaggio al cinema, dov’è esattamente? In quel montaggio che fa tanto cinema paradiso, in versione molto più ruffiana e scolastica. Ma forse questo è il cinema “colto” che si merita lo spettatore italiano, sempre più stupido.

VIZIO DI FORMA di Paul Thomas Anderson

inherent-vice-last-supperCinema della parola, cinema di immagine. Il film di Anderson, così debordante, senza confini, ambizioso, infinito, si articola sul doppio livello del testo e dell’immagine pura; parole, dialoghi, voce fuori campo sono la terza dimensione del film; mai semplicemente complementari all’immagine, determinano una moltiplicazione dei livelli di senso. La parola strascicata, a volte usata come contrappunto sonoro, altre volte come descrizione di un sogno.
Il noir di Anderson discende direttamente da Hammett e Chandler – sin dall’inizio Shasta emerge da un sogno chiaroscurale, e spalanca la discesa di Sportello in un groviglio di umanità corrotta e pulsionale – e lo trascende per farsi magma psichico. Il piano sequenza come linguaggio dell’irrealtà, esplorazione onirica. Un film multidimensionale; un oggetto diviso tra la duplice natura di simulacro culturale, riproduzione colta di archetipi, e flusso di coscienza impossibile da contenere. Un’ azione che muove dal passato per agire sul presente.

MARAVIGLIOSO BOCCACCIO di Paolo e Vittorio Taviani

maraviglCinema chiuso, interiore; il Boccaccio dei Taviani elude la figura letteraria della tradizione, per farsi strumento della loro poetica, cornice (allo stesso modo in cui lo stesso Boccaccio usa il prologo della peste) per l’espressione di quel cinema disincarnato che è proprio dei due registi. Le novelle diventano figure dello spirito, volte a tradurre quell’approccio claustrale, denso di spiritualità con cui i Taviani si accostano alla vita per trasformarla in allegorie di grande potenza iconica; un’ambizione che non si realizza in Maraviglioso Boccaccio, film per buona parte calligrafico e incapace di comunicare con i propri fruitori. L’immagine è depurata di vita per diventare quadro, omaggio alla pittura medioevale; le figure umane che la abitano acquistano forza e vita solo se immobilizzate in una posa. Non appena gli attori tentano una interpretazione, impacciati e a disagio, collocati in uno spazio che non gli appartiene, la scena crolla. E’ cinema da “camera” psichica ; immaginato nelle geometrie della mente dei Taviani. In questo senso, un cinema tanto colto quanto già esaurito, finito prima ancora della proiezione: perchè la sua perfezione si realizza nell’assenza dello spettatore, ed in una dimensione scevra da qualsiasi contatto con il tempo e la realtà.