BLACK RAIN di Imamura Shōhei

Appunti su BLACK RAIN (1989) di Imamura Shōhei. Film del 1989, ma così accurato nella ricostruzione storica e nella cura filologica dell’immagine – dal particolare e denso bianco e nero, alla disposizione degli oggetti del profilmico, all’attenzione antropologica (volti, corpi) da sembrare girato tra i ’40 e i ’50.

Il film documenta l’esplosione della bomba atomica a Hiroshima e gli anni successivi attraverso lo sguardo di una famiglia di sopravvissuti: la giovane Yasuko, lo zio Shigematsu e sua moglie Shigeko. L’esperienza è sconvolgente, e il turbamento diventa ancor più intenso perché preceduto da scene di vita quotidiana, montate in successione con asciuttezza, senza alcuna nota di pathos: alcune donne sono intente in una cerimonia; lavoratori si accalcano in un treno; un cane attraversa veloce la strada. Tutto è quiete e silenzio, finché una stanza viene illuminata da un bianco irreale e accecante. È allora che l’esplosione diventa anche suono e le cose precipitano nell’orrore. I corpi prendono fuoco, si liquefanno, si polverizzano. La pelle scivola via dalle ossa, i cadaveri sono irrigiditi come statue nere, gli arti contorti. Madri piangono bambini morti in braccio; i sopravvissuti vagano urlando. Imamura filma tutto con occhio documentario, senza la minima sbavatura emotiva: ma proprio per questo le immagini sono uno shock senza fine. Bellissimo il volto di Yasuko, la giovane protagonista: pioggia nera cade sul suo volto facendo di lei una madonna sofferente. Ad accrescere la visione di molte scene spirituali e oniriche contribuisce la colonna sonora inquientante e dissonante di Takemitsu Tōru, fatta di archi vibranti e discese profondissime nelle emozioni umane.

Il film testimonia la vita immediatamente successiva: il tentativo di ritorno a una impossibile normalità, la stigmatizzazione subìta, il male che riemerge come tumore e follia. La stupenda regia di Imamura fa di questo film un intenso omaggio alla classicità, quella stessa classicità da lui combattuta in giovinezza: ci sono le inquadrature con camera bassa, il rigore della composizione degli interni, ma soprattutto i caratteri dei protagonisti a ricordarci il cinema di Ozu: Yasuko, abbigliata e pettinata come Hara Setsuko, non vuole sposarsi né allontanarsi dai suoi zii; Shigematsu ha un carattere stoico e quieto come tanti personaggi interpretati da Ryū Chishū. È come se, nonostante tutto, un sentimento per il cinema classico si facesse strada in Imamura: le spighe mosse dolcemente dal vento, i piani sequenza e i lenti carrelli di Mizoguchi; ma anche i campi lunghissimi e la vita contadina di Naruse (Summer Clouds) e le sue passeggiate nel bosco; fino alla poesia di Kinoshita e alla sua nostalgia per un passato perduto.

Imamura orchestra l’epica quotidiana alternando scene d’orrore e momenti intimi, quieti, d’illusione: la narrazione si intesse di flashback a ricordarci che passato e presente coesistono, e quel “bagliore” maligno è materia quotidiana, presenza viva e letale nella mente e nel corpo dei protagonisti. Yasuko lentamente si spegne: il corpo si macchia di tumori, i capelli cadono. Non c’è enfasi, ma si esce dalla visione provati, con la sensazione di aver avuto accesso a una visione d’inferno in cui i semplici si piegano al martirio, e di aver attraversato un paesaggio alla William Blake in cui “l’anima della dolce gioia non si potrà mai insozzare”.

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