Nei titoli di testa del film uno strappo improvviso lacera la parola “Freaks”: l’apertura, anomala e traumatica, anticipa ciò che stiamo per vedere. Lo strappo non è dissimile dall’occhio tagliato in Un chien andalou (1928) di Buñuel: come il grande surrealista, l’americano Tod Browning (formatosi con Griffith) libera la realtà da sovrastrutture culturali e sociali restrittive: il suo sguardo poetico vuole restituirci una purezza in cui la deviazione e l’ anormale siano parti del Tutto.
Abitato da gemelle siamesi, uomini-bruco striscianti, donne barbute, nani e ermafroditi, Freaks diviene il film maledetto per eccellenza: il pubblico sviene alle anteprime, molti lasciano la sala. Censurato, rimontato, aborrito per trent’anni, il film è finalmente restituito agli schermi negli anni ’60 e applaudito come un capolavoro.
Che una simile opera sia stata realizzata negli studi delle Metro-Goldwyn-Mayer desta meraviglia: la MGM fondava il suo successo su un’immagine di America seducente e luminosa, attigendo al bisogno del pubblico di glamour e raffinatezza; ma Irving Thalberg, allora vicepresidente, sostenne con forza il progetto, spinto dalla rivalità con il fantastico della Universal.
Tod Browning, giustamente chiamato dai surrealisti “l’angelo del bizzarro”, realizza un’opera sfuggente a qualsiasi definizione. Il regista cattura i suoi mostri con occhi angelici: la macchina da presa si posa sull’anima dei freaks, sulla loro natura infantile e innocente; impossibile non commuoversi di fronte al girotondo di creature quando l’obbiettivo ce le rivela nascoste nell’erba, così simili ai fiori o alle farfalle. Browning non ha paura di mostrarle immerse nella luce solare, mano nella mano, in piena comunione col creato: una visione quasi religiosa. L’occhio del regista è pieno d’amore, ed è proprio la purezza del suo amore a consegnarci dei freaks non santificati, ma umani in ogni sentimento. La gioia, la sofferenza, la rabbia e il piacere, vengono vissuti dal mostro con una verità di cui il “normale” non è più capace.
Nella bellezza di Olga Baclanova si insinua la corruzione: O Rose, Thou are sick, cantava William Blake, mentre l’orrore della deformazione diviene chiarezza di spirito. David Lynch, che di Browning ha ereditato la veggenza e la comunione con l’anomalia, ha dichiarato: “c’è bellezza in una ferita”. Ed è impossibile, guardando The Elephant Man (1980) non pensare a Freaks, in particolare per l’umanesimo che pervade l’opera. Lynch, come Browning, non cerca la lacrima che blandisca il pubblico nè la facile emozione: il suo occhio ci restuisce un’immagine di lacerante lucidità.
Browning allestisce il suo breve melodramma in forma di episodi brevi, sogni lucidi che diventano parti di un racconto onirico in cui nulla assomiglia alla nostra confortevole realtà. L’universo dei Freaks è separato, vivido, dotato di coordinate proprie: una minaccia per il mondo dei normali, che reagiscono esercitando le più grandi crudeltà. Browning filma il sorriso “osceno” del diverso che osa vivere e godere; la sua mdp ne riprende frontalmente l’innocenza. L’adolescenza del regista, vissuta come contorsionista e clown nel circo dei Ringling Brothers, lo rende lo sguardo più vero, privo di pietismo ed ipocrisia, in grado di avvicinarsi con primi piani puliti e per questo insostenibili. Dopo la prima a NY, nel 1932, il critico del New York Times scrisse: “…un film eccellente e orribile. Non si sa se appartenga al cinema o al manicomio.”