FREAKS (1932) di Tod Browning

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Nei titoli di testa del film uno strappo improvviso lacera la parola “Freaks”: l’apertura, anomala e traumatica, anticipa ciò che stiamo per vedere. Lo strappo non è dissimile dall’occhio tagliato in Un chien andalou (1928) di Buñuel: come il grande surrealista, l’americano Tod Browning (formatosi con Griffith) libera la realtà da sovrastrutture culturali e sociali restrittive: il suo sguardo poetico vuole restituirci una purezza in cui la deviazione e l’ anormale siano parti del Tutto.
Abitato da gemelle siamesi, uomini-bruco striscianti, donne barbute, nani e ermafroditi, Freaks diviene il film maledetto per eccellenza: il pubblico sviene alle anteprime, molti lasciano la sala. Censurato, rimontato, aborrito per trent’anni, il film è finalmente restituito agli schermi negli anni ’60 e applaudito come un capolavoro.

Che una simile opera sia stata realizzata negli studi delle Metro-Goldwyn-Mayer desta meraviglia: la MGM fondava il suo successo su un’immagine di America seducente e luminosa, attigendo al bisogno del pubblico di glamour e raffinatezza; ma Irving Thalberg, allora vicepresidente, sostenne con forza il progetto, spinto dalla rivalità con il fantastico della Universal.

Tod Browning, giustamente chiamato dai surrealisti “l’angelo del bizzarro”, realizza un’opera sfuggente a qualsiasi definizione. Il regista cattura i suoi mostri con occhi angelici: la macchina da presa si posa sull’anima dei freaks, sulla loro natura infantile e innocente; impossibile non commuoversi di fronte al girotondo di creature quando l’obbiettivo ce le rivela nascoste nell’erba, così simili ai fiori o alle farfalle. Browning non ha paura di mostrarle immerse nella luce solare, mano nella mano, in piena comunione col creato: una visione quasi religiosa. L’occhio del regista è pieno d’amore, ed è proprio la purezza del suo amore a consegnarci dei freaks non santificati, ma umani in ogni sentimento. La gioia, la sofferenza, la rabbia e il piacere, vengono vissuti dal mostro con una verità di cui il “normale” non è più capace.

Nella bellezza di Olga Baclanova si insinua la corruzione: O Rose, Thou are sick, cantava William Blake, mentre l’orrore della deformazione diviene chiarezza di spirito. David Lynch, che di Browning ha ereditato la veggenza e la comunione con l’anomalia, ha dichiarato: “c’è bellezza in una ferita”. Ed è impossibile, guardando The Elephant Man (1980) non pensare a Freaks, in particolare per l’umanesimo che pervade l’opera. Lynch, come Browning, non cerca la lacrima che blandisca il pubblico nè la facile emozione: il suo occhio ci restuisce un’immagine di lacerante lucidità.

Browning allestisce il suo breve melodramma in forma di episodi brevi, sogni lucidi che diventano parti di un racconto onirico in cui nulla assomiglia alla nostra confortevole realtà. L’universo dei Freaks è separato, vivido, dotato di coordinate proprie: una minaccia per il mondo dei normali, che reagiscono esercitando le più grandi crudeltà. Browning filma il sorriso “osceno” del diverso che osa vivere e godere; la sua mdp ne riprende frontalmente l’innocenza. L’adolescenza del regista, vissuta come contorsionista e clown nel circo dei Ringling Brothers, lo rende lo sguardo più vero, privo di pietismo ed ipocrisia, in grado di avvicinarsi con primi piani puliti e per questo insostenibili. Dopo la prima a NY, nel 1932, il critico del New York Times scrisse: “…un film eccellente e orribile. Non si sa se appartenga al cinema o al manicomio.”

THE BLIND KING di Raffaele Picchio

theblindRaffaele Picchio, per chi non conosca le disavventure del cinema di genere indipendente italiano, è noto per il film di debutto – Morituris – inizialmente bannato per la sua natura ritenuta troppo controversa e brutale; un film che invece si è scavato, proprio per il suo carattere di irriducibilità, una nicchia sempre più vasta di appassionati. Grazie ad uno sguardo oltraggioso e privo di condizionamenti, e ad una fantasia irrispettosa e cinefila (capace di fondere gore, sesso, gladiatori zombie, exploitation) Morituris si gettava alle spalle qualsiasi criterio di decenza, buon gusto o condiscendenza nei confronti dei limiti del pubblico; e segnava la necessità di una svolta all’interno di un genere cui, per troppo tempo, era mancata la vera violenza di una rivoluzione dello sguardo.
Picchio, seppur in modo rozzo e impulsivo, finalmente “sporcava” un panorama stanco, con l’entusiasmo di chi irrompe e distrugge codici ormai superati.

The Blind King è un lavoro del tutto differente rispetto a Morituris: è il progetto di un regista che ha attraversato un percorso esperienziale difficile e deve fare i conti con la realtà del mercato. Una realtà che condiziona il processo artistico, in cui Picchio vuole operare senza rinunciare alla propria sensibilità e visione più autentiche.
The Blind King lo vede maturato registicamente: Picchio non ha più l’irrequietezza caotica del neofita. La composizione dell’inquadratura è studiata con consapevolezza a fini espressivi e significanti; da irriducibile cinefilo, il regista usa la memoria cinematografica come archetipo su cui costruire immagini emblematiche.
Il film possiede una forza visiva che si esprime soprattutto attraverso quadri iconici e silenti, in cui la disposizione dei piani, l’uso della luce, la suggestione del passato si alleano per eccitare l’immaginario dello spettatore. Apprezzabile soprattutto il fatto che Picchio non eserciti il minimo virtuosismo; ogni scelta tecnica ha una sua giustificazione a livello narrativo, infatti non c’è, ad esempio, un solo primo piano usato in modo insensato o sensazionalistico.
Il montaggio, a differenza di tanto cinema italiano giovane, è calibrato nei tempi e nelle transizioni. La pulizia dell’immagine, la sua raffinata concentrazione in termini di linguaggio e messa in scena sono i (non scontati) punti di forza di The Blind King .

Picchio ha creato atmosfere di grande suggestione ed è facile riconoscere l’influenza di due tra i fantastici/horror più belli degli ultimi anni: la filastrocca malata di Babadook di Jennifer Kent e l’incanto straniante di Under the Skin di Jonathan Glazer.
Ciò che inficia The Blind King sono, evidentemente, i compromessi a livello produttivo e distributivo; la necessità di creare un film “vendibile” e quindi costretto a smussare l’ambizione ad una complessità narrativa sicuramente più elitaria, a favore di un prodotto rassicurante ed accessibile. Il film infatti perde parte della sua magia per via di una struttura dialogica che lascia poco spazio alle incertezze degli spettatori; la parola offre una via sicura d’interpretazione, e lo stesso “mostro”, cui il film lascia un ampio spazio monologante, finisce con lo psicologizzare troppo, verbalmente, quell’indefinito di cui si compone la paura (tanto del protagonista quanto di chi guarda).
Ed è un peccato, perchè Picchio sa benissimo creare mondi attraverso le immagini: un “oltre” magnetico resiste e si avverte, nonostante i 14 giorni di lavorazione ed il limite di pressioni/vincoli produttivi.

QUALCOSA DI NUOVO di Cristina Comencini

qualcosanuovoDopo un’ottima annata per il cinema italiano, che ha visto affacciarsi film originali, intensi, tecnicamente curati e artisticamente ambiziosi – in poche parole film che volevano essere cinema, e non solo fiction rai su grande schermo – ci ha pensato Cristina Comencini a ricollocare lo standard nostrano su infimi livelli. Ci si domanda come sia possibile che una regista di provata esperienza come la Comencini abbia potuto realizzare un prodotto così dilettantesco, impresentabile, frettoloso; è possibile pensare di ingannare lo spettatore a tal punto, ignorando persino i basilari requisiti di confezione del prodotto?
Qualcosa di nuovo viene proposto come commedia degli equivoci: ma siamo lontanissimi dal ritmo, tempi, intelligenza delle magnifiche screwball comedies del secolo scorso. La Comencini farebbe bene a studiarsi Hawks, LaCava o Sturges per comprendere struttura e dinamica della screwball, verso la quale è protesa in modo velleitario.
Qualcosa di nuovo si accontenta di mettere insieme scene slegate, prive dell’aggressiva musicalità verbale tipica del genere, ed in cui la verve comica è del tutto assente; anzi, la Comencini tenta la contaminazione col dramma, giocando la carta del “film di donne che fa sorridere ma anche riflettere”: una scelta ruffiana che la mette al sicuro da critiche troppo severe. Critiche che invece occorre muovere senza indugi.

 Guardando Qualcosa di nuovo si rimane esterrefatti per i dialoghi farraginosi di chiara ascendenza teatrale; per il montaggio video, zeppo di vistosi errori di continuità e battuto in quanto a sciatteria solo dall’esilarante montaggio sonoro (che taglia e incolla brani dixieland a suggerire la presunta “comicità” delle scene). Deplorevole poi la scelta di usare Absolute beginners del povero Bowie, sfruttata (dal momento che si son pagati i diritti) fino all’ultima nota, nel tentativo di creare atmosfera durante una sequenza d’amore. Anche se l’amore, in verità, è il grande assente del film: amore tra le due donne, amore per il giovane con cui si trastullano, ma anche amore della regista nei confronti della messa in scena, della vicenda, delle sue protagoniste e infine del pubblico.
Ho provato imbarazzo di fronte alle immagini che passavano sullo schermo, per il modo in cui le donne vengono rappresentate, per la qualunquistica riduzione a cliché di temi peraltro abusatissimi quali la maternità, il rapporto con il sesso, il binomio depressione/repressione che inevitabilmente vengono infarciti al pubblico quando si parla di donne. E ho anche sperato inutilmente in una threesome che non è mai arrivata. Auspico la scomparsa definitiva di questo moralistico, tetro e grossolano “cinema al femminile”.

BAD MOMS di Jon Lucas e Scott Moore

badmomsHo visto Bad Moms in una sala gremita di spettatori prevalentemente giovani, del tutto coinvolti nelle vicende delle protagoniste; un pubblico (in maggioranza femminile) che ha riso in totale abbandono, pianto, e applaudito in un paio di scene, amplificando la mia esperienza in un tuffo collettivo emozionante e quasi anacronistico. La commedia popolare ha una funzione immaginaria importantissima che chiunque si occupi di cinema non può ignorare; anche se, va detto, Bad Moms diverte (molto) ma non sovverte, e tranquillizza invece di destabilizzare.

Il titolo del film di Jon Lucas e Scott Moore ricorda Mean Girls, il college movie con Lindsay Lohan, di cui sembra un aggiornamento generazionale: le protagoniste sono tre donne tra i 30 e i 40 anni alla ricerca di un nuovo modo di vivere il proprio ruolo sociale, tra compagni egoisti, assenti o inutili, ed in competizione con una mamma “popular” e tirannica. Tre figure femminili, immerse in un contesto quotidiano e familiare, che interpretano ciascuna una funzione elementare (l’equilibrata, la repressa, l’erotomane) assolvendo al bisogno di identificazione di qualsiasi spettatrice; analogamente, lo sviluppo narrativo si nutre di dialoghi che, sebbene iperbolici, nascono da una matrice di realismo.
Quella di Bad Moms è una realtà “intensificata”, trasformata in commedia corporale e slapstick, in cui lo scambio di battute brillanti accende di comicità l’osservazione sociale (“le mamme non si arrendono: arrendersi è roba da padri”). Jon Lucas e Scott Moore, sceneggiatori di Una notte da Leoni, hanno prodotto uno script inattaccabile per ritmo e humour: il loro talento è quello di saper trascinare il pubblico all’interno di un mondo “apparentemente” ribelle e scorretto, ma del tutto inoffensivo; un riso anestetico e conservatore, che eleva la nuova commedia ad organo ufficiale della società americana.

Bad Moms ristabilisce le coordinate rassicuranti della collettività senza minimamente metterle in discussione o infrangerle. E questa è sicuramente la differenza con la grande commedia dell’epoca classica, in cui il “ritorno all’ordine” dopo il momento dionisiaco (la “deviazione” del personaggio) conteneva sempre la crisi al suo interno. Si pensi a Sturges, McCarey o LaCava, autori di straordinarie commedie di raffinata allusività: nei loro film assistiamo quasi sempre ad un lieto fine apparente, in cui il sogno è incrinato, e le leggi del desiderio non corrispondono mai pienamente a quelle dell’ordine sociale. Bad Moms invece, attraverso una finta trasformazione, ristabilisce la piena autorità delle cellule su cui poggia la società americana: famiglia e istituzioni. Un’autorità al cui interno le singole esistenze sembrano ormai implementate al punto da non credere più ad alternative. Non resta che una ubriacatura per cercare una scintilla di vita.

LO AND BEHOLD di Werner Herzog

loandbeholdDi cosa parla Herzog quando parla di internet? Si esce da Lo and Behold con la sensazione che il regista tedesco abbia intenzionalmente eluso l’argomento muovendosi ai margini. Il film, sebbene radicato nella contemporaneità, sembra un prodotto degli anni ’70, tra l’educational, la burla e il mondo movie; un documentario fatto di brevi segmenti isolati, in cui la tecnologia è l’alibi per l’osservazione capillare di un’umanità bizzarra, che sul proprio corpo porta i segni di attitudini tra il geniale e il patologico.
Lo and Behold simula un approccio frontale e distaccato nei confronti della materia affrontata, ma in realtà si pone in una posizione di lieve spostamento rispetto ad essa: ed in quello scarto risiede l’occhio di Herzog, la sua soggettività. Ogni capitolo ha al centro una o più figure umane: Herzog le inquadra da una leggera prospettiva, ottenendo sempre un’inquadratura inusuale – il soggetto parla, spiega, racconta, spesso incalzato dalle domande del regista – ma l’immagine sembra interessata ad una storia differente, è attratta dall’uomo, dalle sue mani, dalle espressioni del volto, dalla postura.

I dieci capitoli, genericamente collegati dalla rivoluzione digitale, si concentrano sulle sue conseguenze antropologiche: il vero protagonista è l’umano, ed i cambiamenti relativi al suo corpo, alle abitudini, all’immaginario e ai suoi sogni. Esseri umani che sono l’antitesi dei protagonisti ferini, istintuali, legati alla natura delle sue opere precedenti. In Lo and Behold ci troviamo davanti a soggetti in cui il corpo è relegato a mere funzioni pratiche: individui inchiodati a sedie e cattedre, con lo sguardo incollato ad un monitor; professori e scienziati dal corpo obeso, o dalle spalle strette; inattivi, perduti nel sogno di un futuro in cui “alle macchine saranno delegate gran parte delle attività”; ricercatori che impiegano tempo, risorse e sudore nell’elaborazione di piccoli robot che giocano a calcio, o che ipotizzano, con sorrisi lievemente ebeti, un mondo in cui il pensiero possa venire “twittato” direttamente all’umanità. Un consorzio sociale privo di un equilibrato rapporto con la propria fisicità – e difatti Herzog dedica uno dei capitoli più interessanti ad un piccolo gruppo di “ribelli”, rifugiati in uno sperduto luogo della terra immune da radiazioni e tecnologia, in una rinnovata comunione con la natura.

Herzog è un neofita telematico e il modo in cui si sofferma ad osservare i comportamenti e la cultura della società digitale non è dissimile dallo stupore con cui avrebbe potuto analizzare i rituali di un gruppo etnico amazzonico: i gadget digitali, i robot, i pannoloni indossati dai giocatori di videogames fanno entrare l’uomo contemporaneo in una nuova accezione di primitività, ed è questo l’aspetto che più affascina il regista. E ogni società primitiva ha le sue superstizioni: non a caso Herzog si sofferma su una famiglia che, in stato di catatonia e inquadrata su un tavolo surrealmente colmo di torte, bignè e pasticcini (secondo il principio di “ospitalità” americana), decreta come internet sia l’anticristo. E da spettatori ci si chiede se per caso non siamo finiti dentro Un piccione seduto su ramo di Roy Andersson.
Herzog mette a nudo impietosamente, con humor nero, il grottesco del contemporaneo e le sue contraddizioni, e la necessità, intrinseca dell’uomo, di rivestire di animismo il mondo naturale quanto quello tecnologico: internet che sogna se stesso, internet come angelo o diavolo.