ELLA & JOHN di Paolo Virzì

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Paolo Virzì ci racconta l’America con gli stessi occhi turistici con cui gli Usa immaginano la toscana. Ella & John è un film esile e gentile, fatto per carezzare l’animo di chi guarda e offrirgli un viaggio attraverso i cliché: le famiglie sovrappeso che viaggiano in camper, i poliziotti dal baffo settantesco, i diners, le rapine on the road, le palme delle Florida Keys. In questo Fandango senile, di cui non restano che la colonna sonora e le lucine colorate nel silenzio della sera, Virzì vorrebbe concedere ai suoi protagonisti un ultimo viaggio anarchico, un testamento di vita e libertà irriducibili: ma pur aderendo, superficialmente, ai codici del road movie, il regista livornese dimostra di non averne afferrato il senso più intimo.
La prima assenza che suona come una morte è quella dello spazio: Virzì non sa che farsene dei paesaggi americani senza fine, dell’occhio caldo del cielo. Il suo film non inquadra mai il contesto spaziale per farne lo specchio dell’avventura dell’anima. Manca la dissoluzione del confine, lo sguardo orizzontale, il luogo come smarrimento e ritrovamento. Piuttosto, per Virzì, lo spazio è accessorio e decorativo: uno sfondo urbano e limitato (quasi televisivo), o un arredo naturale (la spiaggia, o il fazzoletto di terra su cui campeggiare).

Ella & John, nell’interpretazione inattaccabile di Helen Mirren e Donald Sutherland – così bravi da conferire spessore emozionale anche a evanescenti righe di dialogo – non intraprendono in realtà alcun percorso di trasformazione. Il loro viaggio è statico: fatto di quadri stagnanti, scene di un matrimonio al cui interno vi è una innata fissità. La coppia è l’emblema di un amore inalterato, complice e stagliato in una dimensione separata ed ideale cui nessuno ha accesso. E’ uno stato che non muta attraverso il processo di spostamento. Lo spettatore non ha la possibilità di convertire il viaggio in un esercizio di conoscenza, ed il film è piuttosto una collezione di aneddoti privi di reale continuità.

L’assoluta implausibilità della trama banalizza e rende inoffensivo il potere sovversivo del road movie: Ella e John, seduti davanti ad uno schermo all’aria aperta, guardano diapositive, esattamente come noi sfogliamo immagini lontane di un cinema scomparso. Morti gli amanti criminali Bonnie e Clyde, ma anche i folli Poplin di Sugarland Express, ci resta una sedia a sdraio dove riposano due coniugi dolci e inoffensivi, dal fucile scarico.

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI di Martin McDonagh

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Nel film It should happen to you (1954) di George Cukor, Gladys Glover (Judy Halliday), modella sconosciuta e squattrinata, affitta alcuni giganteschi cartelloni pubblicitari per scrivervi il proprio nome a caratteri cubitali. Il film, scritto da Garson Kanin, metteva in luce come una strategia pubblicitaria potesse riscrivere l’immaginario collettivo: riscrivere, sotto certi aspetti, la realtà. Più di 60 anni dopo, McDonagh con Tre manifesti a Ebbing riscopre il potere del medium pubblicitario in quanto catalizzatore, soprattutto se utilizzato in modo anomalo: i manifesti commissionati da Mildred si stagliano in tutta la loro potenza aliena sul paesaggio di un Missouri ideale (in realtà il North Carolina); scritti nero su rosso, i messaggi veicolati da ciascuno di essi portano ad un “ritorno del rimosso”. McDonagh punta l’attenzione sulla parola nuda, sull’efficacia brutale del testo che si staglia imprevedibile nel mezzo di uno scenario idilliaco. La scrittura è oggetto e soggetto del film: non solo la lettura dei manifesti innesca una sorta di automatismo psichico nei personaggi, con conseguenze contrastanti di carattere etico e morale; ma la natura stessa dell’opera, il suo essere film “scritto” – e che procede attraverso il potere generativo della parola – diventa espressione della moralità del cinema di McDonagh.

In Tre Manifesti, i personaggi sono caratterizzati ciascuno da un linguaggio distintivo: la violenza tagliente e sintetica dell’oralità di Mildred, la poesia del quotidiano delle lettere di Willoughby, la capacità ellittica e le frasi “aperte” del giovane Red Welby, l’infantilismo espressivo, mutilato, di Dixon. McDonagh li fa interagire costruendo un’architettura dialogica sofisticata, giocata sull’alternanza semantica, sull’uso delle pause e sulla sorpresa. Quella di McDonagh è una scelta di profondo anti-realismo, per mezzo del quale ci restituisce un’America rurale non solo spazialmente indefinita, ma anche idealizzata attraverso una redenzione che nasce proprio dalla parola. Il cinema di McDonagh ha fede nella scrittura più che nelle immagini: benchè in molti si siano affrettati a definire “coeniano” il suo stile, in realtà al regista britannico manca del tutto la stilizzazione coeniana. Là dove i Coen deformano prospetticamente, immergono nel chiaroscuro o esplodono in un iperrealismo coloristico, ritagliano porzioni di reale o si perdono in impossibili profondità di campo, McDonagh si abbandona ad una messa in scena ben più impersonale.

Tre Manifesti restituisce un paese dal volto ferino, ma le lettere di Willoughby innescano una trasformazione, una riflessione di carattere morale; quella di McDonagh è un’umanità barbara che si redime e si pacifica. Ne fa da specchio il contesto: una natura non primordiale ma addomesticata (il rapporto di Willoghby con i cavalli, la familiarità col lago dove giocano le bambine, l’incontro di Mildred con il cervo). La follia pervade l’America, ma McDonagh domina l’irrazionalità con la scrittura ed il dialogo. Il suo è un film controllato, forse fin troppo cauto sull’anima.

COCO di Lee Unkrich

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Coco
è un film che vola sul filo del compromesso: il materiale narrativo appartiene alla scuola Disney più conservatrice e manipolatoria (l’ossessione della famiglia-cellula centralizzante e onnicomprensiva, in cui tutto si risolve); eppure la Pixar, fedele al suo ideale secondo cui la “storia” è la direttiva fondamentale cui tutto il film deve piegarsi ed obbedire, riesce ad elevare la banalità del plot magnificandolo attraverso un’animazione plurisignificante, fantasmagorica e “aperta”.
A differenza della casa-madre Disney, la Pixar ha sempre cercato di uscire da una limitante autoreferenzialità per trovare ispirazione in un immaginario “ampio”, esteso temporalmente e spazialmente. E in Coco si sovrappongono memorie e suggestioni visive che trasformano il film in un viaggio tanto trasversale quanto trascendente: la traccia più forte è quella del surrealismo americano di Busby Berkeley, non solo con The Gang’s all Here (1943), film di escapistica stravaganza incentrato su un folclore fantastico, il cui compito era di distrarre il pubblico dalla guerra (Berkeley oltrepassò ogni limite e si fece beffe della censura tuffando Carmen Miranda in una fallica esplosione di banane); ma anche il Berkeley meno “camp” e più raffinato: un tripudio di astrattismi, florilegi compositivi, studio di silhouettes ed effetti di luce e colore, su base spaziale rigorosamente matematica e geometrica.

Coco rincorre l’ideale avanguardistico di Berkeley, rendendolo accessibile e intrecciandolo con i generi classici americani: dal musical in stile Carioca (1933) al film spirituale tipico degli anni ’30 e ’40, sui cui aleggiava il fantasma della morte come “ritorno” familiare (da Heaven Can Wait, 1943 a The Ghost and Mrs Muir, 1947, in forme diverse). Nella sua sfrenata ambizione visiva, Coco abbraccia anche il musical alla Baz Luhrmann (le immagini de Il Grande Gatsby, 2013, balenano durante la sequenza della festa).
Ma Coco è anche l’innocenza chapliniana – nei temi della povertà, dell’avventura, del tentativo di elevarsi dalla propria condizione, quanto nella comicità corporale e slapstick.
Impossibile, inoltre, ignorare una presenza burtoniana che aleggia ora aerea (con la leggiadria malinconica de La Sposa Cadavere), ora più concreta e ingombrante (come in Beetlejuice). I vivi e morti, il travestimento, l’impossibilità di far comunicare i due mondi: temi ricorrenti della poetica di Burton e che trovano, in un giovane “diverso” (Lydia in Beetlejuice, Victor in Corpse Bride e ora Miguel in Coco) il punto di contatto tra le dimensioni.

Coco allestisce un ponte di fiori che è quasi una Scala al Paradiso (1946) e saccheggia spudoratamente, sul versante dell’animazione più recente, Il Libro della Vita (2014) prodotto da Guillermo del Toro e diretto da Gutierrez, omaggio al “Día de Muertos” e altra danza fantastica tra il buio e la luce, il corpo e lo spirito. Infine ci mostra una vecchia/bambina (come la Sophie de Il Castello errante di Howl, 2004, di Miyazaki).
C’è talmente tanto cinema in Coco da farci quasi dimenticare l’opprimente premessa disneyana della famiglia come mattone primario e indiscutibile dell’ordine sociale: un mattone che la Pixar incrina, mettendo a nudo la rabbia di Miguel di fronte alla sua chitarra fatta a pezzi.