LA MUSICA DI GION – GION BAYASHI (1953) di Kenji Mizoguchi

Gion Bayashi (La musica di Gion, 1953) di Mizoguchi Kenji è un film bellissimo e complesso, che in soli 85 minuti posa il suo sguardo sulla tradizione delle geishe e sulla loro vita, dall’apprendistato alla maturità, nel quadro del Giappone del dopoguerra. La sensibile e raffinata regia di Mizoguchi cala la realtà di queste ragazze in un contesto impalpabile di bellezza e cultura tradizionale, tra canti, danze, ampi interni adornati da tendaggi trasparenti e preziosi; ma allo stesso tempo rivela subito la brutalità del mestiere, che prepara le giovani con la massima severità solamente per farne preziosi trastulli destinati al consumo maschile.

Ancora una volta, come spesso accade nel cinema giapponese, le donne vengono ritratte in tutta la loro profondità e fierezza: Miyoei e Miyoharu (le stupende Wakao Ayako e Kogure Michiyo) sono due protagoniste combattive, duramente messe alla prova dall’esistenza, ma colme di dignità.
In particolare, il personaggio di Wakao Ayako contiene il germe dell’inquietudine e l’anelito alla libertà propri di tutta la gioventù del dopoguerra. Se l’adesione di Miyoei all’apprendistato è condotta con totale rigore, il rifiuto di ridurre il proprio ruolo a semplice prostituzione è altrettanto fermo. Assalita da un cliente che vuole possederla, Miyoei lo combatte fino a mordergli le labbra; e l’immagine che segue la collutazione – con Miyoei bellissima e sconvolta, i capelli ornati dai fiori e la bocca sanguinante – contiene tutta la natura “ossimorica” della vita della geisha, educata alla raffinatezza e costretta a subire gli impulsi maschili più turpi.
Altrettanto bello, ma meno “ferino” del ruolo di Wakao (che per tutta la sua carriera incarnerà la duplice natura femminile, innocenza e selvatichezza), il personaggio di Kogure: una geisha più esperta e amareggiata, segnata dalla malinconia e con un istinto materno che la porta a proteggere il destino della giovane Miyoei. “La parte più nera di questo mestiere mi ha avviluppata”, dice Miyoharu, consapevole della propria “caduta”.

Mizoguchi filma con grande delicatezza, inquadrando le figure umane dietro la trasparenza di una tenda o incorniciate in interni-prigione in cui si consuma un destino segnato: la scrittura filmica del regista è invisibile, eppure segue, accompagna, scruta o ci allarma con grida fuori campo. Secondo alcuni critici si tratta di una regia impassibile e anti-sentimentale: ma a mio parere i volti delle due interpreti, ripresi da una “distanza”, recano un dolore profondo che lo spettatore vive per tutto il film. Tra le due donne c’è una profondissima solidarietà, un amore che le lega in un silenzioso patto di reciproca protezione e comprensione; mentre il mondo maschile è rappresentato egoista e ottuso, incline alla ricerca immediata del piacere e cosumato dall’avidità.

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