PALM SPRINGS – VIVI COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI di Max Barbakow

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Palms Springs “ricomincia da capo” ma senza la consapevolezza del mezzo propria di Harold Ramis. Il film del 1993 dimostrava quanto la commedia potesse essere un “campo sperimentale” cinematografico in cui trovare nuove forme e strutture; erano anni fecondi, che mettevano a frutto la lezione di artisti come Zucker-Abrahams-Zucker, John Landis e Robert Zemeckis, cui si deve l’elezione della comedy a genere-laboratorio di codici e linguaggi. Del resto la Hollywood classica aveva lasciato l’eredità delle screwball, delle sophisticated comedies, delle slapsticks: una varietà di declinazioni a testimonianza della complessità ribollente della commedia e del suo potenziale di trasformazione.

Il regista Max Barbakow si appropria della struttura ad anello temporale, resa celebre dal film di Ramis, e lo fa con rara svogliatezza, prendendone in prestito solo l’impalcatura minima. Palms Springs perde, innanzitutto, la “solitudine” del protagonista, il viaggio interiore all’interno del loop temporale: banalmente, il film è una romance in cui il meccanismo narrativo funge da pretesto. La reiterazione non viene utilizzata in senso cinematografico e il personaggio di Nyles (Andy Samberg) spiega quasi tutto verbalmente alla ragazza coinvolta (Cristin Milioti); le parti del racconto sono raggruppate in sketches isolati e lo spettatore viene costantemente sottoposto a distrazioni (come l’apparizione dei dinosauri) volte a vivacizzare in senso indie (del resto è un film Sundance) la fragilità dell’arco narrativo.

Se il film di Ramis poneva pubblico e protagonista sulla stessa traiettoria esperienziale, in Palm Springs l’evento ci è consegnato già innescato: Nyles “sa più di noi” e il film risulta in questo senso un inganno, il prodotto pigro di uno script che confida sui déjà-vu dell’immaginario collettivo per colmare le sue lacune.
Il regista Max Barbakow fatica a gestire 90 minuti di durata: il ritmo, inizialmente rapido e segmentato, si allenta man mano fino a diluirsi in lunghe sequenze dialogiche e divagazioni. Per un film del genere – un prodotto che non cerca l’innovazione, ma poggia su prototipi collaudati, antecedenti che hanno stabilito codici precisi – il rispetto della grammatica e dei tempi della comedy avrebbe dovuto essere rigorosissimo.

Palm Springs non è originale ma non ha nemmeno la forza di essere convenzionale; si trascina stanco e confuso, tra estetiche spurie e personaggi secondari che scompaiono rivelandosi inutili all’economia del racconto. Un film mediocre come il suo protagonista, un Andy Samberg che gioca a fare l’Adam Sandler della sua generazione senza averne il talento.

LE STREGHE di Robert Zemeckis

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La visione di Le Streghe è stata difficoltosa: spiace vedere uno spreco di talenti – dalla sublime visione artistica e filosofica di Zemeckis alle doti interpretative di Anne Hathaway e Octavia Spencer – livellati in un prodotto usa-e-getta per famiglie e società progressiste, perfettamente aderente al nuovo revisionismo ideologico che riscrive personaggi ed eventi in base a percentuali etniche o di genere ed elimina asperità perturbanti.
Il nuovo cinema americano, già compromesso con modi e standard televisivi, è bloccato in un’afasia estetica e ideologica che raggianti production design e un abuso di computer grafica non riescono a camuffare. Zemeckis, con Benvenuti a Marwen, aveva compiuto un tentativo lirico/poetico di straziante bellezza volto a cogliere la crepa salvifica, il volto catartico dell’arte come espressione viva del sè e trasfigurazione del dolore del reale.
Con Le streghe, purtroppo, la grande maestria del regista americano – presente in poche sequenze di pura bellezza, fantasmi di americana che solo Zemeckis sa mettere in scena con tanta malinconia – è ricondotta all’interno di un cinema disciplinato, controllato, vera gabbia di un immaginario da sedare. Si priva il pubblico più giovane del diritto ad avere paura, riducendo la strega a fantoccio grottesco; mentre la scrittura monodimensionale dei tre piccoli protagonisti esclude l’ombra, l’esitazione, il terrore.

Ignorando la poetica di Dahl, che rispettava troppo i bambini per ovattarli in finzioni rassicuranti, il film di Zemeckis circoscrive il nero entro limiti esigui per rimuovere lo specchio oscuro del reale. Il romanzo amplificava, attraverso la mostruosità della strega, il dolore del vivere e la crudeltà dell’adulto; Le Streghe, al contrario, confeziona una facile dimensione autoassolutoria. La paura non è più un sentimento da temere ma il sottoprodotto ludico di un film-rollercoaster (e lo sa bene Zemeckis, esplicitandolo nella sequenza finale), emblematico di quella “disneyficazione” del mondo temuta da molti autori e registi.

Le Streghe è pura distrazione, condotta con i mezzi mediocri dell’entertainment: in questo caso gli effetti speciali, tra l’altro particolarmente scadenti. Non è possibile appassionarsi alle smorfie di tre topi in cgi, e non basta la bravura di un regista che tenta disperatamente di dar loro vita attraverso soggettive, piani sequenza e tecniche volte a cercarne l’umanità. Ottusi, fastidiosi, pronti a stemperare le emozioni nella battuta o in una mimica animata deplorevole, i tre topi sono una versione aggiornata dei Chipmunks: ma almeno, nel caso del film di Tim Hill, non c’era alcun alibi letterario. Si apprezzava il coraggio della stupidità dell’operazione in tutta la sua dichiarata evidenza.
Analogamente, la Hathaway non riesce ad incutere terrore: malgrado la sua abilità nel prodursi in virtuosistici monologhi in cui la voce è modulata in toni e accenti volubili e inquietanti, la performance è schiacciata in una post-produzione che deforma l’attrice – ma non troppo – assecondando un mercato che non vuole scalfirne la bellezza. Il brutto non esiste più a Hollywood, nemmeno nell’horror; l’osceno corporale è bandito in nome del primato estetico.