CAM: perdere se stesse, tra horror e tecnologia. La sceneggiatura di Isa Mazzei

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“Deepfake è essenzialmente un software che puoi usare per mettere il viso di chiunque sul corpo di un altro. Ad esempio, puoi creare porno di qualcuno che non ha mai fatto il porno, chiunque tu voglia, una celebrità o altro. Ed è terrificante perché sembra assolutamente reale. Questa è l’era in cui viviamo. È qui che la nostra tecnologia ci ha portato; quindi, in un certo senso, questa è Lola. Lola è qualcosa che ora, in realtà, esiste già; dobbiamo capire come affrontarla.” (fonte: Papermag)

Isa Mazzei, 27 anni, ex camgirl, scrittrice e sceneggiatrice, è tra le più interessanti artiste emergenti nel panorama culturale americano. Il suo approccio nuovo, anti-intellettualistico al tema delle sex workers l’ha condotta a scegliere il filtro del cinema di genere con un risultato dirompente; CAM è un film “femminista” eppure è un’opera completamente autonoma, un sistema indipendente ed esteticamente affascinante; non si tratta di un film asservito al proprio impegno civile, bensì di cinema esplosivo, dal linguaggio moderno e consapevole, in grado di assorbire al proprio interno le tecniche e forme del comunicare contemporaneo; un piccolo gioiello linguistico e sociologico che avrebbe incantato Marshall McLuhan.

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Isa Mazzei, con l’anticonformismo e la libertà tipici di tanti giovani artisti americani, prende il suo passato e ne fa esperienza artistica, horror con un sottotesto che rivoluziona la cultura del sesso. In genere la camgirl o lavoratrice del sesso è quel tipo di personaggio cui il cinema dedica pochi passaggi esploitativi (degradandola a vittima/soggetto marginale/rifiuto sociale, o, al contrario, l’ingenua dal cuore d’oro); Cam invece ci presenta una figura femminile ambiziosa, multidimensionale, un essere umano con cui simpatizzare ed identificarsi. Nel nostro presente social, tutti possediamo un io virtuale costruito con cura: il destino della protagonista potrebbe essere il nostro. La duplicazione di profili, il furto di identità sono crimini digitali enormemente diffusi.

La Mazzei ha raccontato in varie interviste di come si sia vista “rubare” il proprio lavoro da un insieme di siti (Youporn ecc.) dove i suoi shows venivano piratati e ricaricati senza il suo consenso. “Tutta la mia creatività, la mia passione, la mia carriera venivano spezzate in brevi sequenze prive delle mie informazioni personali e intitolate “Bruna bollente” o simili. Vedere quel corpo su Pornhub e avere la sensazione che non mi appartenesse più, che la vita e il volto mi fossero stati rubati fu uno shock; un’esperienza spersonalizzante che ho cercato di trasferire in Cam.” (fonte: Papermag)

La forza innovatrice di Cam risiede nella volontà di presentare il lavoro sessuale come talento, espressione di passione personale. La protagonista Alice, come altre camgirls (la Mazzei ha creato da sola le 99 “stanze” che appaiono nel film) mette insieme l’estro della perfomer, la sottiglienza di una psicologa e la lungimiranza di un’antropologa. Il suo show è un ricettacolo di arti, finzioni, analisi ma anche porzioni di sé offerte con tutta la generosità possibile (“Non fingo mai i miei orgasmi”, dichiara Alice fieramente). C’è una una dedizione professionale estrema che rende Alice luminosa, necessaria. La Mazzei non solo mette a nudo l’ipocrisia di chi fruisce delle sex workers senza riconoscerne la dignità, ma restitusce alla sua camgirl profondità e intelligenza, facendone un’eroina che attraversa un’odissea personale per tornare al suo desiderio primario, più “esperta” e diversa. CAM è il racconto, fulgido e folle, di una libertà ritrovata.

IL VIZIO DELLA SPERANZA di Edoardo De Angelis

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Castel Volturno come categoria dello spirito: il cinema ne è attratto, è un limbo di disperazione in cui l’umanità sembra perdere coscienza di sé e trascinarsi in una sopravvivenza senza legge né desiderio. Dopo Gomorra, L’Imbalsamatore, Indivisibili (dello stesso De Angelis), dopo Dogman, questo paesaggio ferito e marginale, luogo di migranti, torna ne Il Vizio della Speranza: speranza cui è difficile credere guardando la vita di Maria, “aguzzina” – suo malgrado – di giovani donne incinte, traghettate verso un destino sporco e senza luce. Eppure De Angelis spiega, in diverse interviste, la sua attrazione per Castel Volturno: per il regista è una sorta di “centro del mondo” in cui convivono bellezza e orrore, morte e vita. Un luogo magico e spettrale in cui si agitano sogni perduti, che De Angelis sembra quasi in grado di captare e trasferire nel suo cinema di ombre, di presenze sovrannaturali.

Il personaggio di Maria (Pina Turco) porta su di sé il peso simbolico di un disfacimento che muta in resurrezione. Inizialmente Maria è solo un corpo in azione; è gesti, movimento, passi brutali in una terra scossa e battuta dalla pioggia; sembra non porsi domande, agisce in sequenze impersonali finchè non si apre, nella sua anima, una crepa profonda da cui entra la luce. Maria rompe l’habitus quotidiano alla disperazione, cambia il proprio percorso e scopre di aspettare un bambino: una gravidanza che la riconnette alla terra e all’universo, oltre che all’intimità del proprio essere.

Attraverso il tempo del film, De Angelis trasforma Maria da semplice “agente” del destino a creatura ferita e colma di amore e volontà. Ella è il germe estraneo che si insinua in una disumana desertificazione sentimentale: è la mano che carezza il proprio cane; è la figura protettiva che si stringe nella notte ad una ragazzina disabile di colore, bloccata in un destino di povertà e prostituzione; è la donna che si riscopre bambina attraverso una vecchia fotografia. Maria, come Castel Volturno, è una terra violata e privata dell’innocenza.

De Angelis si sofferma a lungo, intimamente, sul suo volto indurito; e contemporaneamente esplora, attraverso lunghi piani sequenza, una scenografia quasi astratta nella sua crudeltà: il grigio pallore del cielo, il collasso architettonico, le insegne al neon che brillano su un vuoto monocromo. Non è realista, il cinema di De Angelis: è un cinema che ambisce alla spiritualità metaforica, persino ad un impressionismo “pittorico”: Maria e la natura morente sono segni; questa è la cifra distintiva di De Angelis, la sua qualità non da tutti apprezzata.

La vicenda della ragazza trascolora in allegoria che De Angelis spezza con squarci visionari: vi è un legame tra il suo cinema e le malinconie funebri di Gatta Cenerentola di Rak, Guarnieri, Sansone e Cappiello: film di fantasmi, proiezioni future, anti-eroine selvatiche e mute. Con questi autori De Angelis condivide il sogno di un cinema rivelatore, animato da profonda fede personale; la sua religione è l’umanità, riesumata tra le rovine siderali e dimenticate del Volturno.

LA BALLATA DI BUSTER SCRUGGS di Joel e Ethan Coen

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Bisogna ringraziare Netflix, che ha offerto ai Coen la libertà creativa e i mezzi per poter realizzare La Ballata di Buster Scruggs, uno dei “canti d’America” più belli e personali degli ultimi anni; l’quivalente cinematico e western del letterario Gates of Eden (1998) di Ethan Coen, gioiello noir che sintetizzava un’epoca, un sentire formale quanto etico.
La Ballata di Buster Scruggs si articola in sei racconti, ciascuno preceduto da un “plate” illustrativo: i Coen si addentrano subito nelle radici del mito, delle leggende popolari tradotte nei tanti brani musicali che diventano elemento narrativo. La bellezza del film dei Coen è il suo essere una magnifica immaginazione del passato; è un western stilizzatissimo a livello scenografico quanto di scelte registiche. Ogni scena è rappresentata come un quadro metafisico, con i saloon, gli edifici, le banche stagliati su un orizzonte desertico; le campiture coloristiche sono spesso piatte, uniformi e molto vive, le figure umane scarse o assenti. Tutto è sospeso in uno strano enigma mortale.

Il primo episodio, molto breve, dà il titolo al film ed è tra i più divertenti: più che Lynch, come molti hanno scritto, questo primo segmento sembra omaggiare Chuck Jones – ma è anche evidente la convergenza stilistica coeniana con il cinema dell’amico Sam Raimi. Prospettive spericolate, soggettive, movimenti e simmetrie perfette quanto avanguardistiche: i Coen mescolano apologo ed un surrealismo da cartoon. Il secondo episodio, Near Algodones, è un capolavoro di sintesi: la composizione dell’inquadratura, il montaggio, i dialoghi concorrono per darci un quadro folle e filosofico in cui la vita è metaforizzata come un rapidissimo vaudeville, sorridente ed amaro. Ogni immagine è una “storia”, semanticamente esplosiva.

Il terzo episodio, Meal Ticket, è il più bello, sperimentale e complesso; ci rammenta Tod Browning, la poesia dei freaks, la profanazione dell’innocenza. Liam Neeson è un misero impresario circense, mentre la creatura in suo possesso (un grande Harry Melling) è qualcosa di sublime e straziante: un giovane “mostro” abitato dall’anima di Percy Bysshe Shelley. I Coen lo proiettano in un isolamento atemporale, virato in un blu mistico e nebbioso, da cui emergono occhi fieri e uno spirito in tumulto. L’episodio è un’esperienza allo stesso tempo potente e mestissima; un sogno in bilico tra Collodi e le fotografie di Diane Arbus, che spezza il cuore.

Col quarto episodio, All Golds Canyon, torniamo ad un west più “naturale”: un canto tra uomo e natura, in cui però i due autori inseriscono la classica “sfasatura” umoristica coeniana (es. l’inquadratura attraverso le corna del cervo, o gli occhi ammonitori del gufo). I Coen sono troppo colti, troppo consapevoli dell’occhio “assassino” del cinema per restituisci ingenuamente l’immagine di un’armonia; l’essere umano è, per sua natura, schizofrenico e squilibrato e la sua impronta nel mondo è sempre una ferita.

Il quarto episodio, The Gal Who Got Rattled, meriterebbe una recensione a sé, in quanto è l’unico a cercare una dimensione spazio/temporale da lungometraggio; c’è tantissimo cinema in questo segmento – John Ford, Henry Hathaway, Howard Hawks, fino a Raul Walsh (con quel cagnolino che sembra scappato da High Sierra); e c’è una figura femminile delicata ed esangue, un’antieroina all’interno di una violenza cui non riesce ad adattarsi.
La conclusione viene affidata ad un breve “atto unico” – The Mortal Remains – che sembra liberamente attingere, con feroce ironia, all’esistenzialismo sartriano (c’è una vaga rimembranza di “A Porte Chiuse” in questa carrozza che racchiude cinque improbabili compagni di viaggio). Un film-capolavoro, forse diseguale, ma che è un inno al piacere infinito del cinema.

CAM di Daniel Goldhaber e Isa Mazzei

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Più di venti anni fa il grandissimo e compianto Satoshi Kon, con il suo occhio in grado di cogliere con grande anticipo i mutamenti socio-culturali e trasferirli in animazioni di straripante e deviata fantasia, raccontava in Perfect Blue (1997) la schizofrenia identitaria innescata dalla dimensione parallela della rete internet. Cam raccoglie la sua eredità – forse inconsapevolmente, ma è legittimo pensare che gli autori abbiano visto il capolavoro di Kon anche per la particolare atmosfera giocosa e “kawaii” del film. La protagonista, Alice (una straordinaria Madeline Brewer, celebre per la serie Handmaid’s Tale in cui ruba letteralmente la scena) è l’equivalente della “Tokyo Idol” protagonista di Perfect Blue; la sua traiettoria è la stessa, ma contestualizzata al territorio pericoloso e psicologicamente devastante delle camgirls, le lavoratrici del sesso online.

Il regista Daniel Goldhaber racconta, con un linguaggio potente e sintetico, l’odissea di Alice (il cui pseudonicmo è Lola_Lola, come L’Angelo Azzurro di Sternberg) attraverso la “forma” in cui la ragazza è rinchiusa, ovvero lo schermo del computer; Goldhaber apre il film inquadrando la finestra video dalla quale la ragazza si esibisce, con tutto l’apparato strutturale annesso: scorrimento di commenti, messaggi in pop-up, frames in cui le girls vengono ordinate secondo una graduatoria di popolarità in costante mutazione. Un vero inferno di informazioni intermittenti, che Lola monitora con attenzione ossessiva.
Sorridente e disponibile con gli esigenti visitatori della “room”, la ragazza allestisce ogni giorno uno spettacolo differente, offrendosi in una moltitudine di versioni del proprio sé. La sceneggiatrice di Cam, Isa Mazzei, ha esorcizzato i demoni del proprio passato di camgirl ideando le 99 “stanze” del film e fissando nella scrittura le fissazioni, le manie, la violenza dei commentatori; ma soprattutto ha brillantemente sublimato nell’horror le alterazioni, al limite della schizofrenia, della psicologia delle camgirls, la cui identità viene letteralmente fagocitata dalla rete internet al punto da non poterne più reclamare il possesso.

Daniel Goldhaber asseconda con grande complicità il feroce umorismo della Mazzei, mettendo in scena il delirio narcisistico e sadomasochistico di Cam attraverso un trionfo di finzioni, ruoli, maschere, spazi reinventati e brillanti di luce al neon.
Meglio di Searching, meglio di Unfriended, il film si serve degli stessi linguaggi al centro del racconto: le immagini si confondono, ma Goldhaber è bravissimo a far deflagrare il visibile, svelare gli inganni percettivi e di senso, ruotare la mdp per liberare il nostro sguardo dai confini imposti dal computer. Il film gioca sempre tra due livelli di realtà, li sovrappone, li fa scontrare (come nel momento in cui la madre di Alice scopre il suo alter ego pornografico). Tra le due identità di Alice/Lola il divario si apre in modo ineluttabile in un coup de théâtre che regge il film, ne determina l’estetica e le derivazioni semantiche.

Ma intanto Cam non smette di intrattenere: Goldhaber colora le sue ragazze di rosa, glitter, le circonda di peluches, le dota di personalità virtuali effimere e candide; schiude un mondo di colori pastello, regressioni infantili, pulsioni sessuali primitive rivestite di zucchero filato. La sua analisi delle derive psicanalitiche indotte dalle “rooms” online è affilata, terribile, sino alla “messa in abisso” in cui cade la protagonista. Eppure non smettiamo di tifare per lei, farci sedurre dalla tentazione di un universo separato e senza pensieri, in cui il nostro io pulsionale può liberarsi e degenerare. Una finzione scintillante e ammantata di polvere di stelle, in cui si cela un baratro di alienazione e solitudini. Notevolissima la colonna sonora, che punteggia di synth pop caramellato il mondo di Lola.

WIDOWS di Steve McQueen

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Steve McQueen, tra i più brillanti autori della sua generazione, torna dopo 12 Anni Schiavo portando sullo schermo uno dei fantasmi della sua infanzia: la miniserie televisiva britannica Widows di Lynda La Plante, in onda negli anni ’80. McQueen ha spiegato in più di un’intervista la sua scelta apparentemente bizzarra: nelle donne del telefilm, considerate deboli ed incapaci da famiglia e società, il regista allora giovanissimo finì con l’identificarsi. L’essere un bambino di colore, giudicato inferiore e privo di valore sociale, determinò una immediata connessione con le protagoniste di cui condivideva la ricerca di un riscatto.

Widows nasce quindi come passione resa concreta, ricordo attualizzato alla moderna sensibilità. McQueen stabilisce da subito la natura del film con un incipit strepitoso, un montaggio che interlaccia le vite private dei personaggi con una scena d’azione stupefacente. Momenti d’amore, conversazioni, immagini di violenze domestiche in interni vengono alternati ad intermittenti, esplosive immagini di una rapina, immettendo subito lo spettatore in un’opera pulsante in cui crime e melodramma sono inscindibili; cinema “lurido” e “nobile”, distinzioni che McQueen vuole svecchiare, confondendole e infiammandole reciprocamente. Ma Widows è, soprattutto, un “film di donne” in senso classico (pensiamo a Cukor e Sirk).

McQueen, regista che ama i propri attori, ha una passione umanistica che lo porta a carezzare le sue protagoniste, avvolgerle nello sguardo empatico della sua macchina da presa; il suo interesse è raccontarle, sollevare il velo del rigido stereotipo che solitamente inchioda i personaggi femminili dei thriller al loro mero valore funzionale.
R.W. Fassbinder, a proposito di Douglas Sirk, scrisse: “nei suoi film vediamo le donne pensare, ed è bellissimo”*. Widows è estremamente sirkiano nella sua osservazione del femminile: analizza i pensieri, i moti dell’animo, e lavora affinché le categorie in cui le donne sono state imprigionate – nella finzione filmica quanto, metacinematograficamente, nel sistema hollywoodiano dei generi – vengano disgregate. Widows è l’opera di un regista femminista, ma ostinatamente privo di pedanteria: la tela di impegno civile è intessuta tra le maglie di un grandissimo intrattenimento.

McQueen sfida le convenzioni del genere consegnandoci un’opera tecnicamente sfavillante, tanto spettacolare quanto autoriale. Dai complessi movimenti di macchina, metafore della (falsa) gloria di Jack Mulligan (Colin Farrell), ai vorticosi abissi criminali di Jatemme (Daniel Kaluuya), dal monologo corleoniano di Jamal Manning (Brian Tyree Henry) alla staticità sofferta dei primi piani su Veronica (Viola Davis), McQueen non abbandona mai il suo film all’anonimato e rigetta l’uso di codici logori. Un film potentissimo, personale, continuamente in bilico tra cinema “alto” e “basso” (schematismi che McQueen disdegna profondamente) e in grado di spalancarci un immaginario nuovo sui topoi ormai consunti del crime.

(* R.W. Fassbinder, “I film liberano la testa”)

OVERLORD di Julius Avery

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Prodotto dalla Bad Robot (Cloverfield, Super 8, Mission Impossible: Protocollo Fantasma e Rogue Nation) di J.J. Abrams, Overlord è uno dei film più anomali e selvaggi della stagione: la scelta di realizzare un war movie che muta violentemente nell’horror più febbricitante si accompagna ad un amore artigianale, quasi nostalgico del fare cinema e ad un’attenzione per i personaggi che non sempre si riscontra nei film di genere. Julius Avery propone la deriva zombie come estrema esperienza orrorifica vissuta dai soldati della Seconda Guerra Mondiale, parte di un sistema infernale cui sono costretti ad assoggettarsi;  il cast è scelto con cura ed i volti sembrano gli stessi del documentario Let There Be Light (1946) di John Huston, incentrato su giovanissimi veterani traumatizzati dal conflitto.

Introdotto da titoli di testa dal design di grande suggestione, Overlord ci mostra i soldati all’interno di un C-47, alla vigilia dello sbarco in Normandia. Avery si premura, con brevi dialoghi ed un montaggio essenziale quanto espressivo, di esporci i rapporti tra i personaggi e le loro funzioni, suscitando un’immediata risposta emotiva da parte dello spettatore. Si tratta di un incipit vibrante di classicità, esaltato dal decoupage; un equilibrio che viene brutalmente interrotto da una sconvolgente scena d’azione, realizzata quasi totalmente senza digitale, ricorrendo a effetti di tipo pratico, stuntmen e montando la riproduzione della cabina aerea su un complesso sistema idraulico in grado di inclinarsi a 45 gradi.
Questi dettagli di tipo tecnico in realtà sono i segni di un manifesto estetico: una dichiarazione d’amore nei confronti del cinema come atto creativo e performativo, capace di esprimere un realismo sensibile e tattile; un cinema che rifiuta la distanza fredda degli effetti in cgi e vuole offrire allo spettatore l’orrore più reale, fargli sentire l’odore del sangue e persino provare la vertigine del movimento.

Il film procede senza che Avery tradisca mai le sue dichiarazioni d’intenti: ci conduce in boschi brumosi e densi di metafore, con cadaveri che emergono dal buio, cieli attraversati da aerei in fiamme, mine che riducono i soldati in informi grumi senza più volto. Overlord è estremamente potente nel veicolare immagini mai compromissorie, memori di decenni di cinema di genere americano, dal muto a quel tipico “cinema della paranoia” post-bellico.

Dopo una parte centrale di “sospensione” in cui si prepara l’esplosione di delirio orrorifico, Avery mette in scena il trionfo del genere portandolo alla sua cifra più pura: estatico, nonsense, di una brutalità gore senza scrupoli. Certo, l’ombra di Mengele ci procura un brivido di malessere difficile da ignorare, ma il regista ci riconduce sul sentiero del piacere riportando alla luce tutto l’immaginario fantastico dei “mad doctors” alla ricerca dell’immortalità, e lasciandoci solo intuire le allusioni ad un discorso più profondo. L’intento primario è quello di offrirci un catartico intrattenimento.
Overlord affronta l’horror col piglio avanguardistico del Joseph Green di The brain that wouldn’t die (1962) e soprattutto dello Stuart Gordon di Re-Animator (1985): film “luridi” ed eccitanti nella loro ebbrezza di sangue e follia, gloriosamente privi di giustificazioni etiche e animati dal desiderio di spingersi oltre il confine del visibile.

FIRST MAN – IL PRIMO UOMO di Damien Chazelle

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Chissà quanto deve aver riflettuto Chazelle sulle accuse (anche fondate) di virtuosismo mosse così frequentemente al suo cinema. Tanta critica deve aver indotto il giovane regista a ripensare il suo stile e dimostrarsi in grado di realizzare un film completamente differente: da questo stato d’animo è nato First Man, talmente grigio, antispettacolare, bloccato linguisticamente da rappresentare una sorta di negazione del suo cinema precedente.

First Man è uno Chazelle privato dell’entusiasmo: represso nella sua tipica verve che lo portava, certo, ad eccedere, a trascinarci in sensazionalistici piani sequenza, dentro scene coreografate sino al capogiro; eppure in tanto cinema irrequieto si percepiva una commozione sincera, il desiderio di sfruttare il mezzo in tutte le sue possibilità regalando allo spettatore uno spettacolo magnificato.
First Man ha il sapore di una resa, ma soprattutto nasce da un equivoco: che il ridurre il linguaggio del film ad una ricercata povertà, il privarlo di una forma e di una narrazione definite gli conferiscano status artistico. Soprattutto va constatato come l’abuso del primo piano stia diventando vezzo registico in cui proiettare velleità autoriali (si veda anche A Star is Born).

Coadiuvato da un Ryan Gosling mai così spento, mai così intrappolato nella propria maschera da essere quasi parodia di se stesso, Chazelle compone un film disperatamente alla ricerca di un realismo che tradisce la presenza del regista in ogni scena.
Chazelle orchestra l’infinita durata alternando primissimi piani, dettagli, “espressive” sfocature. L’ostinato antivirtuosismo diventa esso stesso un virtuosismo, perchè di fatto blocca il film su due-tre grammatiche.
L’insistita macchina a mano vorrebbe condurre lo spettatore in una sorta di domestica confessione, una via di mezzo tra Boyhood e un filmino superotto (in realtà 16 mm, formato scelto dal regista per l’effetto “documentario”); ma Chazelle non è in grado di gestire un’ispirazione che sembra non appartenergli. Lo spettatore fatica a muoversi all’interno di quest’opera senza struttura, in cui le scene sembrano aggregate più che montate: First Man procede per accumulo, fino al logorio, trascinato da personaggi stanchi e impenetrabili.

Non aiuta la colonna sonora di Justin Hurwitz, che mal si amalgama con le immagini: Hurwitz cerca un “oltre” spettacolare, il contrappunto significante o retorico, addirittura imita “Sul bel Danubio blu” di Strauss (si confronti il suo “Docking Waltz“) inseguendo il fantasma di Kubrick.
Chazelle cita 2001 – Odissea nello spazio in più scene, ma senza averne i mezzi né il senso dell’infinito; First Man è un fallimento, un passo falso nel percorso artistico di un giovane regista di talento che nel temperare la propria natura rinuncia alla freschezza espressiva del suo cinema.

IL MISTERO DELLA CASA DEL TEMPO di Eli Roth

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Un lungo déjà-vu in cui è un piacere indulgere: Il Mistero della Casa del Tempo è un film/ricordo, un affettuoso luna park messo in scena da Eli Roth con tutto il suo entusiasmo infantile, secondo lo spirito originario della Amblin.
Si percepisce quanto Roth si sia divertito a realizzarlo: com’è nel suo stile, affastella intuizioni, citazioni, impulsività realizzando un’opera talora ruvida, ma estremamente viva e sincera. Il cinema di Roth è sempre stato diretto, evidente: e anche Il Mistero della Casa del Tempo si offre in tutta la sua immediata irruenza, una peculiarità in cui risiede gran parte del piacere offerto dalla visione. Roth usa la macchina da presa come il suo Donnie di Inglourious Basterds usa la mazza: colpisce impetuosamente e senza esitazioni, fa esplodere forme, colori, ci immette direttamente nell’azione, rendendoci alternativamente vittime e complici. Gli effetti sono spesso rozzi, non limati, la CGI non è invasiva e c’è una predilezione per un prostetico realismo.

Manca del tutto la polverosa, prevedibile ed educatissima perfezione delle opere Disney: Il Mistero della Casa del Tempo si dichiara orgogliosamente un B-Movie e osa un “fantastico estremo” fatto di possessioni, zombies, satanismi, manichini e bambole meccaniche (questa apparizione, in particolare, dà luogo ad un tripudio visivo tra Maniac di Lustig e Il Mulino delle donne di pietra di Ferroni). Eppure Roth resta perfettamente aderente al suo giovane pubblico riuscendo a trasformare la materia, nonostante il gusto blasfemo e gli occhi saturi di suggestioni di serie B, in un favola di grande dolcezza. Lo aiuta un cast perfetto (contro ogni previsione): Jack Black mitiga i suoi eccessi e insieme a Cate Blanchett costitusce una coppia irresistibile per imprevedibilità e tempi comici. Kyle McLachlan si rivela una eccitante controparte malvagia, confermando la celebre regola hitchcockiana secondo cui “più è riuscito il cattivo, più è riuscito il film”.

Il Mistero della Casa del Tempo ci cattura come una casa abbandonata e scricchiolante: Roth sembra particolarmente deciso a fare del suo film un Evil Dead/Army of Darkness di Sam Raimi in versione PG: tra un Necronomicon che resuscita morti, libri che volano, demoni, mobili e oggetti che si animano, Roth riporta in vita tutta l’inclinazione di Raimi per l’eccesso e l’astrazione. Entrambi i registi sono fortemente legati a Georges Méliès: si pensi al gusto per le meccaniche, per l’illusionismo, al cinema come opera di magia.

E’ possibile, nell’ambito del cinema per ragazzi, tracciare un “insieme ideale”: Il Mistero della Casa del Tempo possiede un legame con la memoria, con l’incantesimo del muto e con la Morte che lo accomuna a film diversi come Hugo Cabret, Il Grande e Potente Oz, Miss Peregrine – La casa dei Ragazzi Speciali e il GGG – Il Grande Gigante Gentile; opere che mescolano fantastico e ricordo, l’infinita passione per il meraviglioso e per la realtà guardata attraverso occhi infantili. Quello di Roth è il film di un bambino che ha costruito la sua vita attraverso l’amore per il cinema.

BATMAN (1989) – BATMAN RETURNS (1993) di Tim Burton

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Nel 1989 Tim Burton viene chiamato dalla Warner Bros a dirigere Batman, il primo episodio di quella che diventerà una franchise di enorme successo. Il Batman burtoniano, così come prende vita nei due capitoli – il primo non completamente riuscito ma “officina” ricca di intuizioni, ed il successivo di grande raffinatezza psicoanalitica e stilistica – si distingue come emblema eccentrico in due misure: rispetto all’immaginario del regista stesso, di cui rappresenta una deviazione; e rispetto al supereroe della DC comics, di cui offre un’interpretazione originale e controversa.
In realtà qualsiasi analisi dei due film che parta da una comparazione filologica con le caratteristiche del personaggio originale della DC comics non ha alcun senso, perchè Tim Burton non era un fanatico del fumetto. Trovatosi tra le mani il copione di Tom Mankiewitz (scritto già nel 1983), pensò immediatamente che il protagonista, elaborato dallo script in forme camp e convenzionali, andasse decostruito e riformulato in toni sfuggenti, contrastati, violentemente contraddittori; ne fece una parte del proprio mondo interiore, con maggior circospezione nel primo Batman, e possedendolo completamente quattro anni dopo in Batman Returns.
Tim Burton era affascinato dalle varianti più noir e maledette del supereroe, così come presentate nei fumetti The Dark Knight Returns (1986) e The Killing Joke (1988), che ripensavano il personaggio criticamente, velandolo di scetticismo e parossismi psicologici. Batman secondo Burton è una creatura scissa e tormentata, un freak al contrario, che vive la sua anormalità rispetto al reale quando veste i panni quotidiani.batman2La “maschera” è liberatoria, permette di esprimere una diversità aliena da convenzioni sociali e di lasciar fluire le passioni (a differenza del personaggio tradizionale del fumetto, Batman uccide). Per la prima volta Bruce Wayne non viene presentato come una copertura ma come un vero personaggio in antitesi con il supereroe; ed il gioco sottile, sfumato del regista è questa alternanza continua di livelli, che si esprime sul piano linguistico ma anche estetico. L’eroe scivola e si confonde coi suoi villains, ma gioca dialetticamente anche con se stesso: dove risiede l’io più autentico, in Wayne o Batman? Chi limita l’autenticità dell’altro?
Dietro l’apparente mondanità di Wayne si cela un uomo dibattuto e reclusivo che cerca il riscatto personale nell’eroismo del suo alter ego, un ideale che a sua volta vive di contraddizioni – Burton mette in discussione la “positività” del supereroe, le motivazioni, la spinta catartica delle sue gesta spingendo il suo pessimismo nel decor del film: traumi e pulsioni affogano nella città deforme, espressionista, prigioniera dei propri fuochi e sporca di clastrofobici peccati. Le scenografie di Anton Furst – e successivamente Bo Welch – giocano un ruolo essenziale nel delineare l’evoluzione tra le due opere. Mentre nel primo film la città-terra di nessuno ha ancora le fattezze di una metropoli industriale, brutale, città assassina e metallica, nel secondo le ombre si allungano, i palazzi si fanno cattedrali gotiche del nulla: è una celebrazione del paesaggio interiore, un simbolo emotivo, debitore di Caligari e di Fritz Lang quanto dell’austerità e ieraticità della pittura medioevale. Burton trasferisce in Gotham lo spirito avvelenato e irrisolto di Batman, contorto tra le pulsioni di vendetta e il proprio granitico ideale di vigilante.

Ancora piuttosto indisciplinato all’epoca, Burton riuscì ad affrontare una materia scottante come una potentissima franchise trattandola con un atteggiamento anarchico sorprendente: finge l’adesione protocollare alle convenzioni del genere – formalizzate dall’illustre precedente Superman (1978) ma si rifiuta di offrire al pubblico un personaggio su cui investire la propria emotività e la propria simpatia. Batman/Wayne rimane distante e sgradevole, ambiguo nelle proprie motivazioni. Lo spettatore non ha appigli psicologici, e Burton è particolarmente interessato a questo “disagio da identificazione”; gioca con le nostre emozioni confondendoci, spingendoci spesso tra le braccia del cattivo (chi non si è lasciato commuovere dal dramma del Pinguino?). L’anima di Batman è insana quanto quella dei suoi antagonisti, si muove in una coazione a ripetere minata da incertezze morali, e si fa contenitore delle atrocità insensate veicolate dai suoi nemici. Burton smantella ogni consolazione, non esita a distruggere l’illusione che si cela dietro ad un ingenuo “bisogno di eroi”: e se il Joker era ancora corpo estraneo, motore del trauma, nell’installment finale trionfa la messa in scena – finissima, sadica – dei frantumi in cui Batman compone la sua anima spezzata: il bambino orfano (Pinguino) l’uomo di mondo (Max Shrek); il doppio mascherato (Catwoman) – versioni deformi del suo tragico egocentrismo.

(già apparso su Nocturno n. 117)