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Educato, sottile, antisensazionalistico: queste le caratteristiche del biopic di Jon S. Baird, attento alle impercettibili sfumature di un rapporto oltre ogni ordinarietà. Aderendo fieramente ad un senso tradizionale del racconto, Baird rifiuta qualsiasi decostruzione strutturale in senso postmoderno (strada che il regista aveva esplorato in Filth, 2013) e si concentra sui due protagonisti, concedendosi appena qualche virtuosismo registico: infiorescenze poetiche che non distolgono dalla delicata osservazione della coppia, di cui la sceneggiatura (di Jeff Pope) coglie l’affinità elettiva.
Scegliendo di isolare i mesi del 1953, che vedono il duo impegnato in un faticoso ma ancora magico tour, l’ultima polvere di stelle, Baird focalizza l’attenzione sul tramonto dei due artisti, sulle difficoltà economiche e le umiliazioni affrontate con una cristallina dignità; ma ancor di più sulla fede nell’amicizia che li lega. Stan e Ollie vivono una complicità umana e artistica dai caratteri unici: perfettamente complementari, sono l’uno la scintilla comica dell’altro; la loro arte è la sublimazione del vivere in un nonsense di assoluta innocenza.
Baird sottolinea la loro fede nel potere di trasfigurazione dell’arte ricostruendo artificialmente gli esterni, con un effetto di “falsità”: cieli dipinti, palazzi come oggetti d’arte stagliati su strade vuote e illuminate da luci dorate, città come immensi set.
La vita come eterno palcoscenico, su cui Stan & Ollie si muovono in una perenne performance: i due attori riproducono alcuni tra i loro più celebri sketch all’interno di situazioni quotidiane, per colorare anche la più triste delle situazioni; così come si ostinano a scrivere gag e dialoghi per un film che non sarà mai.
Non si tratta di banale identificazione con i propri ruoli – anzi, Stan e Ollie sono ben consci del divario tra realtà e illusione – bensì di una tensione insopprimibile all’arte, per rendere accettabile la vita. Il film di Baird, nella sua semplicità che sfiora la convenzione, cela un nucleo di profondità filosofica, una riflessione lirica e colma di pudore sull’arte come superamento ideale delle fragilità e dei limiti umani. Fragilità che i due comici portano sul proprio corpo senza falsi pudori, rispondendo alle battute di chi si sorprende nel vederli ancora in scena: “non è ancora sopraggiunto il rigor mortis”.
John C. Reilly e Steve Coogan offrono due prove incredibili: la classe, l’irraggiungibilità dei due attori risiede in una capacità che va oltre il puro mimetismo. Senza la benchè minima concessione a cliché o facili imitazioni, Reilly e Coogan interiorizzano, con tutto l’amore possibile, sguardi, gesti, movimenti e il repertorio immortale della coppia, sfuggendo a qualsiasi flessione caricaturale. Si ride guardandoli, senza sapere se il nostro sorriso sia per gli attori di oggi o quelli di ieri; il tempo scompare, presente e passato si sovrappongono, resta l’astrazione di un’arte comica che sfida l’eternità.
Per Stan Laurel e Oliver Hardy la “coppia” aveva un valore sacramentale, ben oltre il mero ambito spettacolare o commerciale: Baird ha il coraggio di mostrarceli vicini, sdraiati su un letto mano nella mano, vecchi e sfruttati; eppure ancora illuminati dal desiderio di trovarsi insieme sulla scena, di scrivere nuove battute, di perfezionare gag classiche, di “danzare” seguendo tempi, ritmi, codici segreti di un linguaggio comune.
Credo che ricorderò a lungo questo film grazie alla magistrale interpretazione dei due attori. Il film in sé non è memorabile, ma tratta con eleganza e rispetto la più grande coppia comica mai esistita. Bellissimo post, complimenti.
Ti ringrazio. Anche io ricorderò a lungo il lavoro d’amore dei due interpreti.
Complimenti davvero sulla tua recensione! A me il film è piaciuto molto, l’attore che interpreta Stanlio è forse il più somigliante all’originale. Complessivamente mi è piaciuto molto, inoltre ho avuto modo di scoprire cose che ignoravo. Manuela.