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Intelligente riciclatore di materiali, figlio della serialità televisiva (da Buffy the Vampire Slayer a Black Mirror), colto consumatore di cinema di cui ha individuato generi e stili catalongandoli in un repertorio da riutilizzare con alfabetica metodicità, Jordan Peele è l’emblema del nuovo cinema progressista americano. Dopo Get Out, Noi è un altro film in cui creazione e creatività diventano alibi per il conseguimento di due scopi: il primo, enumerare la propria formidabile alfabetizzazione audiovisiva per quanto riguarda estetica e semantica contemporanee; il secondo, veicolare un “social commentary” che nel caso di Noi è scopertamente politico.
Noi ha una qualità: sa intrattenere. Peele procede per accumulo, costruisce la tensione affastellando climax in successione e per gli spettatori di oggi, irrimediabilmente compromessi dal deficit dell’attenzione, è un dato positivo. Inoltre, seguendo la lezione di tanta televisione neo-filosofica (dal citato Black Mirror, a Dark, a The OA ecc.) si configura come spettacolo in grado di operare un disvelamento della realtà in termini tanto spettacolari quanto semplicistici: tramite rovesciamenti, facili metafore, ammiccamenti continui ad una cultura pop ormai codificata nell’immaginario, Peele diverte e lascia nello spettatore la velleitaria sensazione di ritrovarsi depositario di iniziatiche verità.
Dimensioni parallele, determinismi, circolarità del tempo, cospirazioni sono i temi prediletti dal nuovo pubblico che chiede facili speculazioni – etiche, estetiche, metafisiche – sulla struttura del reale, con cui esorcizzare la noia del vivere; Peele costruisce con Noi il perfetto giocattolo ingegneristico capace di combinare le parti in sistema: certo, si tratta di un sistema postmoderno, discontinuo, fatto di coazioni a ripetere (la seconda parte del film è un flusso di finali senza soluzioni di continuità), eterogeneità citazionistica (dalla paranoia sci-fi de L’invasione degli ultracorpi, alla rivoluzione romeriana di La notte dei morti viventi e La città verrà distrutta all’alba ai grafismi del J-horror), ma in ultimo ci si chiede, appellandoci a Bazin: “Che cos’è il cinema”?
L’universo di Peele, come tanta valida produzione audiovisiva americana (per qualità tecnica, riflessività sui topoi della propria cultura), ha una sua brillantezza ma sembra avviluppato nel proprio acume, incapace di produrre una scintilla vera. Lupita Nyong’o, nelle vesti del suo doppio in rosso (come Michael Jackson in Thriller), fornisce, a meno di metà film, un racconto esplicativo quasi insultante per l’intelligenza dello spettatore; ed è qui che si rivela l’equivoco di un regista che si affanna a spiegare, metaforizzare, disseminare di ovvi indizi, livellando la fantasia di chi guarda e chiudendo ogni voragine di libertà che il cinema, soprattutto horror, dovrebbe lasciare.
Pingback: L’ANGELO DEL MALE – BRIGHTBURN di David Yarovesky | Frammenti di cinema - di Marcella Leonardi