Con i due film realizzati negli anni 80 – Purple Rain (1984) e Under the Cherry Moon (1986) – Prince attua un’operazione di creazione e decostruzione del mito. Si tratta di due opere profondamente differenti con le quali l’artista espresse in forma cinematografica l’arco evolutivo del proprio atteggiamento verso lo “star system” discografico e ancor più, la percezione di se stesso.
Purple Rain ha un impianto drammatico archetipico (il “viaggio” dell’eroe alla scoperta del sé, attraverso l’esperienza ed il rapporto amoroso) su cui si innesta una duplice struttura sensoriale: quella musicale e quella figurativa. Purple Rain racconta una storia elementare di amore e riscatto, ma la star viene forgiata quasi esclusivamente dal vortice sonoro/visivo che si sprigiona dal film.
The Kid parla poco, si esprime con dialoghi mozzati ed allusivi; ha un’allure di mistero che lo circonda, è assenza, sparizione, atmosfera. Raramente ci appare nella sua interezza: le inquadrature lo sezionano in dettagli – il viola degli abiti, la mano elegante e guantata, lo scintillio degli occhiali a specchio, la cromatura della motocicletta. In questi frammenti, The Kid è luce e colore. Egli muta fino a farsi corpo nella sua interezza solo quando è sul palco: lì trova la propria rappresentazione. Sotto i riflettori, ed in una sovrumana esaltazione sonora/luministica, ciascun indizio frammentario si ricompone in unità: The Kid diviene Prince, con l’assenso delle majors discografiche.
Purple Rain, ambientato in una Minneapolis circoscritta e trasfigurata in interni, è il palco universale in cui musica e idealizzazione biografica combaciano; il pubblico riceve la star sognata, nata da una famiglia disfunzionale per elevarsi fino alle stelle. Purple Rain si basa su una semplificazione dei conflitti e delle relazioni rappresentate per far emergere la star aurea, la divinità musicale consegnata all’adorazione del popolo. Albert Magnoli dirige magnificando il divo, come accadeva nel muto: si affida all’incanto di scene simboliche (la gita al lago), alterna sequenze musicali oniriche e realistiche scene di vita (lo squallore della vita familiare di Kid), ma soprattutto indugia in numerosi primi piani di un Prince silenzioso; il suo mutismo lo qualifica come proiezione onirica e visione estetica.
Purple Rain edifica un mito in modi convenzionali, pur servendosi di una forma eccezionale, che è Prince stesso. Quella stessa forma viene rovesciata in Under the Cherry Moon, in cui Prince dimostra insofferenza nei confronti di qualsiasi circoscrizione della propria personalità. La star iconica e malinconica, colma di arte e dolore non è che una limitazione da cui Prince si agita per liberarsi. Under the Cherry Moon decostruisce l’Artista per farlo rinascere più vivo e vero.
Diretto da Prince stesso, Under the Cherry Moon si spoglia della musica – che non è più avvolgente, strumento per ammantare il personaggio di leggenda – e del colore; ma si riappropria della parola. In un film che è un omaggio stilistico/sentimentale agli anni ’30 – nel decor, nella luminosità del bianco e nero quanto nella follia scanzonata e liberatoria del pensiero – Prince tenta quasi un dialogo screwball (assieme al buddy Jerome Benton, e all’oggetto d’amore Kristin Scott Thomas). Under the Cherry Moon prende le mosse da un interno alla Casablanca per trasformarsi in una commedia in cui si affastellanno gli echi di Hawks (lo scontro di mondi opposti, la farsa fisica, con Prince/Susanna pronto a sciogliere una rigida Scott Thomas) e di Gregory LaCava (nella caratterizzazione di personaggi fragili e idealisti, sognatori e viziati). Certo, lo spirito sofisticato tipico dei ’30 spesso resta più un’ambizione in filigrana; ma il film è costellato di dialoghi pungenti e scene di raffinata bellezza. Prince è visibilmente affascinato dal bizzarro, da un’anarchia quasi surrealista che, tra battute risibili ed ingenuità registiche, riesce ad afferrare in momenti rari quanto magici.
Il suo Christopher è profondamente diverso da The Kid: loquace, con un penchant per la clownerie; sensuale, certo, ma il mistero è messo a nudo, in tutta la sua meravigliosa contraddittorietà: più marcatamente androgino, capriccioso come una diva eppure galante come un principe; vestito di broccati e gilet su pelle nuda, su un corpo che riluce più dei diamanti della sua partner. Prince è Mae West, è Carole Lombard, e sfugge a qualunque classica iconografia del “rocker maledetto” codificata dal mercato discografico.
Il finale del film è profetico per un artista che si offriva fuori dagli stereotipi, e fuori da ogni legge.