Appunti su CHALLENGERS (2024) e DESIGN FOR LIVING (1934): il ménage à trois a 90 anni di distanza

Design for a living e Challengers

E’ il 1934 quando Ernst Lubitsch, indiscusso maestro della commedia sofisticata, il regista più originale, brillante, spregiudicato della storia di Hollywood, consegna Design for living alle sale americane. Incentrato su un ménage à trois tra il pittore George, lo scrittore Tom e la musa Gilda, il film di Lubitsch mette in scena, in 90 minuti di ellissi, mirabili ed essenziali inquadrature, metafore visive e composizioni eleganti e allusive, la verità di un rapporto amoroso umanissimo e sfuggente alle ipocrite convenzioni della società. Legati da un’attrazione e un riconoscimento che li porta a ripudiare le banalità del romanticismo sentimentale e monogamo in nome di un sentimento insopprimibile – fondato sulla libertà quanto su uno sguardo ironico e giocoso nei confronti della vita – Tom, George e Gilda vivono una relazione dapprima illudendosi di disciplinarla attraverso regole, poi scoprendo l’impossibilità di domare l’impulso amoroso. In un vaudeville di tradimenti, abbandoni e riconciliazioni, i tre sperimentano un sentimento rivoluzionario, consapevoli della sua natura complessa. Il loro Design for livingprogetto di vita – sfugge a categorizzazioni e rifiuta il concetto di amore come cellula sociale, base strutturale produttiva. Come scrisse Baudelaire: “Essere un uomo utile mi è sempre sembrato qualcosa di molto repellente”. È questo dandysmo a informare la personalità di Tom, George e Gilda, e a renderli innocentemente incapaci di vivere secondo la morale comune. Affiancato da Ben Hecht, autore di una sceneggiatura affilata e impudente che sfidava il Codice Hays, Lubitsch non dimentica però gli aspetti più teneri e appassionati della romance. I tre si amano profondamente, il romanticismo è profondo e sincero, al punto da indurli a “bruciare” i simboli del successo – gli abiti eleganti, il cappello a cilindro – per non tradire la natura bohémien del loro sentimento.

Queste considerazioni introduttive ci servono a riflettere sullo stato non solo del cinema, ma anche dell’amore e della società nel 2024, a 90 anni di distanza dall’opera di Lubitsch. Challengers di Luca Guadagnino prende le mosse da una vicenda che ha molto in comune con Design for living: il rapporto tenero, ambiguo tra Art e Patrick e il ruolo di Tashi, musa e arbitra degli equilibri tra i due giovani. Al posto di soffitte parigine e ambizioni artistiche e anarchiche, troviamo il mondo del tennis con le sue contraddizioni: il lusso, la ferrea disciplina, l’ossessivo potere del marketing che permea le vite dei protagonisti. Se Gilda inorridita dichiarava: “Vendi tutto quello che vuoi, ma non me. Sono stufa di essere un marchio di fabbrica”, per Tashi l’esposizione pubblicitaria è necessaria. Le immagini patinate che compongono una personalità vincente e affascinante, affisse su pareti, billboard o esposte sugli schermi, offrono consistenza a un carattere che vive di autocensure emotive e frustrazioni, e considera la debolezza dell’amore un affronto da reprimere. Se Gilda invitava Tom e George ad avere fiducia in se stessi, il ruolo di musa svolto da Tashi si riflette sulla vita di Art e Patrick in forma di umiliazioni (psicologiche e sessuali) e perenne insoddisfazione.

Le relazioni, in Challengers, sembrano muovere esclusivamente da provocazioni, competitività, narcisismo; ingoiato dall’individualismo e allestito in forma di parata sportiva, l’amore non è totalizzante, né generoso o libero. Un sentimento fondamentalmente narcisistico come quello messo in scena da Challengers trova il contesto d’elezione nel campo da tennis, spazio aperto al pubblico e quindi esibizionistico. Nel film di Guadagnino il ménage à trois è meramente formale, l’incontro di tre personalità distinte e separate che entrano in relazione senza però mai comunicare né godere del rapporto a tre – come entità, mondo in cui riconoscersi.
Nel suo splendore visivo, Challengers è un film di superfici (la bellezza dei corpi, la nitidezza degli esterni, il valore accessorio dei dialoghi, spesso sovrastati dalla colonna musicale) composte in un nucleo strutturale postmoderno. La scelta di una cronologia frammentaria e non lineare accentua lo scintillio degli istanti. Il regista immette nel suo lavoro di direzione l’ammirazione per il cinema del passato e si esibisce in citazioni hitchcockiane, tecnicismi, tour de force virtuosistici della macchina da presa. Il montaggio segue i ritmi dinamici del gioco, la pallina acquista una sua soggettività, il contre-plongée rende il campo trasparente, spingendo il voyeurismo fin nel sottosuolo. Ma non c’è profondità dietro il lussuoso movimento delle immagini (instagrammabili e forti di un’estetica saldamente aggrappata alla contemporaneità). Manca calore umano così come le riprese point of view sono prive di soggetto. È un cinema che eccelle nel fare marketing di se stesso e vendere la propria confezione.

Patrick e Art restano gusci vuoti, personaggi sorretti da pulsioni elementari (competizione e desiderio di possesso dell’oggetto-Tashi). A sua volta la ragazza, pur nella sua radicale determinazione, è del tutto asservita all’immagine sociale e incapace di trovare la radice del proprio desiderio se non attraverso il transfert tennistico. Il tennis, in Challengers, non è la magnificazione dell’amore o una sua metafora, ma il grande Spettacolo in cui celarlo e reprimerlo, fino ad avvilirlo con le stantìe dinamiche del tradimento. Metonimicamente, Art, Patrick e Tashi giocano perché impreparati all’amore.

ROBOT DREAMS di Pablo Berger

Conoscevo Pablo Berger per il bellissimo Blancanieves, film muto e in bianco e nero del 2012. Il regista resta affascinato dall’immagine pura, priva di dialoghi, anche in Robot Dreams, in Italia tradotto pedestremente Il mio amico robot; ma questo titolo tradisce la ragion d’essere del film, ovvero il sogno di natura surrealista, materia inconscia che si stringe indissolubilmente al reale tanto da confondersi con esso, in un unico magma di vissuto pulsante e allucinatorio.
Ambientato in una Manhattan paradossalmente “più vera del vero” nonostante i suoi abitanti antropomorfi, Robot Dreams insegue le tensioni della vita, il desiderio, l’amore, le disillusioni. Aderendo fedelmente ai disegni di Sara Varon, autrice della graphic novel originale, Berger crea un film cinefilo e struggente che sarebbe piaciuto a Satoshi Kon (l’artista assoluto di quella “dreaming machine” cinematografica in cui sogno e realtà sono indissolubili). Con una passione debordante per la settima arte, Berger intesse l’animazione di citazioni: da Il mago di Oz a The Shining, dal dolly zoom di Hitchcock alle squisitezze astratte di Busby Berkeley, dal romanticismo di Woody Allen alla follia anarchica di Duck Amuck, celebre cartone metacinematografico di Chuck Jones. Similmente a Duffy Duck, il robot protagonista si “stacca” ed esce dalla scenografia, rivelando la natura della finzione in visioni di sfrenata immaginazione.

Con una regia di puro movimento, Berger segue i personaggi affiancandoli nei piani sequenza, spalanca vertigini con improvvisi zoom, attraversa lo spazio e il tempo in un susseguirsi di panoramiche, dolly, inquadrature dall’alto. Il suo cinema onirico e profondamente umano si affida esclusivamente alle immagini, alle quali consegna l’emozione. Ogni sentimento, percezione e ricordo ha un corrispettivo visivo: Robot Dreams è una dolce dimostrazione di come la mente elabori il vissuto alla maniera di un film. Particolarmente bello “l’intermezzo degli uccellini”, parentesi autonoma e memore della delicatezza romantica de “Il principe felice” di Oscar Wilde; mentre il finale ci offre uno degli split screen più toccanti del cinema recente. Così come altri registi prima di lui (ad esempio Stanley Donen con il suo Indiscreto) Berger ci mostra la possibilità di essere “insieme” anche separati, in una dimensione dove passato, presente e futuro coincidono. Si esce dal cinema in lacrime, commossi e con l’anima più luminosa.

PERFECT DAYS di Wim Wenders

Wim Wenders trasferisce in Perfect Days tutto il suo amore per una cultura – e un cinema – osservati lungamente nel corso del tempo. Ed è significativo che anni di studio, riflessioni e uno sguardo meticoloso – in parte incantato, in parte entomologico – confluiscano in un’opera semplice e apparentemente fatta di nulla. Mu, identificato dall’ideogramma 無, quel niente cui aspirava Ozu (al punto da sceglierlo come epigrafe finale della sua esistenza) è anche il centro di Perfect Days, un film che fa del suo protagonista l’emblema di una vita in comunione con il tutto, vivente tra le cose viventi del mondo, devoto al proprio quotidiano naturalmente ripetitivo. Così come il sole sorge ogni giorno, Hirayama leva lo sguardo al cielo e sorride. Dopo i riti preparatori – la cura personale, la predisposizione di divisa e attrezzi – Hirayama inizia la propria giornata, ascoltando Lou Reed, Patti Smith, Van Morrison. Wenders posa l’occhio della macchina da presa sul volto di Yakusho Kōji, tra i pochissimi attori in grado di portare sulle spalle questo “nulla” e farne pieno cinema: un viso che esprime ogni sfumatura emozionale e si fa paesaggio, manifestazione di pensiero e sentimenti nella loro fuggevolezza trasformativa.

Così come la strada scorre, mentre Tokyo mostra i suoi volti più differenti – dai grandi palazzi che si tagliano silenti, agli angoli brulicanti, tra luci e scorci ripresi in campi lunghi o dettagli – le percezioni si affastellano rapide in Hirayama, scintillando negli occhi in movimento o manifestandosi nella piega delle labbra. Yakusho, questo attore straordinario che, come notò Kurosawa Kiyoshi, mantiene sempre un’aura di mistero indecifrabile (caratteristica, questa, anche del volto pensoso di Hara Setsuko), è l’uomo comune che nella sua riservatezza cela un mondo infinito e imperscrutabile. Nella cura dei suoi gesti vi è un senso d’orgoglio e dignità muti, e i suoi ritorni a casa, sempre uguali, sempre scanditi da tappe prestabilite (il bagno pubblico, la cena nel ristorante) lo conducono nel rifugio di una casa-anima, illuminata da un’abat-jour, dove il silenzio si accende di immaginazione (nella lettura di Faulkner o Patricia Highsmith). La vita di Hirayama è pura e immaginifica: e un’esistenza così interiore e luminosa non può che essere ricompensata da notti senza fine, in cui prendono vita i fantasmi dell’ombra. I sogni di Hirayama sono tra le cose più belle che ci è dato vedere in Perfect Days, una sorta di accesso all’inconscio, allo spirito denso e fluttuante dell’uomo. Wenders filma le ombre cogliendone la filigrana evanescente, il movimento tremulo: sembra quasi di rivedere certe inquadrature di Mizoguchi e Ozu, registi altrettanto attenti al movimento di ombre e riflessi in cui condensare una vita più profonda e spirituale.

Perfect Days ci consegna la sua esperienza più vera in questo cinema notturno, fantasmatico, velato di ricordo e desiderio. Meno interessante, invece, è l’attitudine innegabilmente occidentale con cui il regista guarda al Giappone e alle sue abitudini, romanticizzandole – o, in altri casi, riprendendole con l’indole del fotografo avvezzo alle diversità e pronto a coglierle. Nel mostrarci Hirayama, il regista non si discosta mai da una visione ideale: il suo protagonista è privato del diritto alla contraddizione, o all’errore, o all’impulso, ed è solo grazie all’interpretazione complessa di Yakusho che il personaggio evita di diventare cliché. Nell’abnegazione a un lavoro umile di cui Wenders ci risparmia gli elementi principali – gli escrementi – Hirayama compie un rito assolutorio, terminando la giornata in un sorriso finale di comprensione, perdono, distanza dal tutto. Nei bagni lungamente strofinati non c’è traccia di odori o sporcizia: Hirayama arriva ad utilizzare le mani nude per raccogliere piccoli rifiuti dal pavimento.

In questi dettagli è difficile non ravvisare la condiscendenza del regista e la sua romanticizzazione di un lavoro “basso” al punto da scartarne gli elementi che potrebbero infastidire lo spettatore. Se nel rappresentare le classi più umili il Kaurismaki di Foglie al vento mostrava, con grande naturalezza, tutto ciò che piega e umilia gli esseri umani (come il sangue, la polvere, la fatica, la pericolosità di un cantiere), al protagonista di Perfect Days è negato l’escremento, il sudore, la macchia sulla tuta da lavoro.
Con le stesse mani e con la stessa uniforme, Hirayama consuma il suo pasto quotidianamente. Wenders lo inquadra mentre fotografa alberi e natura con un apparecchio analogico; e se nello spirito giapponese è autentica la comunanza con le cose e lo stupore di fronte a un fiore che sboccia, si avverte la sottile banalizzazione wendersiana, il suo sguardo inevitabilmente occidentale.
La divisione in brevi capitoli, la poetica della semplicità, sebbene affrontati da Wenders con passione sincera, a tratti si offrono come un “compendio giapponese”, un manuale per occidentali alla ricerca dell’ “experience” a misura delle proprie aspettative. Resta, però, la grande interpretazione di Yakusho, capace di offrirci uno dei finali più belli del cinema mondiale degli ultimi anni, reggendo un close-up in cui rivelarsi fino alle lacrime e mettersi a nudo nella verità.

FOGLIE AL VENTO di Aki Kaurismäki

I miei film possono sembrare tutti uguali, ma io cerco di creare qualcosa di nuovo ogni volta: come fa il pittore che dipinge la stessa rosa, sempre la stessa, e ogni volta arricchisce la propria visione.” Come Ozu, che rilasciò questa dichiarazione a proposito del suo cinema, Kaurismäki ferma i suoi “universali” nell’incessante trasformazione delle cose. La sua filmografia ci consegna un universo dai tratti definiti e un sistema di relazioni governate da silenzi, intensità, emozioni trattenute e un profondo, sotterraneo romanticismo. In Foglie al vento lo spettatore ritrova, come in sogno, uno spazio perduto e familiare: ci sono ancora i bar, le stanze spoglie, le panchine fredde e circondate dagli alberi autunnali. E ci sono personaggi dai volti conosciuti, su cui cade la luce della Grazia – ma anche il raggio del proiettore di una sala cinematografica, a magnificare il “breve incontro” che cambia una vita.

Foglie al vento è un ritorno: ai proletari dagli occhi velati di tristezza, alle sigarette, all’alcol in cui dimenticare la propria condizione; e alle figure femminili colme di dignità, piegate dallo sfruttamento eppure luminose e irriducibili. In più di una scena Ansa mi ha ricordato Takamine Hideko nei film di Naruse, silenziosa e consumata dal lavoro, ma con lo sguardo rivolto al futuro. I viaggi in bus o in treno di Ansa sono gli stessi di tante eroine pensose del cinema giapponese classico: su tutte, la Reiko di Yearning (1964).
Kaurismäki racconta “la stessa storia” così come Shakespeare, in un sonetto, “sempre dice ciò che è stato detto”. I suoi personaggi cercano amore o una seconda possibilità, un’alternativa alle “nuvole” dell’esistenza, a quei supermercati alienanti o fabbriche in cui la polvere inghiotte gli esseri umani e le loro fatiche. In particolare, la fabbrica di Foglie al vento – con i suoi ganci minacciosi, presenze inquietanti che incombono sull’anonimato della manovalanza – viene introdotta da alcuni “pillow shots” (inquadrature di transizione) di silos e cisterne, esplicito omaggio a quel “cinema delle baracche” tanto caro a Ozu.

Su tutto ciò il regista stende il suo sguardo fatto d’amore e compassione profonda. Le mani si sfiorano, i corpi, pur impacciati, cercano un contatto. Chi ritiene che Kaurismäki sia freddo o, come mi è capitato di leggere, “poco empatico”, si è mantenuto ben distante dalle scie d’amore che attraversano i suoi film: i sentimenti scorrono e lasciano un segno di malinconia, come il bellissimo movimento di macchina che allontana Ansa da Holappa, lasciandola svanire.
Kaurismaki compone le sue inquadrature in modo meticoloso: interni scarni, un divano, un letto, una lampada dalla luce fioca e una radio d’altri tempi. In questa composizione così devota al cinema di Ozu (ma anche a Sirk, come dimostra la finestra rubata a Secondo amore, 1955), i personaggi si pongono ai margini, cose tra le cose, mentre il colore ne esalta la purezza dei sentimenti. C’è uno studio profondo di blu, rossi, gialli: ogni cromatismo è una nota emotiva. La musica, spesso diegetica, si sostituisce ai dialoghi e diviene discorso interiore.

Questa stilizzazione sublima l’avventura esistenziale e trasforma ogni più umile protagonista in “eroe” del proprio transitorio quotidiano: i destini si incrociano (e non di rado i personaggi si muovono all’unisono), i corpi fragili si feriscono (in ogni film del regista troviamo bende, lividi, sangue) e il cuore si affida all’amore di un cane. Nel cinema di Kaurismäki i cani hanno la stessa dignità degli altri personaggi, e lo dimostra il fatto che siano oggetto della medesima tecnica fotografica (del fedele Timo Salminen): la luce li colpisce da un lato, lasciandoli parzialmente in ombra, ma vi è una sorta di “aura” a circondarli, segno di laica santità. Del resto, anche il cinema di Chaplin è fatto di umanissimi angeli, smarriti tra le macerie della terra.

IL MALE NON ESISTE di Hamaguchi Ryūsuke

Parlando del suo film Ponyo sulla scogliera (2009), Miyazaki dichiarò in un’intervista che in natura “il male non esiste”. Da sempre proteso verso una nuova armonia tra uomo e ambiente, il grande animatore giapponese sottolineava l’esistenza di cicli naturali da assecondare e rispettare. Forse, anche per Hamaguchi la natura intesa come entità è priva di “male” e dotata di una sensibilità altra.

Il regista di Drive my car si allontana dai suoi caratteristici quadri urbani per inoltrarsi nel mistero delle cose naturali: una scelta nata grazie alla collaborazione con la compositrice Eiko Ishibashi, che vive in una zona rurale. Dalle differenti esperienze dei due artisti, Il male non esiste prende vita come progetto comune, riflessione sul contrasto tra l’artificialità della metropoli – con i suoi interni asettici e climatizzati, i ritmi innaturali e la progressiva “povertà” sensoriale – e la vita rurale scandita dal freddo, da delicati equilibri e dalla presenza di creature silenziose (alberi, animali). Nello script vengono trascritti episodi vissuti in prima persona dal regista (come quello dell’assemblea) e affiora, in crescendo, un grumo di violenza.

“Felice… chi comprende senza sforzo/ il linguaggio dei fiori e delle cose mute”, scrisse Baudelaire nella celebre poesia Elevazione, del 1857. In realtà nel film di Hamaguchi non esiste una “felicità” per chi abita nella natura, ma la tensione a un’armonia, una quotidiana operosità all’interno di una natura-cosmo dai tratti alieni e dai propri codici. Uno degli elementi più affascinanti del film è senz’altro il carattere animistico e inquieto del paesaggio naturale, che ci appare di per sé un “corpo” che respira, sibila, e talora pare emettere un sinistro movimento musicale di disappunto nei confronti della presenza umana.
Il piccolo nucleo familiare composto da Takumi e sua figlia Hana – segnati dall’assenza della figura materna e affettivamente trattenuti, afasici – ogni giorno è impegnato in un “viaggio conoscitivo” tra rami invernali, coltri di ghiaccio e specchi lacustri circolari e silenziosi. La luce e il gelo del paesaggio lo rendono parte di quell’universo astratto e sconosciuto che ci ospita. Il bellissimo incipit del film crea qualcosa di raro – una perfetta corrispondenza tra immagine e suono, tanto che sembra di assistere a un’inquietante sinfonia prodotta dalla foresta stessa. Hamaguchi lavora per confondere lo spettatore, mosso dall’intenzione di intensificare le sue capacità percettive ed emozionali: per molti aspetti il film ha carattere iniziatico.

Il piano sequenza iniziale, così come altri movimenti misteriosi – il camera car lungo il sentiero, o altre immagini di cui ci viene rivelato il carattere “soggettivo”, servono a sovvertire il nostro senso comune e ad aprirci all’esperienza della natura. Pervasi dal bianco della neve, dal cristallo dei ghiacci e dall’intrico dei rami (che sembra quasi comporre un linguaggio grafico, un alfabeto) procediamo lungo il film con un senso di stordimento, talora inebriante, altre volte colmo d’angoscia.

La natura di Hamaguchi, profondamente espressiva e dotata di una presenza arcana, ha molto in comune con la foresta minacciosa di Charisma (1999) di Kurosawa Kiyoshi: anche in quel caso ci trovavamo di fronte a un mondo naturale “inaccessibile” agli inesperti, eppure di grande e rovinoso magnetismo. Nel film di Hamaguchi, come in quello di Kurosawa, lo spazio ambientale lascia emergere scontri, caratteri: la sensazione è quella di un mondo dalla purezza intangibile e severa, eppure estremamente fragile e turbato dalla presenza umana. Mentre sullo schermo appare volto di un cervo, o scorre il reticolato dei rami contro il cielo, ci chiediamo: chi davvero guarda, chi viene guardato? Il male non esiste ci dà la sensazione di essere giudicati dagli alberi, osservati da un universo cui l’essere umano non riesce ad aderire se non portando un cumulo pulsionale irrisolto.

UN COLPO DI FORTUNA – COUP DE CHANCE di Woody Allen

Un piccolo trionfo di decoupage classico; una sceneggiatura modellata sulle strutture compiute e perfette della vecchia Hollywood, con dialoghi taglienti alla Billy Wilder e un amore nei confronti dei thriller “di mestiere” alla Anthony Mann. L’ambientazione è una Parigi “ideale” (secondo la lezione di Lubitsch), tra strade, bistrot, piazze e negozi dalle insegne caratteristiche, ma anche in quei parchi di cui Allen non può fare a meno: è tra panchine e déjeuner sur l’herbe che si consumano tante romances alleniane.
In Coup de chance torna, in forme nuove e vive, il cinema del passato – non solo Hollywood, ma la nouvelle vague, le passeggiate rohmeriane, le figure femminili che si interrogano e riflettono sulla propria identità, come la Cléo dell’omonimo film di Agnès Varda. Allen ripercorre ancora una volta gli elementi tipici della sua poetica: l’amore, il tradimento, le bassezze della natura umana e soprattutto l’irrazionalità dei sentimenti. Se la città è il contenitore ordinato e lussuoso, il consorzio umano che lo abita vive di turbolenze interiori, impulsi irrazionali, raffinate crudeltà (come la caccia al cervo o le cene a base di foie gras).

Su questo panorama cupo, interpretato da piani sequenza leggeri, immagini allo specchio e profondità di campo, Allen stende la sua ironia: ecco allora l’umorismo irresistibile di caratteri e situazioni (come i grotteschi investigatori), i vizi infantili (il trenino elettrico) e soprattutto l’intelligenza di un personaggio “comune” che si affida solo alla propria intuizione (come accade in tanto “cinema del sospetto” alla Hitchcock).
Coup de chance sorprende per affilata precisione e per lo sguardo ormai disincantato su un’umanità che ricalca miti e tragedie shakespeariane (meravigliosa l’interpretazione “nera” di Melvil Poupaud), mentre il caso si fa beffe di ogni illusoria volontà di controllo. Un esercizio di stile, un conte moraux dove moraliste, secondo la definzione rohmeriana, “è qualcuno interessato alla descrizione di ciò che accade dentro l’essere umano.”

“Un film è fatto delle impressioni che rimangono dopo”: il cinema di Ozu Yasujirō

Una nuova “dedica a Ozu” in occasione dell’anniversario: la Tucker porta al cinema, in versione restaurata, Tarda primavera (1949), Viaggio a Tokyo (1953), Fiori di equinozio (1958), Buon giorno (1959), Tardo autunno (1960) e Il gusto del sakè (1962), cui si aggiungono anche i meno noti Una Gallina nel vento (1948), Inizio d’estate (1951), Il sapore del riso al tè verde (1952), Inizio di primavera (1956) e Crepuscolo di Tokyo (1957).

Tempo fa mi colpì questo commento di un utente su YouTube: “I film di Ozu mi fanno desiderare di essere più gentile con gli altri”. È vero: è il primo effetto che fanno, e lo notò anche il regista iraniano Kiarostami. Ogni film di Ozu è espressione del suo amore per la vita e per gli esseri umani, come testimonia un’intervista pubblicata nel 1949 su Asahi Geinō Shinbun : “Vorrei ritrarre il fiore di loto nel fangoVorrei riflettere a fondo sulle cose e ritrovare quella ricca umanità che le persone hanno per natura…”.
Non si tratta solo un cinema gentile, ma anche attuale: lo spettatore si rende immediatamente conto di non trovarsi di fronte a un oggetto filmico da studiare solo per il suo valore storico o culturale. La visione non ci pone a confronto con polverosi reperti, ma con oggetti vivi e perfettamente aderenti alla contemporaneità, proprio perché focalizzati sugli effetti del vivere.

Questi “effetti del vivere” affiorano nei tre contesti d’elezione del cinema di Ozu, che sono anche i nuclei basilari della società giapponese: la famiglia, la scuola e il luogo di lavoro. È all’interno di queste cellule che Ozu riesce a isolare “tutto ciò che è essenziale della vita umana”, come disse Aki Kaurismaki. La circostanza contingente, la storia raccontata, vengono trascese in un più ampio reticolo di percezioni e sensibilità, in cui ciascuno di noi può riconoscersi.

Grazie all’uso tutto personale che Ozu fa della macchina da presa (nella sua tipica posizione “bassa”), dei propri attori, così come degli spazi e degli oggetti, del colore (o assenza di esso), percepiamo le emozioni dei personaggi; ne cogliamo lo stato d’animo in fieri, i sussulti interiori, con tutta la risonanza che hanno dentro di noi. Questa comprensione tra spettatore e personaggio è ancora più miracolosa se si pensa che il punto di vista del racconto non si serve di modalità soggettive.
Gli esseri umani vengono osservati senza invadenza (ne è prova il fatto che Ozu opti per il più pudico “mezzo primo piano” rispetto al primo piano). La macchina da presa si avvicina o si allontana scegliendo sempre la giusta distanza dalla quale ascoltare il suono dei pensieri. Talvolta l’osservazione è condotta in campo lungo, di cui Ozu scopre la forza drammatica; altre volte la figura umana è di spalle: non è detto, ci fa capire Ozu, che il viso sia sempre rivelatore. Un corpo incurvato può parlarci di un peso, di un’angoscia che una ripresa frontale non sa esprimere.

Nelle sue opere ogni linea dell’inquadratura, ogni geometria risultante dalla composizione, ogni pieno e vuoto e ogni oggetto – inclusa la “presenza” umana, talora reificata in un nulla compresente alle cose – converge nel creare un sottile universo percettivo: l’aspetto magico del suo cinema è il rigore della messa in scena, che si fa più radicale nelle opere del dopoguerra, in un passaggio graduale dalla sperimentazione alla semplicità.
I limiti dell’inquadratura esistono. Come mostrare le cose con e dentro tale cornice? Escludere lo spazio che non puoi mostrare all’interno dell’inquadratura può essere interessante, e questa è la mia scelta.” [Intervista su Kinema Junpō, agosto 1958]

Frequenti, nel cinema di Ozu, le immagini dedicate alle “donne che pensano”: figure femminili di grande forza intima e segreta, il cui corpo e sguardo sono completamente assorti nell’atto del pensare. L’osservazione di Ozu non è mai piatta o didascalica, ma conserva intatti l’enigma dei pensieri e il mistero della sensibilità; quello che accade nella mente delle sue protagoniste resta talora opaco e impenetrabile, ma la sofferenza espressa è tangibile e raggiunge i sensi dello spettatore. Nel cinema di Ozu gli esseri umani sono parte di un tutto: elementi tra gli altri, presenze tra oggetti inanimati o piccoli animali domestici. Spesso ricorrono, ad esempio, immagini di uccellini in gabbia: le donne dei suoi film sono non di rado come queste piccole creature, bloccate in uno spazio e costrette dalla società, o dalla famiglia, a reprimere il desiderio di volo.

La vita non è una delusione?” Chiede Kyoko, la sorella minore, a Noriko in Viaggio a Tokyo. “Sì, una vera delusione”, risponde sorridendo Noriko. I (mezzi) primi piani che Ozu dedica alle due attrici in questa scena sono pieni di grazia e di luce. Il regista coglie qualcosa di unico, un sentimento indefinibile e sospeso tra la dolcezza del sorriso di Hara e la semplice evidenza della sua risposta. In fondo ci chiediamo: può essere davvero così triste la vita, se esiste un sorriso del genere? Le sfumature sprigionate dalla scena sono come una lieve ebbrezza. Ozu trascende la semplicità del momento quotidiano per consegnarci intatta la luce dei sentimenti umani e il mistero di un tempo interiore, un presente che pare stendersi sull’intera esistenza.

La malinconia del vivere permea le immagini del suo cinema: compito degli esseri umani è accettare la transitorietà e i mutamenti della vita, all’interno di quel “tutto” che compone l’universo.
Ed è significativo che sentimenti ed emozioni non ci siano offerti in una lettura chiara: si tratta, piuttosto, di un sentimento del vivere, come un’ombra nella serenità o un transitorio senso di gioia, oppure un sollievo che rincuora esattamente come una nuvola lascia emergere il sole. Ozu non sfrutta mai, né strumentalizza i suoi personaggi; non se ne appropria, come spesso accade in tanto cinema contemporaneo.
Quando li osserviamo, mentre piegano il capo o guardano intensamente verso di noi, c’è sempre il senso d’una vaghezza, di uno stato d’animo indeterminato e passeggero: secondo Ozu, “il regista non deve tirar fuori i sentimenti dagli attori, deve contenerli” (Kinema Junpō, 1947). Allo stesso tempo, la sua sensibilità lo porta a lasciare agli spettatori un indizio, un elemento che possa informarli del carattere dei protagonisti: il modo in cui portano alla bocca un bicchiere di saké, si tormentano i guanti o camminano (spesso vediamo solo i piedi); persino il modo in cui un fiammifero viene strofinato diventa significante (si pensi all’emozione di Kyō Machiko mentre accende la sigaretta all’amato in Erbe Fluttuanti, Ukigusa, 1959).

Il cinema di Ozu avvicina le persone, annulla le distanze culturali e l’abisso del tempo. Tanta è la capacità del regista di studiare l’animo umano da farlo splendere come un fiore al centro dello schermo: la corolla sbocciata (lo splendore della giovane Noriko in Tarda Primavera, Banshun, 1949) o gualcita al tramonto (il dolore di Akiko, sola e afflitta in Crepuscolo di Tokyo, Tōkyō boshoku, 1957). L’opera di Ozu, così umile ed essenziale, continua nel tempo a toccare corde profonde: “Un film è fatto delle impressioni che rimangono dopo” (Tōkyō Shinbun, 14 dicembre 1962).

Bibliografia:
Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi, Donzelli, 2016
Yasujirō Ozu, Dario Tomasi, Il Castoro, 1996
Film:
I lived, but… (Ikite wa mita keredo: Ozu Yasujirō den, regia di Inoue Kazuo, 1983), Shōchiku

Una comunicazione dall’autrice

Frammenti di cinema è un progetto che porto avanti da alcuni anni. Ho ricevuto, nel corso del tempo, ringraziamenti e complimenti per i contenuti, e a tutti sono grata. La scrittura è un lavoro solitario, quindi il riscontro è sempre una grande emozione. Da oggi, chi lo desidera, può “offrirmi un caffè”, fare una piccola donazione usando Paypal o altri strumenti. LINK ALLA PAGINA PER LE DONAZIONI.

Grazie a tutti i lettori.

LA CHIMERA di Alice Rohrwacher

Non posso che restare incantata di fronte a La Chimera di Alice Rohrwacher; una regista alla quale, inizialmente, mi ero avvicinata con grande scetticismo, ma che film dopo film mi ha avviluppato nel suo mistero. Alice Rohrwacher nasce come montatrice e credo che sia proprio questa la forza del suo cinema: aver cercato – e conquistato – un proprio stile, una poetica mobilissima e sempre in fieri.
Un cinema profondamente imperfetto, che corre rischi, osa, cita autori intoccabili e li reinterpreta privandoli della polvere e della retorica che negli anni li ha ridotti a repertorio museale, passato da teca. Le ispirazioni della regista sono evidenti: da Fellini a Pasolini, da Ermanno Olmi alla Nouvelle Vague europea: ma i suoi film hanno la freschezza incosciente che è propria dei poeti e degli entusiasti.

De La Chimera amo la libertà, il suo viaggiare ondivago tra la memoria e il sogno. Per rappresentare i personaggi e i loro moti dell’animo il film ricorre a codici del surrealismo (il ralenti, l’accelerazione), ai jump cuts godardiani, a montaggi avanguardisti, in un “viaggio” attraverso le immagini. Ciò che il cinema del passato aveva creato e sperimentato, appare sullo schermo con spirito ludico e soprattutto senza paura: la Rohrwacher non teme il ridicolo, non si sente intimidita, ma utilizza i linguaggi nella loro nudità. Così come per Gertrude Stein “una rosa è una rosa è una rosa”, ne La Chimera le immagini perdono ogni responsabilità. Questa innocenza non sempre viene raggiunta, ma quando si rivela l’emozione è grande.
Ci sono elementi ricorrenti nel cinema di Alice Rohrwacher: l’anelito per ciò che è perduto, la campagna animista, i volti arcaici, le mani che scavano la terra, le figure femminili in stretto contatto con il segreto dell’invisibile. La sua naturale propensione per un cinema che si spinga “oltre”, verso una spiritualità libera e felice, distaccata dai tristi limiti terreni, mi commuove e mi rapisce. Il cinema della Rohrwacher è un fantasma in abiti di bambina. 

KILLERS OF THE FLOWER MOON di Martin Scorsese

Ho letto molte recensioni inacidite di Killers of the Flower Moon e ancor più spesso ho letto la frase “Non è il miglior Scorsese”. Ho visto il film, e ancora mi interrogo su cosa voglia dire questa frase. Forse, la necessità di incasellare un grande artista e incatenarlo agli stessi stilemi che lo resero grande e rivoluzionario, trasformandoli in “sistema” riconoscibile. Ma Scorsese è un uomo di cinema che non ha mai smesso di trasformarsi e sperimentare: la sua voglia di creare un linguaggio coerente con i tempi in cui viviamo è tra i lasciti più strabilianti della sua filmografia.
Killers of the Flower Moon contiene, scarnificati, molti elementi classici dello stile scorsesiano: i piani sequenza sinuosi, i dolly all’indietro, magnifici e rivelatori, le panoramiche a 360 disorientanti. E a livello narrativo, con la complicità della “maga” Thema Schoonmaker (proprio nell’accezione intesa da Truffaut), il racconto acquista una complessità temporale fatta di rapidi flashback, inserti, interruzioni, in un fluire dell’inconscio che racchiude in sé il passato e il futuro; così come sono presenti, nei dialoghi, stacchi che distruggono l’idea classica di campo-controcampo in una visione molto più composita e inafferrabile.

Il punto di vista del racconto è pluriprospettico nel restituirci una realtà che ci elude continuamente: i personaggi talora usano il flusso di coscienza, altre volte invece ci appaiono impenetrabili e opachi; i confronti serrati in interni avvicinano il nostro sguardo a volti indecifrabili, contorti dall’uso di luci contrastate. In particolare, Leonardo diCaprio (nei panni di Ernst Burkhart) ha spesso metà del volto in ombra: deformata dal male, intinta nel nero che ne altera i lineamenti. Ernst è un uomo vuoto e indefinito, ridotto dalla guerra a grumo di sensazioni e desideri privi di morale: l’amore e la morte sono coordinate intense quanto vaghe del suo mondo.
Lily Gladstone (Mollie), in un’interpretazione del tutto corporale, appassisce davanti ai nostri occhi, muore, rinasce, si piega come una spiga di grano nel vento, o diviene livida: il suo corpo è vittima della malvagità umana e ne porta scritti i segni. Dei suoi pensieri comprendiamo il dolore, lo smarrimento, la necessità dell’amore in una desertificazione razionale che la priva di riferimenti.

Con Killers of the Flower Moon Scorsese realizza il suo film più spirituale, ancor più di Silence: i paesaggi metafisici alla Wyeth sono il limbo cui sono confinate le anime; le visioni oniriche interpretano l’abisso interiore; mentre la ferocia primordiale ammantata di civiltà di De Niro/William Hale ci rimanda al male ineluttabile connaturato allo spirito dell’uomo.
Un film del genere, privo del gusto brillante della violenza, privo del piacere del sangue, ci lascia con un quadro impressionante e desolato del ciclico destino dell’uomo. C’è tanto presente rintracciabile nella Storia messa in scena da Scorsese, e di rado ho visto un film così narrativamente equilibrato e perfetto nei ritmi, nella costruzione psicologica dei personaggi (alcuni episodi hanno la poesia di un Edgar Lee Masters) e nel movimento temporale. La chiusa, bellissima, ci ricorda il piacere evocativo della rappresentazione. Killers of the Flower Moon rigetta l’eccesso, il sensazionalismo e la velocità per adottare un’estetica silenziosa e incorporea. Il cinema di Scorsese è divenuto un fantasma che cammina nella violenza del presente.