LOVE LIFE di Fukada Kōji

[questa recensione contiene spoiler]
Sinossi: Taeko e Jiro conducono un’esistenza tranquilla assieme al figlio Keita, quando un incidente provoca la morte del piccolo. Il dolore e il senso di colpa riavvicinano la donna all’ex marito Park, che è anche il padre biologico del bambino; mentre Jiro a suo volta affronta il lutto riallacciando i rapporti con l’ex fidanzata.

Love Life nasce da una suggestione musicale: il regista, Fukada Kōji, ha dichiarato di aver pensato a questo film per quindici anni, alla ricerca di una storia che potesse tradurre in immagini il sentimento di solitudine e distanza emotiva espresse dal brano omonimo di Yano Akiko (e che possiamo ascoltare nella scena finale). Un film-stato d’animo, che inizia formando un’immagine precisa per poi incrinarla.
Una moglie, un marito, una cucina su cui lavorare curvi preparando il pasto, un tavolo da apparecchiare; e un bambino dolce e intelligente, dotato d’una curiosa saggezza riguardo alle cose che lo circondano. Fukada sembra non raccontare niente, ma in realtà il suo incipit ci ha già mostrato tutto: le solitudini che albergano nei personaggi, ciascuno rivolto a un proprio mondo interiore; i gesti di una vita serena ma spenta; occhi che si incrociano di rado tra gli oggetti della stanza. La spazialità del complesso residenziale in cui vive la famiglia aggiunge vuoto e spaesamento: Fukada alterna le riprese ravvicinate, quasi soffocanti degli interni, a esterni in campo lungo, dove prevale l’assenza di esseri umani, tra edifici alienanti, parcheggi silenziosi e cemento. E c’è anche un sole inesorabile, che pare asciugare ancora di più emozioni e sentimenti.

Questo “specchio della vita” così accuratamente equilibrato va in frantumi quando il piccolo Keita muore accidentalmente. Fukada è un maestro dell’understatement per come rifiuta di enfatizzare drammaticamente uno snodo narrativo tanto tragico: il suo film è un flusso senza peso, in cui tutte le cose scorrono secondo un ordine naturale. E nelle sue omissioni, nelle ellissi e nella scorrevolezza dei raccordi, sembra di ritrovare la maestria del montaggio propria dei grandi autori della classicità giapponese. Anche il framing delle immagini ha un’ascendenza classica, che però Fukada non esita a spezzare: dapprima compone simmetrie, poi le turba e le apre al movimento; si sposta in improvvise decentrature; alterna staticità a movimenti incerti, rappresentando visivamente lo smarrimento dei protagonisti. È un regista che costringe i suoi personaggi – e gli spettatori – a una perenne ricollocazione.

Ed è proprio nella graduale perdita di controllo che i caratteri di Love Life emergono poco a poco: del resto “il cielo è dei violenti”, come dichiarava la scrittrice Flannery O’ Connor. Taeko finisce col cercare se stessa nella figura instabile, ma di una spontaneità nuda e reale, quasi oscena nella sua verità, dell’ex marito Park: persino la comunicazione non verbale del linguaggio dei segni (Park è sordomuto) sembra aiutarla a una graduale riscoperta della propria istintività. Jiro, inizialmente defilato e inespressivo, scopre l’amore come vertigine attraverso il morso della gelosia.
Tutti i personaggi sembrano vagare “per non perdersi”, e il film stesso dirama i suoi percorsi, smarrisce il suo centro fino a riscoprirlo. Dopo la “pioggia improvvisa” (metafora per eccellenza del cinema classico di Naruse Mikio) l’amore può (forse) ricominciare. Il campo lunghissimo finale è il rispetto che viene riservato a Taeko e Jiro, che timidamente camminano insieme, mentre le parole della canzone sembrano proteggerli: “Non importa quanto siamo lontani; io ti amerò sempre”.

3 thoughts on “LOVE LIFE di Fukada Kōji

  1. Vagare per non perdersi, trascinati da note… ti amerò per sempre… come si può non amare il cinema giapponese che come aikù cesella anime e sentimenti? ancora una recensione preziosa come una golosità ricercata ed ub

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