AN ELEPHANT SITTING STILL di Hu Bo

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E’ un privilegio poter assistere a An elephant sitting still (disponibile in questi giorni su RaiPlay): un film dalla bellezza lacerata quanto vera, opera prima e ultima del giovane Hu Bo, morto suicida a soli 29 anni. Ogni istante dei suoi 230 minuti possiede un’autenticità bruciante: il film è la rappresentazione della “condizione del dolore” universale. E deve essere stato estremamente duro per il regista trasformare il nucleo della propria sofferenza in immagine, fare della personale (ed estrema) sensibilità un oggetto artistico. Con An elephant sitting still non solo ci è riuscito, ma ha anche mantenuto intatta l’intensità del sentire: è un film che pulsa, brucia, investe lo spettatore di un’emozione immediata. Hu Bo compie questo delicato miracolo servendosi di una regia che lavora per decantazione, mantenendo un margine di distanza dai personaggi che vengono seguiti, pedinati, osservati in primi piani d’una verità assoluta. Quattro protagonisti, ciascuno col peso di un presente disperato all’interno della città industriale di Shijiazhuang: un luogo di perenne grigiore, un cielo metallico quasi metafisico, una luce brutale che ferisce entrando dalle finestre o nella crudeltà degli esterni, vere e proprie messe a nudo della vulnerabilità umana.

Ed è in particolare attraverso l’uso dei primi piani che Hu Bo sembra teorizzare una specifica idea di cinema-verità: l’uso del volto nella sua apparente impenetrabilità, staccato dallo sfondo, scavato con la luce e le ombre fino a farne affiorare il pensiero. Non di rado ci sembra quasi di ascoltare il tumulto di pensieri ed emozioni che si affollano nella mente dei personaggi: ad esempio, nelle sequenze iniziali, il viso della giovane Huang Ling è solo una silhouette oscura: un profilo nero e mobilissimo, per mezzo del quale il regista ci trasmette, senza forzature né artifici, uno stato d’animo di profonda inquietudine. Quel volto, di cui Hu Bo cancella i lineamenti con il contrasto fotografico, è il segno di un presente greve, di un agitarsi contro il destino.

Allievo di Bela Tarr, Hu Bo raggiunge una sua libertà e autonomia stilistica. Inquadrati di spalle, i suoi protagonisti sono perduti e girovaghi in uno spazio inospitale e crudele: il regista li sospinge ai margini dell’inquadratura e li inserisce un contesto sfocato. Il procedimento (che ricorda Il figlio di Saul, altra opera recente importante) viene usato come evidente scollatura da ciò che li circonda: una divisione di due realtà, quella interiore e quella esteriore. Alienazione, disperazione, poi movimento mediante lunghi piani sequenza, eterne partenze e ritorni in luoghi sconosciuti eppure estranei.
Se il cinema è movimento attraverso uno spazio, lo spazio non è mai stato stato tanto ostile come in An elephant sitting still, e la luce mai così tagliente nell’individuare le sagome umane nell’ombra, cieche, mute. Veniamo condotti in labirinti, tunnel in cui si insegue l’illusione di una luce; il paesaggio è avvolto in una eterna foschia e il contrasto tra volto in primo piano/campo lungo ci parla di un essere umano che non trova il proprio posto nel mondo.

Il regista ci accompagna in una narrazione che, sebbene suddivisa internamente in episodi, trova una sua mirabile coesione. I minuti scorrono senza peso: l’impressione è di realtà. Hu Bo tratta il tempo riuscendo a darci l’illusione di uno scorrere naturale, grazie ad una condensazione impercettibile. Ci sembra di essere sempre con i personaggi, seguirne ogni gesto, ogni momento del vivere. Alcune sequenze sono incredibilmente potenti: come quella terribile, fotografica nella sua chiaroscurale evidenza, nella casa di cura cui Wang Jin (il personaggio più anziano e più commovente) sembra destinato. Rifiutato dalla famiglia che lo tratta come un peso inutile, Wang Jin trova solo nell’amore del suo cane un senso al perdurare dello strazio quotidiano. Il suo destino, ingiusto e silenzioso, ritaglia una memoria neorealista che però Hu Bo sa ancorare, con una precisione quasi documentaria, alla drammaticità di un cinema presente.

Di rado ci è dato entrare nell’anima di un autore così profondamente. Hu Bo ha lasciato questa vita con un gesto disperato; ma An elephant sitting still offre una strada, uno sguardo finalmente in avanti nella sequenza finale: che è ludica, estemporanea, un faro di speranza nella notte nera dell’esistenza.

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