SHE WAS LIKE A WILD CHRYSANTHEMUM di Kinoshita Keisuke (1955)

L’amore di Kinoshita per il cinema, il suo sentimento nostalgico e umanista e l’inclinazione a rivelare la bellezza del mondo, anche nei suoi aspetti più umili e naturali, lo conducono alla realizzazione di She was like a wild chrysanthemum, tra le sue opere più belle, fragili ed evanescenti. L’intero film è una passeggiata fantasmatica nel passato e nel cuore umano, che trasfigura una dolorosa storia d’amore giovanile nel rimpianto e in una poetica accettazione del destino.
Ormai anziano, Masao torna alla terra natale, attraversando su una semplice barca i paesaggi del passato: rivede le coste, i campi, la vecchia casa abbandonata e ritenuta dagli abitanti del villaggio “una casa posseduta”. I ricordi agitano la sua mente, dagli occhi spuntano lacrime. Ryū Chishū è l’interprete miracoloso di un personaggio che non eccede mai nell’espressione dei propri sentimenti: dignitoso, composto, lascia intuire una sofferenza muta attraverso la postura appena curva e un volto intensamente segnato dalla tristezza. È impossibile restare indifferenti di fronte ai primi piani del suo viso rigato dal pianto. Masao ha preso la forma del dolore che lo ha accompagnato per tutta la vita, diventando il corpo dell’amore.

Ci penso ogni volta che arriva l’autunno. È qualcosa che non potrò mai dimenticare. Sono passati più di 60 anni… Mi sono rimasti solo i sogni del mio passato. Sei stato l’unico amore della mia vita, vivrai per sempre nel mio cuore.”
Attraversando il fiume luccicante di sole, nell’aria dolce di un autunno che sembra volerlo confortare e offrirgli un rifugio sospeso nel tempo, Masao ripercorre i propri ricordi sino a renderli vivi e presenti, sonori e visivi. L’uomo rivede se stesso appena quindicenne, accompagnato dalla gentile e delicata Tamiko, la cugina diciassettenne con la quale è cresciuto. Un mascherino bianco ovale, vera e propria aura spirituale che incornicia l’immagine, è l’espediente tecnico di cui Kinoshita si serve per fare del suo racconto un viaggio nella memoria e nel sogno. Il ricordo si circonda di un candore intangibile, il passato si fa allo stesso tempo distanza, luce, visione ultraterrena. Come un cantastorie, Masao traduce in versi poetici la storia triste dei due innamorati, sullo sfondo di un Giappone rurale – gentile di fiori e silenzi – ma irrigidito in una mentalità severa e feudale.

Attraverso il mascherino e la narrazione lirica ma asciutta di Masao, la storia d’amore assume i contorni di un racconto popolare: una storia di innocenza e crudeltà, che vede i due giovani divisi dalle malevole chiacchiere del vicinato, dalla gelosia di una cognata, e dalla mentalità retriva di una madre amorevole ma incapace di concedere la sua approvazione alla relazione. Tamiko non solo è più grande di Masao, ma anche di grado sociale inferiore; il suo destino è la sottomissione.
Per impedire che il rapporto possa continuare, il ragazzo viene inviato in una scuola lontana, mentre Tamiko è costretta ad accettare un matrimonio combinato, utile per l’economia familiare.
La separazione causa in entrambi un’infinita sofferenza, espressa attraverso il pianto e il silenzio. Kinoshita inserisce nel racconto immagini naturali (meravigliosamente fotografate da Kusuda Hiroshi): le colline immote, i cieli sereni, mentre carrelli attraversano i campi fioriti, accarezzati dal vento. Ogni filo d’erba, ogni corolla curvata sembra condividere il destino di accettazione e sofferenza dei ragazzi, fiori a loro volta: se Tamiko è, nelle parole di Masao, un crisantemo selvaggio, a sua volta il ragazzo viene da lei paragonato a una campanula: “Non mi ero resa conto che le campanule fossero così belle.”

La colonna sonora di Kinoshita Chūji (fratello di Keisuke e suo stretto collaboratore) accresce, con la sua malinconia, l’atmosfera elegiaca di resa: i due giovani non si ribellano ma si piegano alle decisioni e al sarcasmo della comunità. Rimasti soli, sfioriranno giorno dopo giorno, privati di quella felicità data solamente dall’essere vicini, trafitti dalla bellezza della luce. Quella di Masao e Tamiko è la storia di un amore tanto innocente quanto istintivo: i due ragazzi vivono l’uno dell’altra come il mattino gode della rugiada; la loro attrazione è una necessità, un bisogno naturale di presenza, di voci, di sfioramenti.
Masao, dal suo dormitorio lontano, scrive una lettera a Tamiko: “stare con te era come essere su una nuvola assieme a Dio”. In queste parole, l’essenza di un sentimento totalizzante e vitale, che vede l’amore come la vita stessa, proiettata nell’ immortalità. Un sentire poetico che ricorda i versi di Emily Dickinson, secondo la quale l’anima cerca la sua compagnia, senza la quale non può vivere. Per entrambi, l’allonanamento è un gesto contro natura che si traduce nella morte: dello spirito e del corpo.

Kinoshita filma con tutta la delicatezza possibile, ma anche con una sensibilità estrema nei confronti di un romaticismo struggente ma quieto, spiritualizzando il sentimento attraverso il mascherino bianco, ritagliando al suo interno geometrie e split-screen dati da oggetti, arredi o colonne: l’incubo della separazione si staglia nelle inquadrature. Le carrellate, i frequenti piani sequenza e i silenzi ci ricordano che tutto scorre e tutto ha una fine, ma l’universo accoglie il pianto e l’amore, conservandoli nell’eternità.
Sulla tua tomba tutto è silenzio, ora solo cantano i grilli”

OZU YASUJIRŌ: I SUOI FILM CI PARLANO ANCORA

Voglio ritrarre il fiore di loto nel fango”
Ozu Yasujirō

[Appunti sparsi in occasione del compleanno di Ozu: 12 dicembre 1903 – 12 dicembre 1963]
Scrive un utente in un commento su YouTube: “I film di Ozu mi fanno desiderare di essere più gentile con gli altri”. È vero. È il primo effetto che fanno. Ogni suo film è testimonianza del suo amore per la vita e per gli esseri umani: guardarli per la prima volta significa scoprire un universo vibrante di puro coinvolgimento sensoriale e spirituale.
È un cinema attuale: lo spettatore si rende immediatamente conto di non trovarsi di fronte a un oggetto filmico da studiare per il suo valore storico o culturale; la visione non ci pone a confronto con polverosi reperti, ma con oggetti vivi e perfettamente aderenti alla contemporaneità, proprio perché focalizzati sugli effetti del vivere.

Questi “effetti del vivere” affiorano nei tre contesti d’elezione del cinema di Ozu, che sono, in realtà, i tre nuclei basilari della società giapponese: la famiglia, la scuola e il luogo di lavoro. È all’interno di queste cellule che Ozu riesce a isolare “tutto ciò che è essenziale della vita umana”, come disse Aki Kaurismaki. La circostanza contingente, la storia raccontata, vengono trascese in un più ampio reticolo di percezioni e sensibilità, in cui ciascuno di noi può riconoscersi.

Grazie all’uso tutto personale che Ozu fa della macchina da presa, dei propri attori, così come degli spazi e degli oggetti, del colore (o assenza di esso), percepiamo le emozioni dei personaggi; ne cogliamo lo stato d’animo in fieri, i sussulti interiori, con tutta la risonanza che hanno dentro di noi. Questa comprensione tra spettatore e personaggio è ancora più miracolosa se si pensa che il punto di vista del racconto non è mai soggettivo.
Gli esseri umani vengono osservati senza invadenza (ne è prova il fatto che Ozu opti per il più pudico “mezzo primo piano” rispetto al primo piano). La macchina da presa si avvicina o si allontana scegliendo sempre la giusta distanza dalla quale ascoltare il suono dei pensieri. Talvolta l’osservazione è condotta in campo lungo, di cui Ozu scopre la forza drammatica; altre volte il personaggio è guardato da vicino, ma di spalle: non è detto, ci fa capire Ozu, che il viso sia sempre rivelatore. Un corpo incurvato può parlarci di un peso, di un’angoscia che una inquadratura frontale non sa esprimere.

Frequenti, nel cinema di Ozu, le immagini dedicate alle “donne che pensano”: figure femminili di grande forza intima e segreta, il cui corpo e sguardo sono completamente assorti nell’atto del pensare. L’osservazione di Ozu non è mai piatta o didascalica, ma conserva intatti l’enigma dei pensieri e il mistero della sensibilità; quello che accade nella mente delle sue protagoniste resta talora opaco e impenetrabile, ma la sofferenza espressa dall’inquadratura è tangibile e raggiunge i sensi dello spettatore. Nel cinema di Ozu gli esseri umani sono parte di un tutto: elementi tra gli altri, cose tra le cose; presenze tra oggetti inanimati o piccoli animali domestici. Spesso ricorrono, ad esempio, immagini di uccellini in gabbia: i protagonisti dei suoi film sono non di rado come queste piccole creature, bloccati in uno spazio e costretti dalla società, o dalla famiglia, a reprimere il desiderio di volo.

La vita non è una delusione?” Chiede Kyoko, la sorella minore, a Noriko in Viaggio a Tokyo. “Sì, una vera delusione”, risponde sorridendo Noriko. I (mezzi) primi piani che Ozu dedica alle due attrici in questa scena sono pieni di grazia e di luce. Il regista coglie qualcosa di unico, un sentimento indefinibile e sospeso tra la dolcezza del sorriso della Hara e la semplice evidenza della sua risposta. In fondo ci chiediamo: può essere davvero così triste la vita, se esiste un sorriso del genere? Le sfumature sprigionate dalla scena sono come una lieve ebbrezza. Ozu trascende la semplicità del momento quotidiano per consegnarci intatta la luce dei sentimenti umani e il mistero di un tempo interiore, un presente che pare stendersi sull’intera esistenza.

La malinconia del vivere è presente in ogni inquadratura: il lavoro di ogni essere umano è accettare la propria transitorietà e i mutamenti della vita, all’interno di quel “tutto” che compone l’universo.
Ed è significativo che sentimenti ed emozioni non ci siano offerti in una lettura chiara. Quando osserviamo i suoi personaggi, mentre piegano il capo o guardano intensamente verso di noi, c’è sempre il senso d’una vaghezza, di uno stato d’animo incerto e quindi dai contorni indefiniti. Allo stesso tempo, Ozu lascia ai suoi spettatori un indizio, un elemento che possa informarci: il modo in cui il personaggio porta alla bocca una tazza di tè, o si tormenta i guanti, o cammina (spesso vediamo solo i piedi); persino il modo in cui un fiammifero viene strofinato diventa significante: è un gesto deciso? O il fiammifero viene strofinato una, due volte, rivelando turbamento o emozione? E’ attraverso questi segnali che i protagonisti entrano in noi, e condividono con noi ciò che provano.

Ogni visione (nuova o ripetuta) dei suoi film ci permette l’accesso in un mondo la cui bellezza, il paesaggio esteriore/interiore, l’amore – per i personaggi e tra i personaggi – diventano un vissuto stupefacente. Quei tipici “sguardi in macchina” voluti da Ozu per “far entrare” lo spettatore nello spazio di un dialogo, rappresentano momenti di intimità talmente intensi da risultare indimenticabili: quando mai un personaggio ci ha guardato così? Com’è possibile che Ozu instauri una conversazione proprio con noi, in forme così personali e profonde? Queste domande sorgono continuamente di fronte ai suoi film, e siamo grati della sua presenza, di un discorso pieno di cura nei nostri confronti. I suoi film sono vivi e ci parlano ancora.

NOTE SU MATSUYAMA ZENZŌ

Sono rimasta istintivamente attratta da questa figura (poco nota in Italia) di rilievo del cinema classico giapponese dopo averlo scoperto come sceneggiatore: a lui si devono, tra gli altri, lo script della trilogia The Human Condition (Kobayashi), così come di Yearning o Hit and Run (Naruse). Matsuyama debuttò nella regia grazie alla collaborazione dell’amico Kinoshita, arrivando a dirigere 16 film. La qualità allo stesso tempo poetica e realistica, brutale dei suoi dialoghi, si ritrova anche nel suo originale stile registico – apparentemente quieto e oggettivo, ma attraversato da impeti di modernità, come primi piani inquietanti e anti-realistici, inclinazioni della macchina da presa, campi lunghissimi e alienanti. Trovo anche unica e molto bella la sua unione con la musa e sposa Takamine, attrice di straordinaria intelligenza che non poteva restare indifferente né al talento, né alla gentilezza di Matsuyama.

Ho avuto modo di vedere due film scritti e diretti da Matsuyama: il primo è Happiness of us alone (1961), il suo esordio nel lungometraggio, un film unico nel suo genere. Nato in seno al popolare filone del “dramma familiare e sociale”, Happiness of us alone diventa un’esperienza di profonda intimità , condotta con un pudore che non impedisce al regista di osservare i suoi protagonisti – una coppia di sordomuti nel Giappone del dopoguerra – in modo straordinariamente moderno e vero. Senza alcuna retorica del “diverso”, il film racconta un amore con una propria cifratura fatta non solo di linguaggio dei segni, ma di segrete corrispondenze; un’affinità elettiva tra fragili esposti alla tempesta della vita, due “semplici” di limpida purezza, in grado di amarsi e sostenersi completamente. La regia di Matsuyama isola i due, ne sottolinea la presenza innocente in un mondo ostile, li incornicia in inquadrature bellissime e simmetriche dove Katayama e Akiko, posti l’uno di fronte all’altro, soffrono, combattono, fino a schiudere una “propria” felicità. Un film bellissimo e duro: Matsuyama riprende in forme naturalistiche la povertà e spietatezza dell’epoca, e non lenisce lo spettatore con confortevoli sentimentalismi. Penso che il contemporaneo Fukada Koji, nelle sue numerose inquadrature di coppie che si osservano dai lati opposti dell’inquadratura, abbia pensato agli equilibri compositivi di questo film.
Meravigliosa la scena del treno, che vede i due parlarsi da due vagoni distinti, separati e disperati: il finestrino è il messaggero del loro amore, lo specchio delle proprie anime ferite.

Mother Country (1962) potrebbe essere definito, con una facile formula, un “affresco storico”, se non fosse che “affresco” rimanda a qualcosa di morto, incastonato in un passato lontano. Il film di Matsuyama, che racconta la vita degli immigrati alle Hawaii dagli anni ’20 al dopoguerra, e dell’indefinitezza della condizione dei propri figli – né americani né giapponesi, su cui ricadono in modo particolarmente ingiusto le “colpe” della seconda guerra mondiale – è così vivo che sembra di toccare i paesaggi, i corpi, fino a sentire il vento sulla pelle o le bombe esploderci accanto. Nessuna dolcezza da cartolina in queste Hawaii dal suolo duro, in cui i protagonisti vivono da schiavi per vent’anni, per poi vedere i loro sforzi distrutti dall’arrivo della guerra. Mother Country è un film di esuli, di identità, di vuoti mai colmati: se le Hawaii sono un non-luogo, il Giappone tratterà ancor più violentemente i “figli” tornati in seno alla patria.
Seppur classicista, Matsuyama è consapevole del mutamento in atto nel cinema dei ’60: il suo cinema limpido e classico è squarciato da lampi di onirismo, inquadrature raggelate come fermo-immagini, incubi impalpabili. Si tratta di uno dei film di guerra più belli e tristi che abbia mai visto: si svolge non solo in vasti e anonimi campi di battaglia (stilizzati in campi lunghissimi), ma si riflette negli sguardi atterriti, nei corpi emaciati. In Mother Country vediamo Takamine Hideko e Kuga Yoshiko invecchiare, mentre la giovinezza – affidata al viso bellissimo di Kuwano Miyuki – è sconvolta in modo irreparabile. Il Giappone appare disgraziato, crudele e disseccato: tutto ciò che Ozu, dopo il conflitto, scelse di non mostrare, dichiarando “voglio mostrare il fiore nel fango”.

FINO ALL’ULTIMO RESPIRO (À bout de souffle, 1960) di Jean-Luc Godard

[tributo a Jean-Luc Godard]

Bisognerebbe avvicinarsi a Fino all’ultimo respiro con la mente completamente sgombra, trasformando il pensiero in un foglio bianco, ignorando i facili schematismi delle “storie del cinema” che contraddicono lo spirito libero del film e lo privano del suo fascino sregolato e vibrante.
L’approccio banalmente didascalico difatti prevede che Fino all’ultimo respiro venga descritto come la chiave di volta della nouvelle vague: un oggetto filmico di rottura rispetto alle convenzioni stilistiche sedimentate nei decenni precedenti, un cinema in cui prendeva vita la rivoluzione estetica portata avanti dal giovane Andrè Bazin, il principale teorico della nouvelle vague.

Bazin rifiutava il concetto di montaggio come “specifico” filmico e auspicava invece l’ingresso di un nuovo senso di realtà nel cinema, una realtà non frammentata ma colta nella sua unità di tempo e di luogo. Per i registi e gli ideologhi della nouvelle vague, in linea con gli insegnamenti di Bazin, gran parte delle strutture classiche del cinema americano (ma anche di certo accademismo francese) andavano superate in nome di un maggior respiro di verità; un traguardo da raggiungere soprattutto tramite l’uso della profondità di campo (che non costringe lo spettatore ad una scelta selettiva, ma lo pone di fronte ad una realtà complessa, cui può partecipare attivamente) e il rifiuto del montaggio, colpevole di sottrarre ambiguità e complessità interpretativa agli eventi, ponendo lo spettatore di fronte ad un percorso obbligato.
L’approccio storicistico tradizionale quindi carica Fino all’ultimo respiro di una serie di teorizzazioni estetiche e lo contestualizza in un arco evolutivo, ma noi riteniamo che quest’ottica, sebbene “corretta” sia rigida e limitante.

Fino all’ultimo respiro è grandissimo cinema e non si può semplicemente ridurre ad una summa di teorie o una reazione a stili superati. Godard stesso rifiutava di essere categorizzato; tra i registi più anarchici e disobbedienti, sfuggiva a qualsiasi definizione e dichiarava fieramente di non avere una visione precisa di ciò che volesse fare, ma di costruirla via via nel suo cinema coraggioso, non privo di tormentate incertezze.
Godard somiglia molto ai suoi personaggi: inquieto, incisivo, talora irritante, nervoso, ambiguo. Grandissimo innovatore in virtù di una personalità ribelle ed indomita; anticonvenzionale al punto da mescolare, nei suoi film, citazioni colte, filosofia, estetica, canzonette, cultura popolare. Fino all’ultimo respiro è cinema in continua trasformazione, estremamente vivo e contraddittorio, che catturava il senso di ribellione dell’epoca ma era frutto di uno sguardo sulla vita e sull’arte del tutto unico e personale.

A differenza di quanto teorizzato da Bazin (che altri registi, tra cui Rohmer, seguirono alla lettera), Fino all’ultimo respiro non respinge il montaggio come linguaggio, ma ne fa un uso estremo e personale: Godard scelse di operare tagli all’interno di una continuità con effetti sussultori, non narrativi o descrittivi. Questa tecnica che gli americani denominarono “jump cuts” nacque da esigenze pratiche, prima che politiche: Godard si ritrovò con 30 minuti in più di girato, ma invece di tagliare intere scene o sequenze, preferì tagliare la scena al suo interno (con squilibri logici), conferendo al film uno stile nervoso imitatissimo tanto dai cineasti colti quanto dai registi d’azione. Per questo motivo Fino all’ultimo respiro è una scheggia di cinema futuro.

Ma vanno chiarite anche le posizioni del film e di Godard nei confronti del passato: se parte della nouvelle vague si dimostrava ostile a tanto cinema americano, per Godard Hollywood rimaneva un oggetto in parte mitico: Fino all’ultimo respiro contiene tutto l’amore di Godard per il cinema di genere americano, in particolare per il noir. Il personaggio di Belmondo è l’evoluzione ironica – esistenzialista e ludica al tempo stesso – dei protagonisti chiaroscurali e malinconici dei noir, in particolare del Bogart dei film di Hawks o Delmer Daves; e allo stesso tempo l’interpretazione di Belmondo diviene parte di una continuità cinematografica, perché l’anarchia del suo personaggio, la solitudine, l’amarezza, il rifiuto di qualsiasi modello sociale saranno ripresi da una serie di registi americani – da Scorsese a Bob Rafelson, da Steven Spielberg a Arthur Penn. Ecco allora il Travis Bickle di Taxi Driver (1976), il Clyde di Bonnie e Clyde (1967), o il Bobby Dupea di Cinque pezzi facili (1970).

Godard, come tutti i più grandi registi, coglieva i fermenti del proprio presente e li trasformava in cinema secondo un linguaggio completamente libero, che fu oggetto di ammirazione ma anche di critiche miopi e grandi ostilità; la sua assoluta libertà nei confronti del linguaggio cinematografico non fu “rivoluzionaria” ma si riallacciava allo stile di grandissimi maestri del muto, come Eric Von Stroheim, Flaherty o Murnau, i quali si opposero ad ogni convenzione descrittiva/narrativa e tentarono, con lo spirito dei grandi romanzieri, di realizzare un cinema totale che contenesse la vita nella sua interezza. Per realizzare questo cinema ogni mezzo era lecito: dalla profondità di campo, dalla continuità temporale al montaggio-shock, dallo spazio filmato nella sua complessità al primissimo piano con valore emozionale. Godard non rifiutava niente del cinema, nemmeno le pratiche degli studios, e prova ne è la dedica di Fino all’ultimo respiro alla casa di produzione americana Monogram, dedita soprattutto ai film di genere (commedie, avventura, noir di serie B) di cui Godard ammirava l’intraprendenza e la fattura artigianale.

Fino all’ultimo respiro è dunque un’esperienza di cinema totale, che va goduta nella sua freschezza, nella sua vibrante e appassionata poesia di vita sfuggente ed anarchica. Se Godard immette nel suo film tutto il suo amore per il cinema, in forma di suggestione o citazione (i già ricordati Hawks, Daves, ma anche omaggi al cinema francese, a Chabrol e Jean Pierre Melville), va anche notato come tutto si trasformi secondo la sua sensibilità, tanto da perdere un senso del passato quanto del futuro. Godard cercò di cogliere la realtà, fatta di strade, visi, silenzi, amore elettrico come un’energia che attraversa corpi e lo schermo. Ma più di chiunque Godard capì la profonda irrazionalità che irrompeva nel reale stesso, impossibile la filmare in modo fenomenologico. In Fino all’ultimo respiro i sussulti, il montaggio discontinuo e aritmico, gli improvvisi abissi emozionali sono quelli della vita stessa, che si fa cinema universale e senza tempo.

BASHING di Kobayashi Masahiro

Pochi giorni fa ci ha lasciati un regista importante, Kobayashi Masahiro, fautore di un cinema personale, umanista e fuori dagli schemi che sto scoprendo soltanto ora.
Ieri sera ho visto il suo Bashing (2005) e sono rimasta molto impressionata dalla bravura del regista, dal suo amore nei confronti dei personaggi e dalla condanna senza compromessi di una società fredda e dura. Il film è girato a basso costo, ed è sorprendente come Kobayashi sia riuscito a trasformare i limiti in sfide espressive. Nel raccontare la storia di Yuko, una ragazza emarginata e brutalizzata dalla comunità a causa del suo impegno come volontaria in Iraq (“sei un’egoista, perché non ti sei preoccupata di aiutare il tuo paese? Sei una vergogna per l’intero Giappone”), Kobayashi si affida a poche scene isolate e trasforma elementi ordinari in veri e propri oggetti-emblemi della sua condizione di perseguitata (oltre che straordinari strumenti narrativi). Ad esempio le scale del condominio, che la ragazza sale e scende di corsa mentre la macchina a mano la segue di spalle o la accoglie frontalmente. Queste scale diventano un luogo d’angoscia: ogni nuova rampa lo spazio di un possibile agguato. Ad ogni piano, immerso nell’ombra, temiamo per Yuko, mentre la regia di Kobayashi possiede un’urgenza ansimante, sembra quasi suggerirle “corri!”. Gli stacchi veloci del montaggio costruiscono tensione fino all’arrivo, liberatorio, alla porta di casa. Un altro elemento: il sacchetto di plastica che contiene il cibo appena acquistato. Ogni volta che Yuko torna a casa con il sacchetto, viene aggredita o insultata. L’apparizione del sacchetto provoca quindi un’immediata risposta emotiva da parte dello spettatore: paura, tensione.
Kobayashi è un regista che coinvolge il suo pubblico fino in fondo; la visione non è mai passiva ma ci obbliga a “sporcarci”, a partecipare emozionalmente e moralmente. Estremamente bello è l’uso che fa del primo piano: nonostante l’osservazione sia ravvicinata, c’è sempre un pudore, una delicatezza rispettosa nei suoi close-ups, quasi delle carezze sul volto di Yuko. A differenza di tanti primi piani del cinema contemporaneo, pronti a sfruttare i propri personaggi fino all’abuso, il regista è protettivo, colmo d’amore. L’immagine diventa un rifugio intimo per Yuko, un segmento di realtà dove potersi finalmente abbandonare.
Le dissolvenze incrociate, utilizzate spesso nel film, hanno una funzione tutta interiore: sono transizioni sui pensieri di Yuko. Infine, come mostrare allo spettatore un volo aereo, quando il budget è così basso? Kobayashi trova una struggente soluzione poetica: sentiamo solo il suono del volo mentre il viso di Yuko accenna un timido sorriso. Bashing è un film splendido e implacabile sulla cattiveria che l’umanità è in grado di infliggere, e su come un’anima pura possa reagire. Mi viene in mente un verso di William Blake: “l’anima della dolce gioia non si potrà mai insozzare”.

HONG KONG EXPRESS di Wong Kar-wai

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Vuoto amoroso e distillata disperazione nel caos del quartiere di Chungking. Il “poliziotto 223” (Takeshi Kaneshiro) non si rassegna all’abbandono; la sua vita corre sul filo del telefono – una “voix humaine” che ha perso l’interlocutore. Amei, la sua ragazza, lo ha lasciato: e non bastano dozzine di lattine di ananas per placare la voragine interiore che lo inghiotte. 223 è giovane e ingenuo, quasi un germe estraneo nell’automatismo di notti inquiete e di un fluire di corpi nelle strade, tra crimine, luci al neon, bar dove consumare alcol e solitudine. L’incontro con una sconosciuta (Brigitte Lin) è un “lunghissimo brivido”: il ragazzo non lo sa, ma in quel momento anche vita e morte si confondono, rincorrendosi nei vicoli, tra la folla, là dove la passione esplode e fugge. “C’è una canzone che dice: Il sole che sorge fa finire l’amore. Era esattamente quello che speravo accadesse”.

La macchina da presa scivola e si sposta su nuovi personaggi. Si sofferma sul “poliziotto 663”, tradito dalla sua fidanzata hostess e immerso nella tristezza di un quotidiano vulnerabile e velato di rimpianto. 663 (un magnetico Tony Leung) fa dell’assenza la sua compagna malinconica: ogni giorno, nella sua abitazione, torna a rivivere nella memoria i momenti vissuti con la donna perduta; piange dignitosamente insieme agli oggetti, li consola, li umanizza. Nulla sembra avere più alcun significato se non in relazione alla sua perdita: “Quando un uomo piange basta un fazzoletto. Quando a piangere è una casa, ti tocca fare un sacco di fatica.”
Ma un giorno 663 si accorge di Faye (Faye Wong), la ragazza del fast food che si è innamorata di lui. Faye è uno spirito leggero, dall’allegria folle e un po’ clownesca; i suoi capelli corti di ragazza, i grandi occhi spalancati sul mondo e sull’amore ne fanno un’anima sperduta e giocosa sullo sfondo di una città in corsa. In un bellissima scena in time-lapse, Wong Kar-wai isola e cristallizza il sentimento di Faye per 663: un’adorazione silenziosa mentre intorno tutto scorre.

Non sono mai riuscita a comprendere perchè Wong Kar-wai abbia spesso suscitato critiche, tra cui l’essere troppo “occidentale” ed estetizzante. Wong Kar-wai è un regista di metropoli, ed è chiaro che il suo linguaggio aderisce al suo mondo, in cui i contorni tra le cose – così come tra le culture e le espressioni – perdono nitidezza per farsi mutevoli e veloci. La regia è elettrica, una corsa per afferrare il naturale fluire del caos e della vita, cogliendone l’intima e fragile bellezza. L’accusa di virtuosismo estetico è ancora più ingiustificata: Hong Kong Express è stato girato quasi interamente camera a spalla, e la visione di Wong Kar-wai è esattamente lo specchio del suo sentimento. Il regista mescola suoni e sensazioni, velocità e cromatismi intensi pari a certi sconvolgimenti del cuore. In Hong Kong Express, Wong Kar-wai è il regista dell’amore.

MY BEAUTIFUL LAUNDRETTE (1985) di Stephen Frears

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Nel 1984 il regista Stephen Frears riceve la proposta di portare sullo schermo una sceneggiatura di Hanif Kureishi, lo scrittore della Londra multietnica e struggente di quegli anni. Con un budget di £600,000, Frears inizialmente pensa a un prodotto per la tv: “a chi può mai interessare la storia di un pakistano gay che gestisce una lavanderia?” Il film invece viene realizzato per il cinema – è il primo film della casa di produzione Working Title – e diventa un manifesto del periodo: le inquietudini di una Londra “che uccide” (parafrasando un altro titolo di Kureishi), la solitudine giovanile in un paese pesantemente condizionato dal thatcherismo (come accusavano, negli stessi anni, le canzoni degli Smiths), gli episodi di intolleranza ma anche, allo stesso tempo, la resistenza dell’amore nella sua innocenza, sono tutti qui; nella brevità di un’ora e quaranta minuti Frears rinnova il cinema inglese con una freschezza immediata e poetica.

Le sue scelte narrative e stilistiche – il realismo degli esterni, le luci al neon, il senso ludico che attraversa uno stato d’animo “sull’orlo della catastrofe” – fanno di My Beautiful Laundrette un oggetto unico, un film realizzato quasi in un dream state, una condizione onirica oscillante tra disperazione e desiderio ostinato di futuro. Sono sufficienti i primi minuti (con i suoni “elettronici” di bolle di sapone e un effetto-centrifuga che trasforma lo schermo in lavatrice) a immetterci nelle atmosfere tra finzione e realtà di un’opera che cerca la verità nella stilizzazione. Dopo i titoli, Frears ci conduce immediatamente tra la quartieri e palazzi (il film è tutto girato nel sud di Londra) ma cerca di cancellarne l’asprezza con uno sguardo tra il sogno e l’indefinito.

Due ragazzi, Omar (Gordon Warnecke) e Johnny (Daniel Day-Lewis) – l’uno pakistano ingabbiato nei codici e leggi della famiglia, l’altro coinvolto con un gruppo di balordi “nazi” in cui cerca un’illusione di identità e appartenenza – si ritrovano per caso dopo diversi anni. Il loro incontro, girato con un’apparente semplicità in cui Frears tutto cura, tutto allestisce meticolosamente (lo sguardo tra i due, il sorriso improvviso e infinito di Omar, il muretto su cui Johnny si appoggia fingendo noncuranza, il conflitto tra personaggi inglesi e pakistani sullo sfondo, i primi piani occhi negli occhi) è forse una delle sequenze d’amore più intense mai girate. Improvvisamente è come se il resto del mondo scomparisse; Omar e Johnny, l’uno davanti all’altro, appaiono felici, completamente conquistati l’uno dall’altro.

Da questo momento il film procede in totale, assoluta complicità con la coppia: il rapporto appare bizzarro ma condotto con piena naturalezza. Johnny “il duro” si lascia guidare da Omar in un gioco servo/padrone consensuale in cui i due trovano fede reciproca e rimedio a un passato doloroso. Omar ordina, Johnny obbedisce: ma il piacere che entrambi provano è tangibile; l’allegria nel sovvertire le regole, l’erotismo che scaturisce da ogni minimo sfioramento elettrizzano lo schermo. Per un giovane di allora, non ancora abituato al queer cinema, assistere a questo amore fuorilegge era entusiasmante. L’omosessualità viene affrontata “ignorandone” la sostanza problematica: semplicemente, Frears mette in scena l’amore. Il primo bacio tra i due ragazzi è talmente casuale che la sua anticlimaticità, paradossalmente, lo rende indimenticabile.

La South London di My Beautiful Laundrette è allo stesso tempo dura e dolcissima; Omar e Johnny trovano accoglienza nel buio o tra le luci colorate di lampioni, insegne luminose, piccoli club notturni. Insieme decidono di gestire “la più bella lavanderia di Londra, il top della gamma” ripulendo una piccola attività in rovina e occupata da una varia umanità di sbandati, artisti, poeti e innamorati. C’è la volontà, da parte di Omar e Johnny, di immaginare un’alternativa: un sogno di pulizia, lavatrici, ordine e colori pastello. Un non-luogo ideale costruito in un quartiere povero e malfamato, attraversato da scorribande di punks e criminalità pakistana in eterno conflitto.

Frears crea scene di bellezza memorabile: l’amore consumato il giorno dell’inaugurazione mentre suona Il valzer dei pattinatori; le riunioni a casa dello zio di Omar (Saeed Jaffrey), in un delirio di superstizioni, riti familiari e iniziazioni; le immagini delle case popolari londinesi, degradate ma accese da bellissimi graffiti in cui si concretizza sia la protesta quanto il desiderio di un oltre migliore; i dialoghi tra Omar e suo padre (Roshan Seth), un intellettuale pakistano vinto dalla vita, dall’alcol e “annientato dall’Inghilterra”, ma ancora fortemente convinto della necessità di un’educazione e di una cultura (“Cosa fate qui? Tu e Johnny dovreste andare al college…”).

Il film ebbe un enorme successo. Il suo potere fu non solo di catturare ma di definire lo stato d’animo di un’epoca, tra rabbia, infinita malinconia e il sorriso insopprimibile della giovinezza. Ad accrescerne la magia contribuì una colonna sonora fatta di elettronica, rumorismi synth (ottenuti con sintetizzatori Moog) e melodia in forme personalissime; i titoli di coda la attribuiscono a un fantomatico “Ludus Tonalis”, pseudonimo di un giovane Hans Zimmer.

(Il film è disponibile su Primevideo)

INCONTRO CON OLIVER STONE

stone_young“Proietteremo i vecchi film come fantasmi su un muro.”

Quella di Oliver Stone alla 56a edizione del Pesaro Film Festival non è che un’apparizione fuggevole (il regista è impegnato in una serie di incontri nelle Marche), ma comunque straordinaria. Poter parlare con un artista del suo calibro è un’occasione rara; Stone è una parte importante della storia del cinema del ‘900 e ha continuato, negli anni 2000, a sperimentare, mettendo in discussione se stesso e i propri codici (si veda il sommesso, intimo Snowden, 2016).

E’ il regista che prima di Spielberg ha rivoluzionato il cinema di guerra (a partire da Salvador e Platoon); è l’autore che ha mescolato materiali, generi e stili appropriandosi dei modi aggressivi delle news – per poter esercitare una feroce critica dall’interno – nell’iconoclasta Natural Born Killers; ha ridato forma al biopic trasformandolo in un laboratorio estetico e ideologico, anticipando il cinema spurio di Adam McKay. Ma Stone ha anche dimostrato un innato classicismo (Tra Cielo e Terra) e senso dell’entertainment puro (Ogni maledetta domenica); ha lavorato dentro Hollywood e contro Hollywood, fino a scarnificarsi e disilludersi, per tornare in tempi recenti a un cinema più autentico, spoglio, desideroso di realtà attraverso il documentario.

Nel suo percorso artistico ed esistenziale Stone non ha mai smesso di “inseguire la luce”: e Chasing the Light: Writing, Directing, and Surviving Platoon, Midnight Express, Scarface, Salvador, and the Movie Game è il titolo della sua autobiografia in uscita in questi giorni, edita da La Nave di Teseo.
“L’italiano è una lingua bella e sonora: infatti il mio libro di 320 pagine, nella vostra traduzione, è diventato di 500; però lo hanno intitolato Cercando la luce e non inseguendo. Ma non fa niente, è sempre una questione di luce.”
Il suo spirito di sfida non risparmia nemmeno il covid: Covid sucks, non sappiamo nemmeno cosa sia; è come The Blob, il vecchio film horror; ma è anche come trovarsi in un film di Lars Von Trier, dove tutti si muovono sentendosi minacciati e aleggia la morte; ma hey, tutti moriremo prima o poi, quindi vediamo di farci l’abitudine.”

Più amare, invece, le sue riflessioni sullo stato attuale del cinema: “In questo momento il movie business è morto – dead, dead, dead – ma possiamo sempre proiettare i vecchi film, come fantasmi su un muro. E qualche volta anche film nuovi, ce n’è qualcuno davvero buono: mi è piaciuto Joker, ma anche Uncut Gems e The Irishman. E’ sempre più difficile lavorare, per via delle corporazioni, del marketing…”

Chasing the light è un libro scritto dalla necessità di tornare sul passato per ripensarlo e soprattutto rivivere il sogno. “Non è forse il miglior momento per far uscire un libro, ma avevo bisogno di essere sincero con me stesso, esattamente come cerco di realizzare film onesti. Dovevo fermarmi, tornare indietro e ripensare la mia vita più consapevolmente. I primi quarant’anni sono stati importanti, fondativi: la giovinezza è il momento in cui si costituisce il sé. Da ragazzo problematico, dalla vita difficile, turbato prima dalle esperienze familiari e poi dal Vietnam, sono diventato un uomo che ha potuto concretizzare il suo sogno di fare cinema; in un solo anno, il 1987, ho realizzato ben due film di guerra, Salvador e Platoon.

Le parole più appassionate le riserva alla sua fede nel cinema come espressione di protesta: Il cinema è una forma d’arte e ha il dovere di esprimere un dissenso – politico, sociale, culturale; di protestare contro una realtà che non sente propria. Non posso fare a meno di manifestare la mia aperta critica nei confronti di una vita contemporanea così segnata dal conformismo. Sono sempre stato un ribelle, ho sempre lottato, lottato, lottato… In questo momento il governo del mio paese è molto duro, nazionalista, non vuole essere criticato; si trova in una posizione molto pericolosa. Io ho sempre espresso le mie idee senza compromessi; ho sempre sostenuto che la guerra nel Vietnam fosse una guerra stupida, e ho cercato di dirlo attraverso il cinema. Ma gli Stati Uniti hanno successivamente ingaggiato altre guerre, quindi non è servito. Si sono ripetuti gli errori del passato, ma io continuo a pensare che quel racconto andasse fatto.
Recentemente, nel 2016, ho realizzato Snowden, un’opera cui sono molto legato e che ritengo estremamente importante: ho cercato di esporre un caso reale, verità che molte persone non vogliono conoscere. Il cinema che vorrei vedere è questo: un cinema della realtà, mentre adesso siamo oberati dal fantasy: il pubblico viene rassicurato, si sente al sicuro. E’ un cinema che nasconde la verità di un’America la cui situazione è estremamente precaria.”

FANNY E ALEXANDER di Ingmar Bergman

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Vi è qualcosa di profondamente proustiano in Fanny e Alexander: la ricchezza dell’immagine, la sua complessità, la capacità di stratificarsi in più livelli, sinuosi e tattili – si tratta di immagini piene, percorribili in ogni direzione – è l’equivalente della frase della Recherche, con le sue subordinate, le digressioni, l’indugiare musicale che esplora il tempo e lo spazio in ogni sensazione. Frase “binaria ma in espansione (…) essa comprende incastri indefiniti che ne rendono ambiguo il senso” (J. Kristeva).
Film di memoria e film di messa in scena: Fanny e Alexander è un teatro di ricordi, è il passaggio al regno delle immagini attraverso la lanterna magica; è un film sul cinema che torna al passato, lo ricompone, dà corpo ai fantasmi e immette i traumi all’interno di un disegno – artistico quanto esistenziale. “Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni”: è il Sogno di Strindberg a offrirci la chiave filosofica della poetica bergmaniana.

Fanny e Alexander è un racconto di formazione su cui Bergman ha eretto una cattedrale: “voglio essere uno degli artisti che lavorano alla cattedrale che si eleva sulla pianura, perchè una parte di me stesso sopravviverà nella totalità trionfante, non importa se drago o demonio”. Ed il film ha difatti l’architettura gotica di pilastri e volte che l’innalzano in verticale, così come dispiega una magnificenza orizzontale; si offre nella sua qualità di “casa” spirituale, che Bergman ripercorre alla ricerca del padre e nella disillusione di dio. Biografia tanto più “reale” quanto visionaria, digressiva, ricca di aneddoti familiari rubati attraverso porte socchiuse, memorie colorate di sessualità, esplosioni fantastiche ed oniriche fino al colloquio con i morti. Un’esistenza in bilico tra famiglia/nucleo protettivo e luminoso, riflesso nell’esplosione coloristica e nelle luci calde della casa dell’infanzia, e famiglia/atomo opaco, dalle ramificazioni nere e inconoscibili.

Come in altre opere del grande maestro svedese, la caduta delle illusioni, la scoperta della propria soggettività sofferta e in contrasto con l’altro, la speculazione divina in uno specchio di oscurità diventano capitoli di un testo filmico in trasformazione, il cui aspetto formale si articola nell’uso complesso della luce. Ma è anche un film che ci offre lo sguardo di un bambino (Alexander, poichè Fanny è solo un personaggio minore): miracolosamente, il regista si pone all’altezza dei suoi giovani protagonisti e riesce a consegnarci, intatta, l’intensità innocente e violenta della loro interpretazione del mondo. Un presenza, quella dei bambini, talmente rivoluzionaria da essere pericolosa per l’immobilità del “vecchio” mondo autoritario e ingiusto, aggrappato con forza ai privilegi d’una fede stantìa; non per nulla il vescovo Edvard Vergérus, doppio padre arcigno (e specchio del vero padre del regista, pastore luterano), si esprime così nei confronti di Alexander: “Ho sempre creduto di piacere alla gente, mi vedevo saggio, aperto di idee, e giusto. Mai avrei pensato che qualcuno avrebbe potuto anche odiarmi. (…) Tuo figlio mi odia. Ho paura di lui.”

La giovinezza di Alexander è creatrice, è una corrente pura pronta a travolgere ciò che il grande poeta veggente William Blake chiamava “l’ignoranza annosa”. E se l’artista inglese, nelle sue illustrazioni, ci mostra un vecchio che taglia le ali ad un fanciullo, Bergman filma un “padre” che fa scorrere il sangue picchiando il ragazzo con un bastone. Tanta è la chiusura delle percezioni nel rigido vescovo quanto invece sono vive e ricettive in Alexander, attratto dalle marionette, dalle maschere, dagli incantesimi della lanterna magica con cui abbattere il muro tra realtà e immaginazione. La “menzogna” per cui Alexander viene punito è la sua immaginazione.

Il dolore di Alexander di fronte alla vita, con le sue amare perdite e i trionfi del Male, lo porta persino a proferire una bestemmia naturale, emersa dal suo cuore ferito: “Se esiste un dio, è un dio di cacca e di piscio che vorrei prendere a calci in culo”. L’apparizione di un dio-marionetta incute un misto di terrore e sfida, la rabbia di una inspiegabilità che il regista traduce nei codici del cinema orrorifico: bambole che tremano, maschere deformi, una voce che emerge dall’abisso e infine il disvelamento spaventoso.
La rabbia si fa immagine: Alexander porta dentro di sè “pensieri terribili (…) la morte di un uomo”; nella sua fantasia, il vescovo/padre è oggetto di un desiderio di morte. Un pensiero che si fa realtà, quando Vergérus muore accidentalmente a causa di un incendio scoppiato nella notte.

Esattamente come Bergman, che mai si riconciliò con la figura paterna punitiva e violenta, Alexander continuerà a “formare” un’immagine fantasmatica e minacciosa (“non ti libererai mai di me”) anche dopo il ritorno in seno alla sicurezza della casa infantile. Per sfuggire all’apparizione terribile, il ragazzo “chiude gli occhi” e si addormenta, mentre le parole di Strindberg invitano al meraviglioso. Alle figure femminili – l’amore della nonna, il sogno artistico della madre che eredita il teatro – il regista affida la salvezza, il germe dell’immaginazione che si schiude dalla malattia della realtà.

 

UNA VAMPATA D’AMORE di Ingmar Bergman

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In un’ora e mezza Una vampata d’amore (in originale Gycklarnas afton, 1953, “La notte del saltimbanco”) non contiene una singola inquadratura superflua; ogni frazione di secondo è significante – dalla composizione dell’immagine, alla suddivisione dello spazio e la scrittura con la luce. Una vampata d’amore è un universo da decifrare, linguaggio filmico complesso che investiga radicalmente la questione di cosa sia il cinema e come da esso si sprigioni un discorso sulla soggettività, sull’ambiguità dell’io, sulle pulsioni e in ultimo sul rapporto tra artista e pubblico.
“Odio il pubblico, lo temo. Ho un desiderio insopprimibile di muovermi, compiacere, terrorizzare, umiliare ed insultare. La mia dipendenza è dolorosa, ma stimolante, disgustosa e soddisfacente.” (Bergman, 1958¹). Una vampata d’amore è soprattutto un film sulla violenza: i rapporti amorosi sono visti come sadomasochistici e manipolatori; le lusinghe sono sempre mescolate alla ferocia e all’inganno, e la crudeltà è solo un pallido simulacro della passione. “Umiliare ed essere umiliato sono elementi cruciali della nostra struttura sociale” (Bergman, 1958¹)

Una vampata d’amore è talmente, radicalmente sperimentale da iniziare con una sequenza metafilmica che ne racchiude il nucleo centrale: la degradazione dell’essere umano e dell’artista. Questo prologo mette in scena il pubblico tradimento del clown Frost da parte della sua non più giovane sposa: una sequenza onirica, parzialmente muta e accompagnata da una musica circense distorta e terribile, che illustra una tragedia umana come fosse un numero di pagliacci.
Immersa in un bianco abbagliante, la sequenza alterna in un montaggio avanguardistico primissimi piani del volto disperato di Frost, la massa che ride e schernisce, la roccia su cui Frost cammina scalzo, il trucco che cola sui suoi lineamenti in agonia, la schiuma del mare. Immagini incalzanti, d’una forza devastante. L’uso della colonna sonora aumenta l’effetto di vertigine, in quanto le voci appaiono e scompaiono, sostituite da colpi di cannone, rullio di tamburi, silenzi, risa, musiche deformi.

L’urlo di Frost è tanto disperato quanto muto, inascoltato nella violenza del mondo; egli è l’artista, scarnificato dal suo pubblico. L’intera sequenza è montata e strutturata in forma di comica, ma Bergman la infetta dall’interno, e il risultato è una scena malata, tra misticismo e abiezione. Bergman trasforma questo preludio in un canto d’orrore; le rapide dissolvenze incrociano l’uomo, la natura, il pianto e la derisione, e stabiliscono un senso di pessimismo integrale da cui è impossibile uscire.
La sequenza è indubbiamente tra le cose più belle mai girate da Bergman, che lavorò a lungo sul processo fotografico per trasformarla in incubo impressionista, d’un bianco accecante. Tecnicamente non si limitò a sovraesporla, ma a trasformare il positivo in negativo e poi ancora in positivo, fino ad arrivare ad un’immagine senza alcuna qualità realistica: dura, bianca, immersa in un sole eterno e terrificante. Frost è un archetipo del dolore, e Bergman conclude la sequenza con un suo primo piano rovesciato, come se Frost fosse incapace di riempire lo spazio filmico in modo convenzionale.

Questa parabola di infedeltà riecheggia nella vicenda che attende i protagonisti del film: Albert e Anne: due disadattati, due circensi che tentano di sfuggire alla loro condizione, a quel circo fatto di sogni, pulci e vermi. Un microcosmo popolato da ingenui e freaks che si muovono in una surrealtà da ballet mecanique. Albert e Anne sono portatori di un’identità frantumata, che Bergman rivela attraverso gli specchi che dominano tutto il film, separando i personaggi, distanziandoli da se stessi, incornciandoli in una ineluttabile solitudine; specchi che, al contempo, diventano lo strumento di un inganno nel confronti dello spettatore, confuso tra la realtà ed il suo riflesso.
Quando la giovane Anne incontra il fascinoso attore teatrale Frans, Bergman ci fa assistere al tradimento degli amanti trasformandoci in squallidi voyeurs, cannibali che divorano il dolore ed il piacere che vengono dallo schermo. Lo spettatore si muove tra immagini riflesse, inquadrate con rapidi movimenti di macchina orizzontali: non vi è vera passione tra Anne e Frans, ma solo brutale desiderio di sopraffazione; la schermaglia amorosa è feroce, primordiale.

L’intuizione del tradimento muta la rassegnata passività di Albert in un’esplosione selvaggia; egli non può sfuggire alla violenza instabile, trascinante di Anne, musa in cui si condensano l’impulso e il movimento presente. Nell’ineluttabilità ciclica della storia, la sua umiliazione – com’è accaduto per il clown Frost – ha luogo davanti a un pubblico, proprio nel mezzo di uno spettacolo equestre. Bergman di nuovo si serve di un montaggio rapido che alterna la degradazione di Albert e i volti degli spettatori, contorti dal riso; Albert è ferito fisicamente e psicologicamente, come se il pubblico lo colpisse a sangue. E’ per questo che il regista lo porta a puntare la pistola contro gli spettatori (in sala) e a sparare contro lo specchio: la vendetta dell’artista, il sangue del poeta che cerca riscatto.

Una vampata d’amore termina con una riconciliazione tra Albert e Anne: li lega la loro diversità di artisti, il marchio ineluttabile della sofferenza. Bergman li fa specchiare l’uno nell’altra, in un campo-controcampo illuminato, non religiosamente, dal pallido chiarore dell’alba.

1- Modes of Representation in Ingmar Bergman’s Gycklarnas afton, di Marilyn Johns Blackwell