IL DOTTOR JEKYLL (1931) di Rouben Mamoulian

jekyll
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Nel 1931 la Paramount affida a Rouben Mamoulian la realizzazione del classico di Stevenson, per farne la prima versione sonora e contrastare il successo degli horror dello studio rivale Universal. Un compito che Mamoulian trasforma in un sogno sperimentale e atmosferico, nonché uno dei film più intensamente erotici della storia del cinema (siamo ancora in era pre-codice Hays e Il dottor Jekyll sfrutta tutto il suo potenziale morboso). Nel film il regista, coadiuvato da Karl Struss (direttore della fotografia di film come Aurora di Murnau), si serve di tutta la sua creatività fantastica per creare un linguaggio cinematografico senza limiti, fatto di soggettive, dissolvenze, montaggio rapido, stilizzazione, primissimi piani sugli occhi dei protagonisti.

Mamoulian ci conduce, per mezzo di dense nebbie, chiaroscuri, sovraesposizioni e ritmi irregolari (come il battito cardiaco di March nella tormentata trasformazione) nel ventre più nero degli impulsi sessuali, proiettati sulle due antitetiche figure femminili: la virtuosa Muriel (Rose Hobart) e la prostituta Ivy (Miriam Hopkins); ma mentre Rose Hobart incarna la noia della perfezione (e quindi dimenticabile), è sulla perfomance della Hopkins che si potrebbero scrivere libri interi. La sua sfortunata, sfrontata e innocente Ivy macchia di desiderio le inquadrature e invade gli occhi e la memoria. Se Mamoulian si adopera a raddoppiare lo spazio dello schermo con dissolvenze incrociate, profondità di campo ed zoomate improvvise, è esattamente per intensificare ciò che il cinema può contenere: le voglie, la colpa, la paura, gli istinti, la bestia e la preda.

Miriam Hopkins, mai così bella, fa del suo corpo l’oggetto e il simbolo, lo strumento filmico da cui si irradiano sottotesti – la scollatura, la schiena nuda, il profilo del seno – e soprattutto quella gamba su cui Mamoulian induce: penzolante dal letto, adornata da giarrettiera, dondolata avanti e indietro. Un’immagine che si sovraimprime sulla successiva a indicare la permanenza del desiderio ossessivo. E poi la fisicità dell’attrice, così minuta, bambina e vulnerabile; la Hopkins porta alla luce l’impulso nudo, la sua legge violenta, crudele e cieca.

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