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E’ un bene che il nuovo Halloween sia stato girato da un ottimo artigiano come David Gordon Green e non, come qualcuno auspicava, da un autore horror europeo (come Laugier o Bustillo e Maury); era fondamentale che l’immaginario di Halloween restasse specificamente americano, quasi una condizione genetica innestata nella cultura popolare statunitense; e che non intervenisse un’autorialità europea a sovrascriverne il Mito. Halloween non ha bisogno di riletture a partire da nuove sensibilità, né della distanza interpretativa di una memoria da cinephile: David Gordon Green dimostra di saper trattare la materia con il rispetto e la diligenza necessari, senza eccedere mai – né i confini sistemici dell’opera di Carpenter, né la riconoscibile condizione dello spirito che la permea. Green considera il film originale come un mondo: ne riconosce l’autonomia, la perfezione estetica e narrativa; riesce ad apprenderne grammatica, la funzione dei personaggi e soprattutto l’essenza di Michael Myers.
“The Shape”: un non-volto, un Male che procede in una ipnotica coazione a ripetere. Myers non ha una motivazione, non ci interessano le origini psicoanalitiche della sua natura; è sufficiente, come accadeva nel primo Halloween, la sua presenza: un germe del Male che informa il mondo. Myers è una fisicità muta e pesante di cui avvertiamo il respiro affaticato: il suo essere “corpo” è l’unica traccia di umanità che gli resta.
Partendo dalla piena comprensione del personaggio-Myers, David Gordon Green è in grado di “mettere in scena”, in piena fedeltà all’originale, le dinamiche tra Myers e Laurie: l’ineluttabilità del loro legame, la lenta trasformazione di Laurie in carnefice, il suo pulsionale desiderio di stringere la sua “vittima” in una morte violenta e senza uscita, in cui chiudere il cerchio del destino.
Ed è proprio in questa messa in scena che Green dà il meglio di se, mostrandosi in grado di calarsi completamente nell’Halloween carpenteriano in quanto “dimensione” e rispettandone tutte le regole: dai tópoi narrativi agli snodi di sceneggiatura, regalando numerosi omaggi (sia sequenze che singole inquadrature) all’originale.
Haddonfield è la stessa di allora: battuta dal vento, tattile nella sua atmosfera autunnale; Michael fugge e torna ad uccidere, mentre Green lo segue con i medesimi piani-sequenza: il suo scrupolo nel rispettare il linguaggio carpenteriano è ammirevole, anche quando spesso si concede di giocare con gli attanti (rovesciando, ad esempio, i ruoli di Laurie e Michael).
Certo, il film del 1978 resta l’archetipo eterno cui Green tende, talora scivolando o ricorrendo a scelte non sempre all’altezza; e pesa anche la risoluzione femminile/femminista come impone l’attuale correttezza politica. Resta però la possibilità di rientrare in Halloween come universo semantico, ritrovare luoghi, figure, atmosfere, e ritrovare la forma narrativa che tanto ci aveva avvinto. Una dichiarazione di fedeltà che appare dai titoli di testa, replica esatta dei titoli del 1978, con una zucca che si “ricompone” in un presente che ritorna. 40 anni dopo, il cinema è ancora omicidio, ed il nostro piacere ritrovato.